Sfera magica delle mie brame, come riescono a fluttuare le fontane?

“Io Galileo Galilei sodetto ho giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; et in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiuratione.” Eppur… Sentite queste mie parole… Essa poteva muoversi, volendo! Dietro un Obelisco, in fondo alla diritta strada che conduce all’alto Stadio, ove si compiono i destini d’ardue contese, un grosso globo planetario bianco come l’osso, 42 tonnellate di perfetto marmo in equilibrio sopra un plinto grandangolare. In una vasca spesso vuota in questi giorni, circondata dai mosaici di acquatiche o mitologiche creature. É una delle opere più affascinanti nel Foro Italico (o foro mussoliniano) a Roma, firmata dagli architetti Paniconi & Pediconi nel 1935, i quali tralasciarono di dargli un nome e che detiene, ancora oggi, il record mondiale di singola sfera di marmo più grande al mondo. Ma se le dimensioni contano, e su questo non c’è dubbio alcuno, tale arredo può essere considerato ad oggi una visione al tempo stesso profetica e altrettanto priva di quella caratteristica capace, più di ogni altra, di attirare l’attenzione degli spettatori. Poiché allora non riuscirono a vedere, tra le pieghe inarrivabili del cosmo, l’effettivo instradamento dell’acqua che sarebbe servito per donargli la vita.
Peccato. Perché in fondo la parte difficile, di procurarsi un blocco sufficientemente grande, per poi lavorarlo con la massima attenzione ricavandone la forma geometrica dell’assoluta perfezione, era già stata portata a termine in maniera. E tutto quello che serviva, come il fulmine caduto nel laboratorio del Dr. Frankenstein, sarebbe stato un appropriato ugello, collocato ad arte in posizione centrale sotto il logico sostegno della situazione. Il concetto linguisticamente pleonastico di sfera kugel (dal tedesco che vuol dire sfera, creando quindi l’espressione “sfera-sfera”) nasce infatti dal bisogno percepito, per quanto mai del tutto analizzato, di poter disporre di un’enorme cosa tonda che galleggia, per così dire, sopra un sottile velo d’acqua, roteando in modo regolare almeno finché qualcuno, in un’esempio affascinante d’opera d’arte interattiva, non l’afferri con le proprie mani per deviarne il corso predeterminato. Applicando la forza trascurabile di un bambino! Amata particolarmente in luoghi pubblici, centri commerciali, musei americani della scienza e qualche volta piazze cittadine, la kugel in senso moderno nasce dunque svariate decadi più tardi, nel 1986 ad opera della compagnia tedesca Kusser Granitwerke, benché sia possibile che qualcuno avesse costruito privatamente oggetti simili in precedenza, su scala più ridotta. Il concetto di una sfera rotolante interattiva, che non cade e non si blocca pur avendo un peso complessivo di parecchie tonnellate non sarebbe stato possibile prima dell’invenzione delle macchine di taglio CNC, dato il bassissimo margine di tolleranza possibile tra l’oggetto e la sua base, affinché tutto funzioni correttamente e sia del tutto scongiurato il verificarsi d’indescrivibili incidenti. La prima kugel famosa avrebbe trovato collocazione, quindi, nel 1984 presso la città di Zurigo, durante la mostra Phenomena ideata dal celebre divulgatore scientifico Dr.Georg Müller, per poi diffondersi a letterale macchia d’olio nelle diverse nazioni della Terra senza mai diventare, a dire il vero, eccessivamente comuni. Tanto che la pagina rilevante di Wikipedia, ad oggi, tenta d’elencarne la totale quantità esistente non superando le poche dozzine d’elementi, realizzati in ogni sorta di materiale come il marmo, il granito e in rari casi (e su scala più ridotta) persino pietre semi-preziose, quali l’onice e la malachite. Leggenda vuole, tuttavia, che tali sfere rotolanti possano essere MOLTE di più…

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Il nuovo sistema austriaco per costruire ponti “ad ombrello”

Nella maggior parte delle casistiche in cui un’impresa ingegneristica appare finalizzata all’immagazzinamento d’energia potenziale, l’obiettivo finale consiste normalmente nel re-impiego futuro di tali risorse, al fine di risolvere, concludere o restituire al mondo una situazione di quiete esistenziale. Unica eccezione a tale assioma, d’altra parte, risulta essere la costruzione di un ponte: criticità continuativa, precaria per definizione, mirata ad installare una struttura costruita dagli umani in quel particolare stato in essere, dell’aria priva di un appoggio, in cui normalmente non potremmo certamente camminare; figuriamoci, del resto, far passare le automobili del nostro spostamento quotidiano. Luoghi non dissimili, nei loro presupposti, dal particolare transito asfaltato della superstrada Fürstenfelder S7, recentemente (2018) costruita tra Graz e Budapest ma fino all’altro giorno priva, per grande sfortuna di ogni suo utilizzatore, di un punto di passaggio in asse sopra il fiume dell’omonima riserva naturale Lafniz, costringendo a fastidiose lungaggini e deviazioni. Almeno fino al coinvolgimento nel progetto del Prof. Dr.‐Ing. Johann Kollegger dell’Institut für Tragkonstruktionen (Istituto Strutture di Supporto) dell’Università tecnica di Vienna, a fronte dell’idea lungamente proposta e dimostrata dal suo dipartimento: la messa in opera, sostanzialmente verticale, di un ponte. Risposta ad un problema certamente noto agli ingegneri dei nostri tempi: come porre in essere qualsivoglia struttura di una certa ambizione quando mancano i presupposti, o come in questo caso i permessi ambientali, di disporre l’ingombrante supporto provvisorio della centina? Ovvero quel supporto o impalcatura, in uso almeno fin dal tempo dei Romani, usato per mantenere in stato di essere una trave a mensola prima che il pilone successivo possa dirsi, a tutti gli effetti, completato. Una domanda la cui risposta sembrerebbe scaturire dal mondo di uno degli oggetti di uso comune tra i più utili, da noi usato per deflettere le precipitazioni provenienti dagli strati superiori dell’atmosfera: ombrello che protegge, ombrello che sovrasta e ombrello, soprattutto, in grado di richiudersi ed aprirsi nuovamente in caso di necessità. Un movimento frutto di un principio meccanico, quest’ultimo, inerentemente capace di essere applicato su una scala superiore, fino a quella qui impiegata di 72 metri per 54 tonnellate, sostanzialmente il peso unitario delle due metà di una delle travi di sostegno per la costruzione dell’utile viadotto fluviale. Unite tra di loro nella sommità, ai fini architettonici preposti, da una giunzione flessibile al vertice di quella che potremmo associare, idealmente, alla perfetta rampa di lancio di un missile puntato verso il cosmo siderale. Almeno fino a che, un poco alla volta, gli elementi idraulici di sollevamento non vengono inclinati verso l’esterno, portando all’apertura, perfettamente metaforica, di quanto avrà il compito di sostenere, tanto a lungo, la viabilità locale. Und es ist einfach herzustellen: ponte pronto in poche ore. Sulle note stranamente adatte della celebre canzone Singing in the Rain

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L’espediente logistico dei camion che si alzano per salutare il Sole

Moderna cavalletta di metallo che s’innalza, le sue zampe quasi perpendicolari al suolo. Una testa temporaneamente priva di occhi, scesi prima di effettuare il gesto e dare l’ordine: “Capo, siamo pronti. Sollevare!” Quale verso può seguirti, nel tuo lungo viaggio verso il cielo? Che pensieri ti accompagnano al momento in cui sarai di nuovo libera, dal peso e dal bisogno, dallo stato di suprema servitù procedurale? C’è in effetti un sentimento, che prende l’origine all’interno del “cervello” rimovibile di simili creature (colui o colei dotato/a, per sua autonoma immanenza, di due gambe, di due braccia… E così via a seguire) e che matura dal momento esatto in cui la coppia di esistenze si ritrovano a collaborare, ricevendo da una terza parte il carico alla base della loro operazione. Che può essere di molti tipi, ma il peggiore, da molti punti di vista, è quell’ammasso indivisibile, o Zeus non voglia che si tratti di biomassa (orribile, maleodorante. Benché un ottimo concime) o ancora oggetti piccoli e persino granulari, fluidi simili alla sabbia; roba, insomma, che una volta dentro al tuo cassone non sarà poi tanto rapida a lasciarlo.
Già perché la cavalletta, in molti tendono a chiamarla un autoarticolato. Ed il momento che sto descrivendo è la Consegna: quando l’eventuale stress accumulato, in una guida lunga centinaia, oppur migliaia di chilometri, deve trasformarsi nella forza necessaria per portare a termine l’ultima delle sfide: manovrare col velante, con il cambio ed i pedali, finché il mostro insettile non venga messo in posizione. Affinché la natura, se così siamo disposti a definirla, possa compiere il suo corso pre-ordinato. Ora mettere qualcosa dentro, ovvero dare da mangiare alle creature di quel mondo, non è mai difficile. Mentre arduo tende a risultare, sopratutto per quelle cose che non possono fare affidamento su un sistema digerente, tende a volte a risultare l’escrezione. Il che in ultima analisi, non è certo condizione necessaria nella vita del trasportatore! Quando esiste, sul pianeta Terra, quella forza che può compiere il miracolo sostituendosi a noialtri, le persone. Già, la forza che governa sopra tutte le altre: che dicono si chiami Gravità.
Ecco dunque la ragione, di una simile Fatica: quelle “zampe” sono parte, a conti fatti, di un dispositivo. Idraulico, possente, fatto tutto di metallo. Che una volta preso il camion dalle redini del suo padrone, sfruttando l’energia che viene da una serie di motori elettrici, lo sollevano fino a un’angolazione di 60, 65 gradi. E poi lo scuotono, con poderosa enfasi, facendo fuoriuscire tutto il contenuto del suo corpo cubitale. Semplicemente magnifico, a vedersi! E stranamente sconosciuto, fuori dal proprio settore tipico di appartenenza. Che può includere, a seconda dei casi, il trasporto di segatura, carbone, pietrisco e altri materiali da costruzione, pneumatici, grano e addirittura frutti della terra come le patate o rape, indelicati per definizione, privi di un qualsiasi filtro dai detriti fino al termine ultimo della filiera. Detriti che finiscono, tutti assieme, entro il silo o nastro trasportatore situato sotto quello che potremmo definire, in lingua inglese, come Truck Dumper o Hydraulic Dumper. Oppur nel nostro idoma, lo Scaricatore. Imparare a conoscerlo, è dovere…

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Lo strano ponte che si srotola come una coda di scorpione

“Ebbene si, terrestre, la nostra consapevole eminenza ha familiarità con un concetto simile, che usiamo spesso sul pianeta [INTRADUCIBILE] per catturare i ladri, i traditori della quiete cittadina o chiunque altro vada contro il volere pubblico dell’Alveare. Simili implementi, disposti ai margini dei fiumi di mercurio che attraversano la nostra capitale, [INCOMPRENSIBILE] assumono l’aspetto del tutto convenzionale di un semplice collegamento tra una sponda e l’altra. Nel momento in l’entità non meritevole dovesse tentare di attraversarli, tuttavia, essi si ripiegano rapidamente su se stessi: pratico, veloce, funzionale! In un attimo, la striscia transitabile si piega e trasforma, formando un qualcosa di ragionevolmente analogo al vostro concetto di [GABBIA, GATTABUIA]. Ovviamente, a questo punto chi stava tentando di attraversare si ritrova in trappola come l’insetto Bzz’rogun’itrazput bloccato in un barattolo di melassa, mentre il ponte in questione diventa necessariamente inutilizzabile per gli almeno 200 anni della sua pena. Ed è per questo che nel corso dell’ultimo Grande Ciclo, abbiamo iniziato a costruire almeno parte delle nostre strutture sfruttando gli spazi della quinta dimensione.” Silenzio.
Alla luce tenue della fiamma del suo camino, l’architetto londinese Thomas Heaterwick congiunse pensierosamente le sue mani in prossimità del mento, ponderando le parole dell’essere di pura energia che si era materializzato a tarda notte nello spazio dietro il suo frigorifero, per fare uno spettacolare ingresso nel salone principale dove lui si trovava, bicchiere di super-alcolico alla mano, intento a leggere un buon libro sulla storia evolutiva delle rane: “Devo…Immagino… Mio caro alieno, ti dispiace se vi rubo l’idea? Credo di avere in mente il luogo perfetto per qualcosa di simile, giusto a qualche chilometro da qui…” Tipico comportamento dei migliori creativi: razionalizzare le proprie idee, non come straordinarie innovazioni frutto della propria superiorità mentale, bensì la conseguenza o ricombinazione di elementi già noti, in qualche modo rivisitati alla presenza di un dato nuovo. O come narrato nel qui presente aneddoto per lo più immaginifico, osservato attraverso il vetro di una lente d’ingrandimento sottilmente “obliqua” o “diversa”. Qualcosa che a suo modo, il rinomato designer tra le altre cose di strutture aghiformi come la scultura B of the Bang a Manchester (2002) o il padiglione britannico dell’expo di Shangai del 2010, per non parlare degli attuali e pur sempre iconici nuovi autobus a due piani di Londra serie Routemaster (2010) o l’inusitato edificio/opera d’arte The Vessel (2016) nell’ex-area industriale newyorkese Hudson Yards, specie di calderone alto 15 piani composto da un intreccio di scale che non portano da nessuna parte, sembra aver avuto modo, o ragione di fare in più di un caso. Fino alla costituzione del suo attuale studio-cum-atelier da oltre 180 figure professionali, senza contare i collaboratori esterni coinvolti di volta in volta nei progetti maggiormente alternativi, per cui tutto sembra possibile, purché rientri nella vasta cognizione umana che sconfina oltre i biechi margini della banalità. Niente di strano perciò, nella proposta che il grande architetto fece nel 2004 alla partnership per lo più privata della Paddington Waterside, con ampi finanziamenti da parte dei fratelli investitori ed uomini d’affari Reuben, da qualche anno già allora impegnati nel mandato di rinnovare e riqualificare l’area circostante l’omonima stazione ferroviaria situata nel centro esatto della city, a pochi isolati di distanza da Hyde Park; un luogo chiamato originariamente Little Venice perché attraversato, come lascia intendere quel nome, dalla serie di canali artificiali che un tempo costituivano il punto d’arrivo ultimo della via di collegamento idrica con Birmingham, per tutte le chiatte commerciali o tipiche longboats inglesi. E dove scorre l’acqua, si sa, niente ispira un senso di rinnovamento urbano quanto la collocazione di nuovi ponti. Nessuno ha mai detto, tuttavia, che debba trattarsi di strutture NORMALI…

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