Se dobbiamo basarci sulle esperienze pregresse del settore, succederà in un momento ancora imprecisato di questo imminente inizio del 2019: in una giornata il più possibile priva di nubi, presso l’aeroporto di Manassas in Virginia, quartier generale della Aurora Flight Sciences, una certa quantità di persone (almeno dieci) si metterà a correre sulla pista di decollo con le braccia alzate verticalmente verso il cielo. E le mani ben strette, a sorreggere un oggetto largo quanto un Jumbo Jet ma non più pesante di un’automobile Smart. Raggiunto il massimo della velocità consentita dalle loro gambe umane, anche considerato il carico non propriamente usuale, al sopraggiungere di un segnale udibile lasceranno andare il principale portatore delle loro speranze. Affinché possa procedere verso l’orizzonte del futuro, sfruttando la forza di sei motori elettrici, capaci di trarre l’energia direttamente dall’astro solare. Questo perché collegati, attraverso la struttura in fibra di carbonio e il tessuto a base di polivinilfluoruro noto come Tedlar, alla più impressionante serie di pannelli solari montata su un velivolo nell’intera storia del volo. Oppure perché no, la stessa mansione potrà essere svolta da un apposito carrello, rigorosamente destinato a rimanere a terra dopo che l’aereo privo di pilota sarà stato in grado d’iniziare il suo viaggio per contenere il peso. Dopo tutto, qualcosa di simile compare nei primi secondi dell’ennesimo rendering, pubblicato online da una delle molte compagnie che hanno scelto di lasciare la propria firma nel campo innovativo degli HAPS (High Altitude Platform Stations) apparecchi concepiti per restare in volo ad alta quota a tempo indeterminato. Possiamo già immaginare dunque, in perlustrazione stazionaria sopra i monti Appalachi o la Sierra Nevada, un lontano erede di questo vasto ed aggraziato prototipo di nome Odysseus, che per settimane, mesi o persino anni sorveglierà l’evolversi delle stagioni, fornendo un tipo di servizio destinato ad essere determinato in base alle necessità del caso. Il che significa, in altri termini, che il potenziale di una simile invenzione può essere quantificato in chilogrammi: 25 per essere precisi, sufficienti a sostenere una quantità e varietà di strumentazione scientifica del tutto paragonabile a quella di un piccolo satellite ad uso commerciale. Con una spesa, per il committente, di una mera frazione dell’alternativa tradizionale, nonostante i risultati raggiungibili possano soddisfare la stessa classe di aspettative.
Pensate, a tal proposito, alla tipica metafora usata per descrivere il volo orbitale: un virtuale proiettile sparato da un punto preciso del pianeta, abbastanza lontano perché la sua traiettoria lo porti a superare la curvatura dello stesso, tornando a precipitare con un arco che interseca soltanto momentaneamente gli strati superiori dell’atmosfera. E poi ancora e ancora, sfuggendo alle conseguenze normalmente inevitabili dell’attrazione gravitazionale. Che dire, invece, di un aeroplano di carta? Qualcosa che semplicemente fluttua indefinitamente a una posizione meno elevata. Avendo scoperto, per il tramite dei propri costruttori umani, il segreto letterale del volo eterno. Si tratta di una sorta di Santo Graal della tecnologia aeronautica moderna, perseguito a turno da svariate aziende di telecomunicazioni e informatica, tra cui in epoca recente le stesse Google e Facebook; questo, nel caso in cui la succitata equivalenza in Kg di un bancale di bottiglie d’acqua possa essere occupata da ripetitori di segnale, ricevitori Wi-Fi o altre amenità capaci di contrastare in qualche modo il sempre problematico cartello dei gestori telefonici sul territorio statunitense. Ma c’è qualcosa di specifico che Odysseus potrebbe fare, nei fatti, molto meglio di qualsiasi apparato veicolare abbastanza in alto da risultare invisibile a occhio nudo: monitorare il territorio e le nubi, per periodi estremamente prolungati, al fine di presentare dati scientifici validi a confermare la situazione del mutamento climatico che pesa sul nostro immediato domani. E di certo, allora, nessun politico potrà continuare a negarne l’esistenza…
cielo
Il fenomeno atmosferico che cambiò la storia d’Inghilterra
La mano del cavaliere che impugna la lancia, guidata verso l’obiettivo da una forza imperscrutabile ma possente. Lo scudiero di rincorsa, a terra, con la mazza che impatta sopra l’usbergo del suo nemico disarcionato. La freccia lanciata, dalla cima del colle, verso lo schieramento del comandante. “Morte ai Lancaster” gridò qualcuno, sollevando un grande stendardo tra la polvere irrorata dal sangue: “Gloria alla rosa bianca della casata di York!” L’andamento della battaglia di Mortimer’s Cross, prima prova di tattica in questa guerra di Edoardo di Rouen, il Duca di York, era ormai perfettamente chiaro. Poiché ogni singolo componente del suo schieramento, d’un tratto, pareva combattere con una convinzione superiore a quella di una singola persona. Da dove traevano, costoro la loro forza? La risposta profetica splendeva in cielo, durante quel giorno del 2 febbraio 1461, presso l’incrocio di Mortimer, vicino al castello di Croft. In un primo momento, la situazione non era parsa volgere a loro vantaggio. Il nuovo comandante, che si era ritrovato al potere dopo l’uccisione di suo padre Riccardo Plantageneto in battaglia, durante la lunga campagna contro i sostenitori delle aspirazioni al trono di Enrico VI e la sua consorte, l’odiata Margherita d’Angiò, si era trovato costretto ad intercettare i rinforzi guidati da Jasper e Owen Tudor, prima che potessero unirsi all’armata principale. Qualche migliaio di uomini (la quantità è incerta) condotti attraverso marce forzate fino all’unico punto possibile per bloccare gli oppositori, su un campo di battaglia che non era stato attentamente selezionato né in alcun modo vantaggioso per i conduttori del rapido assalto. Molto da vendicare, con così poco tempo a disposizione… E un attimo prima che fosse possibile dare l’ordine dell’assalto, il misterioso presagio. Nell’aria tersa dell’inverno inglese, in apparente assenza totale di nubi, il riflesso del Sole che si fa più ampio, fino al formarsi di un colossale alone di forma circolare. E mentre i guerrieri che avevano giurato fedeltà alla casata di York, schermandosi parzialmente gli occhi con le visiere dei grandi elmi, scrutavano sospettosi verso l’alto, d’un tratto l’impossibile trasformazione: ai lati della splendente geometria, due cerchi di luce, posti in perfetto allineamento con l’imperscrutabile astro centrale. A cui fece eco, inaspettatamente, il galoppare del cavallo del Duca Edoardo, che con voce stentorea declamava: “Osservate, miei coraggiosi. Guardate il segno propizio di questo giorno di gloria: accanto alla luce di Dio Padre, compaiono il Figlio e lo Spirito Santo. Questa visione ci è stata inviata per farci sapere che anche Lui è con noi.” Quante battaglie, nel corso della storia, furono vinte dal volo di un corvo, il richiamo di un falco, l’improvviso guizzo di un pesce scaturito dal fiume ruggente? Quanti presagi, con l’improvviso palesarsi, mutarono l’animo e i propositi di vittoria nei momenti cardine dell’intera vicenda umana? E fu questa, quel giorno, secondo gli storici, la funzione del più importante parelio registrato nella storia medievale d’Inghilterra, un fenomeno consistente nella comparsa illusoria, ritenuta per lo più insolita, di due “soli” più piccoli accanto al genitore supremo. Davvero niente male, come ausilio superstizioso alla ricerca di una strenua vittoria in battaglia!
Il primo testo tramite cui ci è giunto il nome scientifico convenzionale furono le Naturales Quaestiones di Seneca, nel quale lo storico latino del primo secolo cita le misteriose imagines solis (immagini del sole) per cui i greci erano soliti utilizzare l’espressione parhelia, in quanto si trovavano vicino ad esso (παρα-) ed erano simili a lui. Ma nell’epoca medievale, sopratutto in un contesto delle isole britanniche toccate almeno in parte dalla cultura norrena dei vichinghi, il popolo era solito definirli solhunde o solhund ovvero, i cani solari. Questo probabilmente perché, secondo la leggenda del Ragnarok, il Sole e la Luna sono inseguiti da due lupi in corsa nella volta celeste, Hati Hróðvitnisson e Sköll, finché essi non riusciranno a prenderli e divorarli, scagliando il mondo nella più perenne e irrimediabile oscurità. Ma fino ad allora, i due astri celesti tutt’altro che spaventati, tenteranno occasionalmente di contrattaccare, facendo infuocare le bestie che tentano di abbagliarci con la loro furia. Altri filologi, nel frattempo, sono pronti a giurare che l’espressione in lingua inglese sia più moderna, epresa in prestito a partire dai popoli nativi del Nord America, che erano soliti paragonare la visione a quella di “un cane che balza nel cerchio di fuoco.” La scienza moderna, purtroppo, ha smentito la colorita ipotesi, offrendoci una spiegazione decisamente più probabile, benché meno affascinante. Il cane solare, a quanto pare, sarebbe un prodotto del ghiaccio…
Il disco sacro con l’immagine del cielo primitivo
“Forse il singolo ritrovamento archeologico più importante dello scorso secolo” 3.600 anni a questa parte, qualcosa di unico venne sepolto sotto il suolo di Nebra, nella Sassonia-Anhalt della Germania. Da qualche tempo l’UNESCO, in aggiunta al suo celebre catalogo dei beni da considerare patrimoni naturali, storici e intangibili dell’umanità, ha iniziato a compilare una nuova lista, intitolata Memory of the World. Al suo interno, furono gradualmente collocati i principali documenti dotati di forma fisica che rischiavano di scomparire dalla nostra memoria, incluse cronache, registri, bolle di stato, manoscritti di corrispondenza… Per sua stessa imprescindibile natura, un simile repertorio si componeva in origine, salvo alcune meritevoli eccezioni, di pezzi risalenti agli ultimi due secoli o poco più. Difficilmente la carta riesce a preservarsi oltre le generazioni e dunque non è facile, costituendo un tale database, riuscire a renderlo retroattivo. Proprio per questo, è una fortuna che non abbia trovato un utilizzo realmente universale almeno fino al secolo della scienza, e che gli antichi, molto spesso, affidassero le loro conoscenze a materiali maggiormente duraturi. Come il bronzo.
Fu un evento largamente inaspettato, e sotto più di un punto di vista, alquanto deleterio. Era il 1999 quando Henry Westphal e Mario Renner, una coppia di cacciatori di tesori abusivi o tomb raiders che dir si voglia, si apprestavano di nuovo a ritornare a casa senza niente di nuovo da inserire nel datario dei loro ritrovamenti. Quando all’improvviso, uno dei loro metal detector lanciò un suono, abbastanza lungo da giustificare un approfondimento. Pale subito alla mano, scavando freneticamente nel crepuscolo (tutti i manufatti archeologici di questa regione sono legalmente proprietà dello stato) iniziarono a spostare il suolo friabile allo scopo di raggiungere l’oggetto, o gli oggetti, che speravano di aver trovato. Finché finalmente, un sonoro CLANG! Annunciò che l’opera si era conclusa. E le due mani lievemente tremule, introdotte nel pertugio ombroso, non ritornarono alla luce con il più bizzarro che fosse possibile immaginare: un oggetto di forma circolare lievemente frastagliato, con la caratteristica colorazione verde-acqua del bronzo ossidato. Sulla cui superficie, i precedenti proprietari avevano incastonato alcuni simboli d’oro, raffiguranti il disco solare, una luna crescente e una serie di tondini disposti a caso, che parevano alludere a una qualche costellazione, probabilmente quella delle Pleiadi. Westphal e Renner lo misero da parte, quindi continuarono a scavare. Molto più interessante nell’immediato, per loro, si dimostrò essere il resto del contenuto della tomba, inclusivo di due spade, due asce, un cesello e alcuni frammenti di bracciali spiraleggianti nello stile dei proto-celti. Tutto venne subito introdotto nel loro sacco da escursione, incluso lo strano oggetto, che nell’opinione non propriamente informata di uno di loro, fu a quanto pare definito “Il coperchio di un secchio” (in metalli preziosi?) Il giorno immediatamente successivo, incontrandosi con un loro contatto a Colonia, i due vendettero l’intero tesoro per la cifra non trascurabile di 31.000 marchi. La quale non era nulla, in confronto a quanto lievitò il prezzo nel corso dei due anni successivi, durante i quali il disco cambiò proprietario più volte, raggiungendo almeno in un caso la cifra di vendita di un milione di marchi. Finché nel febbraio del 2002, l’archeologo di stato Harald Meller non riuscì ad acquisirne il giusto possesso, grazie a una retata della polizia presso la città Svizzera di Basel, dove il disco stava per essere venduto di nuovo a 700.000 marchi. Una breve indagine permise di risalire ai due accidentali scopritori, che furono subito arrestati.
I quali, nel tentativo di ridurre la propria pena, furono pronti a collaborare raccontando della tomba di Nebra che avevano scoperto quel giorno, e l’origine della catena di commercio che li aveva condotti fino a un simile malcapitato momento. Un pezzetto d’oro originariamente fatto separare dal colpo accidentale della pala fu ritrovato presso il sito archeologico, confermando la loro storia. Con tutti i dati in suo possesso, quindi, il Dr. Meller pubblicò un elenco di mirato a convincere il mondo accademico dell’autenticità del disco, inclusivo delle sue possibili funzioni e di quanto fosse significativo per cambiare la nostra concezione della vita nell’Europa primordiale.
Mai sognato di toccare un grifone d’acciaio in volo?
Qualche settimana fa, l’intera Internet si è appassionata a una vicenda carica di grazia ed armonia. Mr. President e The First Lady, una coppia di aquile residente nel National Arboretum di Washington D.C, aveva deposto le uova! Trascorso il tempo necessario, prima uno, quindi due aquilotti hanno fatto capolino con il becco sopra il nido, cinguettando quietamente alla maniera tipica di tali allegorie dal bianco capo. E così, gli americani hanno esultato ancora una volta, accarezzando mentalmente quelle piume che per loro sono un simbolo di Libertà. E non è certo un caso, se costoro scelgono di appassionarsi ad una simile vicenda (e noi con loro) in modo tanto pubblico ed enfatizzato dai giornali. Le cose volanti, a partire dalla leggenda degli pterodattili, hanno sempre affascinato l’uomo. Ma pensateci: ridurre a simbolo del tuo paese un tenero pulcino appena nato! Ecco qualcuno che non ha alcunché da dimostrare… E lo credo: chi potrebbe mai mettere in dubbio la potenza sulla scena internazionale del più forte, grande e militarmente avanzato paese dell’Emisfero Occidentale; per non dire… Di entrambi. Mentre guarda caso nella patria dell’Ikea, uccelli di un diverso tipo devono trainare ultimamente il carico della fierissima rappresentanza. Rombanti, rutilanti mostri di metallo, aerei da combattimento privi dell’innata grazia delle cose naturali. Ma tutt’altro che estranei a un latente grado di splendore ed armonia.
JAS Gripen, hanno scelto di chiamarlo. Dove l’acronimo sta per Jakt (aria-aria) Attack (incursione) e Spaning (ricognizione). Mentre il secondo termine è il nome svedese della creatura araldica che si annida nel logo della Saab Defence and Security, il braccio armato della più famosa azienda aerospaziale di quei luoghi, ovvero il mostro con la testa d’aquila ed il corpo di un leone. Usato in questo caso per simboleggiare un qualche cosa di almeno altrettanto pericoloso. Ovvero un caccia straordinariamente efficace ed agile, nonché in un certo senso intelligente, fuoriuscito dai cantieri semi-gelidi per la prima volta nella primavera del 1988. Ma che soltanto nove anni dopo, dopo un lungo periodo di prove e test piuttosto travagliati, è finalmente entrato in servizio nell’aviazione di questo ed altri paesi clienti. Una creatura mai che nessuno aveva mai visto prima d’ora…Tanto da vicino, nel suo ambiente naturale, con una tale nitidezza dei contorni ed una visibilità dei dettagli pressoché totale! E non c’è molto da meravigliarsi, in tutto ciò. Dopo tutto, in questo caso abbiamo l’assistenza dei migliori: la Blue Sky Aerial di Peter Degerfeldt e Göran Widenby, compagnia di riprese estreme già celebre per il ruolo avuto in numerose produzioni di Hollywood, pubblicità e video propagandistici di vario tipo. Nonché, in senso estremamente letterale, i proprietari della telecamera più veloce dell’Europa Settentrionale. Ce lo raccontano brevemente nella descrizione al video, per il quale erano stati “sfidati” dalla succitata compagnia nel trovare un metodo per mostrare l’aereo in questione al mondo, mentre volava alla velocità di 300 nodi, in quota relativamente bassa e con -20 gradi di temperatura al suolo. Un’impresa niente affatto semplice, sopratutto quando si considera come i migliori sistemi di stabilizzazione per impiego aereo sul mercato, allo stato attuale delle cose, siano certificati al massimo per l’uso a bordo di elicotteri. Il che significa sostanzialmente, una velocità massima di 125 nodi. Decisamente troppo pochi per servire allo scopo. Ma niente che un’attenta opera ingegneristica, guidata da alcuni dei leader del settore, non possa superare con successo pieno e significativo. Così è stato creato il sistema GSS 520 a cinque assi, un’apparecchiatura in grado allo stesso tempo di trovare posto nella gondola per gli armamenti dell’aereo da addestramento Saab 105, e mantenere stabile una costosissima telecamera Red Dragon da 6K di risoluzione. Mentre un modem senza fili si occupava di comandarne l’inquadratura. Il risultato, beh… Grazie all’opera di Degerfeldt stesso, che si trovava nel seggiolino del secondo con il radiocomando ben stretto fra le mani, mentre il suo pilota si occupava di mantenersi in formazione livellata con il mostro dei cieli, ogni singola inquadratura risultante si è dimostrata abbastanza precisa e stabile da essere il prodotto di un perfetto videogame. Ed il tutto, al servizio di un progetto estremamente significativo: la realizzazione del portale web per l’imminente presentazione al pubblico della nuova versione dell’aereo protagonista del video, l’atteso Gripen NG. Un aereo che potrebbe cambiare le carte in tavola, per molti dei paesi con un’aviazione degna di questo nome. Stati Uniti esclusi, ovviamente.