La corona di piume dorate sul solenne sovrano del gruismo d’Uganda

Gioia, orgoglio ed entusiasmo sono i sentimenti che traspaiono nello spezzone in cui Megan, guardiana dello zoo di Columbus (Ohio) mostra il risultato di tante ore di condivisione dei momenti con la sua fedele amica Maybelline, un magnifico esemplare di gru coronata grigia proveniente dall’Africa Orientale. E sarebbe assai difficile negargliene il diritto. Quanto spesso capita, d’altronde, di poter conoscere direttamente una creatura straordinaria al pari di un favoloso unicorno, ippogrifo o inimmaginabile chimera dei bestiari medievali? A un tale punto appare fuori dal comune, questo uccello disegnato dal pennello di un pittore consumato, la livrea perfettamente armonica in un susseguirsi di colori contrastanti: bianco, nero, grigio, rosso sulla gola ed il marrone sulle ali. Fino all’ornamento letterale frutto di un sentito vezzo dell’evoluzione, consistente nella cresta di uno sfolgorante tonalità giallo dorato. Oh, invitato d’onore nella grande festa dedicata all’alba di una nuova Era! Oh, perfetto paradigma di cosa può essere o talvolta diventare la Natura! Quando l’ora è “giusta” e i materiali del tutto “adeguati” a compiere il miracolo del tutto inusitato dell’esistenza. Una visione degna di comparire al tempo stesso in un libro d’arte, ed il catalogo dei più tangibili volatili di questo mondo. La vera e incontrastata protagonista della scena, quando la corrispondente umana di quei mistici momenti allunga il braccio in senso parallelo al suolo, un gesto concordato tra le due per dare inizio all’agile balzo, che porterà l’uccello guardarla dall’alto in basso, prima di procedere a nutrirsi col becchime che costituisce la sua ricompensa finale. Eppure, il tutto con un’iperborea grazia o attenta ed innegabile delicatezza, di un paio di zampe lunghe e flessibili come quelle di una cavalletta gigante, sollevate ed appoggiate delicatamente sopra l’arto facente funzioni di un pratico trespolo nel sottobosco. Questo perché la Balearica regulorum, assieme alla specie consorella tanto simile della B. pavonina o gru nera coronata, costituisce il raro esempio di un volatile alto un metro e di 3,5 Kg di peso, che ancora nonostante tutto preferisce soggiornare lungamente sopra i rami degli arbusti più imponenti, al fine di riuscire a sorvegliare ed elevarsi dal pericolo costante dei suoi molti predatori. All’interno di quel vasto areale, capace di estendersi dalla Repubblica Democratica del Congo, fino all’Uganda, il Kenya ed il Sudafrica, dove il territorio tende a sovrapporsi a quello della controparte dal piumaggio più scuro. Oggetto di una lunga disquisizione tassonomica, in merito al fatto che le due potessero costituire a conti fatti mere variazioni della stessa discendenza, se non fosse per gli aspetti più profondi rilevati grazie agli strumenti dell’odierna analisi genetica di laboratorio. Una via d’accesso confluente alla più diretta osservazione di questi esseri, per carpir le implicazioni di un conveniente approccio alla vita, l’Universo e tutto il resto…

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L’apprezzabile correlazione tecnologica tra la ruota del criceto e la cattedrale

C’è della vera forza, in questo pelo dorato. Gran possanza nelle sue vibrisse, gli occhi vispi, le zampette stabili e convinte. Per un lungo tempo l’essere venuto dalla Siria, singolo animale che possa dirsi più rassomigliante a un “roditore addomesticato” ha coinvolto ed affascinato gli appassionati etologi di tutto il mondo, per la sua capacità di trasformare la prigionia in una valida opportunità. Mentre corre, corre e impegna le considerevoli energie dentro la piccola gabbietta, che nella sua mente non è piccola ma un campo vasto e ingombro di splendenti margherite, entro cui esplorare un longilineo itinerario alla ricerca metaforica dell’orizzonte. Visione fantastica ma in qualche modo realizzabile, grazie al sapiente impiego di un utile attrezzo per l’iniziativa dei suoi carcerieri: Magna Rota, la grande macina posizionata in verticale, fatta girare dal roditore occupante del suo accogliente spazio cavo. La cui ispirazione storica, in maniera alquanto inaspettata, possiamo facilmente individuare nei manoscritti e le altre opere di un tempo assai remoto, centrate attorno all’epoca del Medioevo ma risalenti anche, come acclarato dai filologi, al Mondo Antico ed in particolare l’Antica Roma. Certo, all’epoca nessuno avrebbe avuto l’occasione o il desiderio di tenere in casa un’intera famiglia di Mesocricetus auratus. Ed è per questo che a mettere in moto l’ingranaggio, a quei tempi, dovevano pensarci le persone.
Certo è che quando si sceglie di utilizzare l’aggettivo magna (latino per “[cosa] grande”) tutto è chiaramente relativo, così traslando la questione fino alle effettive proporzioni di uno o più umani, è inevitabile che la circonferenza intorno al mozzo e nesso delle situazione finisca per misurare un minimo di 3 metri e mezzo, fino a un massimo di 5 o 6. Il che valeva a dargli una funzione d’importanza tanto primaria che in effetti, potremmo giungere a considerarla l’obiettivo per cui veniva abitualmente posta in opera, in una crescente varietà di situazioni. Immaginate a tal proposito una squadra di operai e schiavi impegnata presso il territorio dell’Urbe, che su indicazione dell’Imperatore in persona avesse ricevuto il mandato di costruire l’ennesima diramazione dell’acquedotto cittadino, un’importante segno di riconoscimento del notevole ingegno civile dei nostri antenati. Struttura la quale, come ben sappiamo dagli esempi rimasti ancora in piedi, non viaggiava sotto terra come all’epoca corrente bensì sul “viadotto acquatico” di una lunga serie di archi, sostenuti all’altezza approssimativa di 10 metri. Fino alla quale, prevedibilmente, risultava necessario sollevare una grande quantità di materiali, al punto che la sola forza muscolare, di per se, non avrebbe potuto dimostrarsi altro che insufficiente. Ora se guardiamo ancora più indietro, nella lunga cronologia delle civiltà pregresse, fino alle piramidi egizie, possiamo dire che la soluzione per sfidare i cieli con le proprie costruzioni sia apparente nella forma stessa di quest’ultime, le cui pareti digradanti erano la rampa stessa, per cui uno spazio orizzontale maggiore potesse corrispondere allo sforzo comparativamente ridotto, al fine di sollevare le grandi e pesanti pietre dell’edificio. Ma poiché per i Romani, che costruivano direttamente in verticale, un tale approccio non sarebbe stato applicabile, è palese che dovesse esistere a quel punto un metodo migliore. Come allungare, quindi, lo spazio percorso più e più volte con le pietre da costruzione, riducendo conseguentemente lo sforzo necessario al sollevamento, senza per questo dover costruire l’approssimazione antropogenica di una montagna? La risposta è quella semplice, di usare una carrucola, ma non poi tanto semplice, se si considera l’implicito bisogno di ottimizzare. Così che celebre trattato De architectura  di Vitruvio (15 a.C.) allude nel suo decimo e ultimo libro ai diversi metodi per il sollevamento di carichi pesanti in uso in tutto il territorio civilizzato, tra cui possiamo individuare l’insieme di tre carrucole in un singolo sistema interconnesso, chiamato trispastios (rapporto di potenza 3 a 1) e quello ancor più efficace del pentaspostos (cinque carrucole) per cui uno sforzo pari all’entità di 50 Kg poteva corrispondere all’agevole sollevamento di un carico di 250. Ma il più impressionante degli approcci era senz’altro il polyspaston, in cui una pluralità di questi metodi venivano associati in serie, e fatti funzionare mediante l’uso di un argano o cabestano, ruota spinta innanzi dalla forza di uomini o animali, incrementando ulteriormente il vantaggio operativo degli utilizzatori. Finché in un giorno a cui è impossibile risalire, a qualcuno non venne in mente di mettere i muscoli dentro la ruota stessa…

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Animazione 3D mostra l’eccellenza tecnologica di un ponte medievale

Chiaro e fresco, serpeggiante serpe d’acqua nel cuore d’Europa. La Moldava, che partendo dalla Selva Boema confluisce nell’Elba all’altezza di Melnik. Ma non prima di aver bagnato, col suo rapido passaggio, la capitale storica del Gran Ducato di Boemia, città celebre per la sua arte, architettura e magia: Praga, che continua ad essere, attraverso i secoli, una capsula dei tempi che furono, attraverso le risultanze procedurali delle sue corporazioni e gilde ormai parzialmente dimenticate. Verso la costruzione di una serie di strutture come il ponte portato a termine verso l’inizio del XV secolo, soddisfacendo dopo un periodo di oltre 45 anni un mandato fortemente voluto dallo stesso sovrano del Sacro Romano Impero, Carlo IV. Erano le 5:31 del 9 luglio 1357, quando la prima pietra venne posta, soddisfacendo secondo la leggenda un’esigenza numerologica (la data 1357 9, 7 5:31 era infatti un palindromo, leggibile da entrambe le direzioni) finalizzata a rafforzare l’impresa ingegneristica di un’intera generazione. Che attraverso questo efficace racconto ricreato al computer, opera della Società Archeologica Praghese, si rivela essere un letterale concentrato di soluzioni particolarmente interessanti e ben collaudate.
Si parte con la realizzazione di un cassone o cofferdam secondo il metodo Romano, consistente nell’inserimento di una doppia fila serie di pali molto ravvicinati con orientamento perpendicolare al suolo, mediante l’impiego di speciali chiatte dotate di berta, nella forma romboidale di uno spazio ricavato a partire dalle bionde acque fluviali. Cui fa seguito, logicamente, la realizzazione di un terrapieno impermeabilizzante nell’intercapedine, sopra il quale viene montata una tipica ruota ad acqua per il sollevamento ciclico di capienti secchi. Tramite l’impiego di quest’ultima, senza particolari problemi, lo spazio viene allora drenato fino al punto di poter raggiungere il fondale, ove mani non viste pongono le fondamenta del pilone. Un’intelaiatura in assi di legno, sopra cui una forma in muratura simile alla doppia prora di una nave diviene un ulteriore recipiente, colmato di terriccio e sassi, la cui forma idrodinamica dovrà contribuire a deviare la forza e l’impatto delle acque insistenti del fiume Moldava. Una volta raggiunta un’altezza grosso modo corrispondente alla metà della struttura finale, l’opera prosegue mediante l’installazione ed impiego del caratteristico tipo di gru chiamato in latino magna rota (grande ruota) consistente in un meccanismo di sollevamento fatto funzionare mediante la semplice forza umana di una, oppure due persone, fatte correre come criceti all’interno di una sorta di meccanismo ginnico ante-litteram, con un guadagno energetico davvero significativo. Questo metodo, attraverso lunghi e operosi giorni, permetterà quindi la messa in opera della struttura temporanea della centina, l’insieme di sostegni e impalcature lignee utilizzati per sostenere un arco durante la sua costruzione e prima della posa della chiave di volta, sufficiente a garantirne la solidità anche in assenza di cemento o malta di qualsivoglia tipo. Che in effetti nel mondo antico e medievale molto spesso non si usavano, anche in strutture destinate a sopravvivere fino ai nostri remoti giorni. A questo punto, un po’ alla volta il ponte cresce, con pietre quadrangolari prelevate direttamente dalle imbarcazioni di trasporto e disposte in una doppia muraglia, non del tutto dissimile da quella di una cattedrale o fortezza. Ulteriori strati d’inamovibile terriccio vengono così deposti, tra le alte mura, fino all’altezza desiderata, momento in cui si passa all’implementazione della strada, percorribile a cavallo oppure a piedi, che dovrà da quel momento congiungere le due metà della città di Praga, chiamate rispettivamente “vecchia” e “piccola”. Ma non prima che una fondamentale struttura spiovente, disposta sopra la parte esposta dei piloni, possa incrementarne ulteriormente il grado continuativo di resistenza agli elementi. A questo punto chiaramente, visto il tempo trascorso, ogni persona originariamente coinvolta nel progetto sarebbe stata ormai molto anziana o defunta. Come anche lo stesso Imperatore, passato a miglior vita nel 1378, circa 24 anni prima che il ponte recante il suo nome potesse andare incontro alla solenne e tanto lungamente attesa inaugurazione. Per diventare un passaggio obbligato durante l’incoronazione dei suoi successori aprendo un nuovo capitolo, destinato ad arricchirsi di numerosi punti di contatto con le complesse tribolazioni storiche della città di Praga.

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Paesi Bassi, telecamera in alto: 10 minuti per navigare tra le due maggiori città d’Olanda

Nell’Era della crisi ed ancor più a ragione durante la sua stagione pandemica, importante strumento di sopravvivenza diviene la capacità di reinventarsi a seconda delle possibilità offerte da un mondo in continuo divenire, per i corsi e ricorsi delle maree tecnologiche capaci di risalire il grande fiume. Molte sono le strade possibili, per chi dispone di un’opportuno senso dell’orientamento (e una buona dose di fortuna) e alcune di esse, forse contrariamente alle aspettative, prive dell’asfalto che permette di sfruttarle con autoveicoli gommati. Ma piuttosto fatte d’acqua scintillante, da un lato all’altro di una mappa striata d’azzurro e celeste, i colori usati rispettivamente per i fiumi, laghi e canali. D’Olanda, dove mai, altrimenti? Patria di Vermeer, Van Gogh, Rembrandt e “Timewriters”, l’azienda fondata nel 2012 da Bas Stoffelsen per occupare una particolare nicchia della comunicazione a fini di marketing del mondo contemporaneo: quella del timelapse, ovvero la creazione di video accelerati con il fine di riassumere allo sguardo scene o procedure troppo lente, e in conseguenza di ciò noiose, per riuscire a colpire normalmente l’animo degli umani. Un approccio artisticamente valido e talvolta addirittura creativo, come i membri della compagnia pensarono di dimostrare al mondo con l’innovativo video realizzato appena un anno dopo la costituzione del marchio, soltanto per trovarsi costretti a metterlo a parte nel momento in cui l’applicazione di una misteriosa legge o restrizione nazionale gli avrebbe impedito di pubblicarlo su YouTube. Ma il tempo scorre come l’acqua sotto i canali ed allo stesso modo, riesce qualche volta a trasportare via gli scheletri delle biciclette gettate in mezzo a quei piloni ponderosi che sostengono la via maestra. Così ecco finalmente, in tutto il suo splendore dedicato ad un frenetico autunno del 2020, From Rotterdam to Amsterdam in 10 minutes, che mostra circostanze largamente riconoscibili da una prospettiva decisamente del tutto nuova. Protagonista della sequenza, una pilotina/rimorchiatore di colore rosso intenso, qui mostrata mentre compie un’itinerario tra i più affascinanti immaginabili per qualsivoglia tipo d’imbarcazione. Partendo dal fiume della Nieuwe Maas, effluente del grande Reno in prossimità della sua foce, in mezzo agli alti condomini e procedendo oltre il ponte sollevabile di Rotterdam per poi deviare nel tratto incanalato dello Hollandse IJssel deviando verso il paesaggio settentrionale fatto di pittoreschi villaggi, paludi e polder, fino al profilo riconoscibile della capitale. Un viaggio che potrebbe far pensare, nelle sue primissime battute, ad una ripresa realizzata via drone almeno finché non si fa mente locale sulla sua durata in tempo reale per oltre un intero giorno e la distanza percorsa in assenza di alcun tipo d’interruzione, senz’ombra di dubbio eccessiva per un singolo pieno di batterie. Il che conduce in poco tempo alla domanda rilevante di che cosa, esattamente, si trovasse all’altro capo del cavo di traino fuori dall’inquadratura, per giustificare il viaggio senza scali della piccola e zelante imbarcazione da lavoro. Ovvero quell’oggetto che costituisce, in aggiunta a ciò, anche il palco da cui l’intero mondo di Internet è chiamato a visualizzare l’intrigante itinerario…

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