Nell’architettura sacra indiana, il gopuram è una porta monumentale riccamente ornata, da uno sviluppo marcatamente verticale e utilizzata per contrassegnare la presenza di un idolo, raffigurazione materiale della divinità. Dalla forma generalmente rastremata o a gradoni, principalmente per ragioni di stabilità, simili strutture sono spesso tra le più alte delle antiche metropoli del subcontinente, facilmente visibili oltre le abitazioni o gli edifici pubblici circostanti. Nella città di Thiruvananthapuram, capitale e principale centro abitato dello stato del Kerala, sorge un gopuram meta d’innumerevoli pellegrinaggi, particolarmente famoso perché possiede le “dieci caratteristiche” di un grande tempio: antichità, presenza di sacre scritture, importanza storica, origine in una foresta, vicinanza all’oceano, posizione elevata, connessioni alla dinastia reale, menzione negli antichi testi, magnificenza architettonica e grandiosità delle celebrazioni. Talmente importante, nel suo ruolo primario tra i 108 templi dedicati a Vishnu (Divya Desam) che la visita da parte dei turisti è effettivamente scoraggiata, e l’ingresso dei non induisti all’interno del complesso formalmente vietato, dietro sorveglianza dei bramini dediti alla non-violenza, ma cionondimeno attenti e segretamente armati con delle pistole. Questo perché, oltre ad essere un luogo di culto, il grande tempio dal nome di Padmanabhaswamy è anche una proprietà della famiglia reale di Travancore, secondo una vecchia leggenda impiegata come cassaforte per indicibili tesori. Leggenda che avrebbe trovato conferma nel 2011, quando un decreto governativo venne impiegato per autorizzare un gruppo di archeologi di stato ad entrare nelle sale sottostanti, al fine di realizzare un inventario degli antichi reperti segretamente custoditi all’interno. Torce elettriche alla mano, piedi di porco, fibre ottiche e vanghe alla mano, i profanatori si sono quindi trovati dinnanzi a una serie di sei porte, tutte rigorosamente prive di cardini, serrature o maniglie di alcun tipo. Qui la storia si fa confusa, poiché sembra che di comune accordo, costoro abbiano lavorato per svariati giorni riuscendo ad aprire soltanto le cinque identificate dalla A alla F, saltando la B: all’interno delle stesse, oro e argento in quantità incommensurabile, ornamenti sacri, intere noci di cocco ricoperte di gemme e alcune sculture raffiguranti elefanti, il cui valore unitario sarebbe stato misurabile in svariati milioni di dollari ciascuna. Per quanto riguardava l’ultima porta, tuttavia, gli uomini si fermarono, come impietriti da un terribile presentimento. A fargli la guardia, infatti, c’erano due sculture di enormi cobra eretti in maniera perpendicolare al suolo, i cappucci aperti in maniera minacciosa, gli occhi tanti vividi che sembravano incontrare direttamente lo sguardo degli uomini sottostanti. L’aria parve inoltre farsi più pesante ed i suoni assunsero un’innaturale tonalità ovattata. “State attenti, è l’effetto della Naga Bandham” esclamò uno tra loro, che aveva studiato le antiche scritture del dharma, riconoscendo i chiari segni di una stregoneria finalizzata a proteggere i luoghi sacri, invocando la presenza dei serpenti senzienti, l’antica razza al di sopra dell’umanità che un tempo governava il mondo dal letto dei laghi e dei fiumi d’India. Risultato: il consenso collettivo che dopo tutto, era stato fatto abbastanza, visto e considerato che la famiglia reale, in breve tempo, dichiarò che tutti i contenuti della camera B fossero connessi in modo particolare al ruolo sacro del tempio, ed ogni profanazione avrebbe condotto ad un accumulo di un karma straordinariamente negativo, invocando la collera degli Dei.
Di lì a poco, quindi, ogni persona che aveva partecipato alla spedizione iniziò a pagarne le conseguenze. Uno degli archeologi si ammalò e morì. Un altro subì un incidente d’auto. I loro colleghi subirono lutti familiari, come la morte improvvisa dei genitori. Possibile che ciò stesse accadendo per l’effetto della collera di Vishnu, dio al tempo stesso misericordioso e iracondo, benevolo e spietato all’occorrenza? Fatto sta che in breve tempo, iniziarono a girare voci sulla camera B del tempio dedicato a Padmanabha, l’avatar (personificazione) del grande protettore dell’Universo fosse stata sigillata per un preciso motivo, e quel motivo era impedire la letterale distruzione dell’intera città soprastante. Alcuni dissero che dentro la stanza, in qualche maniera, fosse custodita l’intera progenie dei Naga di Travancore, pronti a scaturire e sfogare sull’umanità la collera repressa d’interminabili secoli di prigionia. Secondo altri, il sottosuolo del tempio sarebbe stato connesso direttamente all’oceano, con una pressione sufficiente ad allagare la regione e potenzialmente, l’intero stato del Kerala. Nel frattempo, entro la fine del 2013, i tesori prelevati dalle altre camere sotterranee con lo scopo dichiarato di essere esposti in un museo iniziarono ad essere sostituiti con delle copie placcate in oro, mentre l’orribile sospetto fu che qualcuno li avesse trafugati e che proprio costui, in maniera potenzialmente disastrosa, conoscesse vie d’accesso segrete che potevano essere impiegate per accedere anche al sacello mistico della camera B. Il progetto di estrazione ed archiviazione dei tesori fu quindi abbandonato, ripristinando il tempio alla sua originale inaccessibilità sacra mentre i bramini ricominciavano il loro attento pattugliamento. Ma tornare indietro, a quel punto, poteva rivelarsi impossibile…
catastrofi
Il gemello segreto che insegue il Sole
Tutto appariva normale, nel braccio periferico del disco della galassia. Ma se lo si guarda da abbastanza lontano, è praticamente sempre così… Quale enorme supernova, che incomparabile disastro, potrebbe risultare abbastanza forte da scuotere in un dato momento l’agglomerato di un milione di stelle? Ogni cosa è importante, in senso cosmico eppure da un certo punto di vista, proprio per questo, quasi niente lo è davvero. Una simile situazione cambia radicalmente soltanto quando un evento si analizza nello specifico, dal particolare verso l’assoluto, immaginando il punto di vista di chi deve vivere (o non-vivere) con le conseguenze di simili cause spropositate. Eppure, come nel caso delle antipatie e differenze tra antiche divinità, che condussero a guerre apocalittiche nell’era delle antiche mitologie, nessuno poteva davvero profetizzarlo. Quando d’un tratto, trascorsi i canonici 26 milioni di anni, ritornò lui. L’astro cupo delle profondità galattiche, una silenziosa nana grigia dalle emissioni praticamente impercettibili, passando attraverso l’agglomerato della nube di Oort. Colui o colei che da sempre aveva condotto un’esistenza del tutto solitaria, senza influenzare o essere influenzato da chicchessia. Tranne che in quei singoli e rari, ma regolari casi, in cui oltrepassando il velo glaciale, era sbucata nell’oscurità oltre l’ultimo dei pianeti. Trascinandosi dietro una certa quantità di meteore e comete. Stiamo parlando, sia chiaro, di un qualcosa di largamente ipotetico. Una risposta, piuttosto che la domanda, relativa al perché, effettivamente, possa essersi verificata a più riprese l’estinzione di un parte significativa della vita terrestre. Che fa da corollario alla celebre teoria del grande impatto, andando ad analizzarne la remota e poco luminosa ragione: la vendetta di un fratello. Il ritorno di un dio offeso. Colui che nascendo assieme alla nostra stella, aveva avuto la peggio, crescendo debole e malaticcio.
Il come e perché ciò potesse essersi verificato, fin dall’elaborazione di questa sfrenata ipotesi verso la metà degli anni ’80 e la denominazione dell’oggetto col nome piuttosto suggestivo di Nemesis, sono rimasti largamente ignoti alla scienza. Finché lo scorso 28 aprile non è stato pubblicato, sul server online dell’università di Cornell, un nuovo studio realizzato da Steven Stahler, astronomo di Berkeley, e la sua collega Sarah Sadavoy, mirato a presentare un’analisi dell’indagine astronomica di tutte le protostelle della nube molecolare di Perseus, sita a circa 230 parsec dal nostro sistema solare, un’operazione denominata VANDAM (VLA nascent disk and multiplicity survey). La precisa catalogazione, sostanzialmente, di una vera e propria forgia galattica all’interno della quale si verificano la serie di reazioni e coincidenze alla base della nascita di un corpo astrale del tutto nuovo. Il procedimento dell’elaborazione di una statistica matematica, si sa, è la strana prassi per cui il frequente verificarsi di un qualcosa lo rende più probabile in futuro. Oppure, in casi ancora più privi di una logica generativa, si presume succedere l’esatto contrario. Fatto sta che all’ennesimo spalancarsi di una simile finestra sull’infinito, in molti casi la sola che abbiamo, è apparso evidente come la maggior parte delle stelle neonate di classe spettrale G2 di Perseus, ovvero le più simili alla nostra, apparissero come parte di un sistema binario distante. Il che voleva dire, sostanzialmente, che esse ruotavano l’una attorno all’altra, a una distanza di circa 500 unità astronomiche, che poi sarebbero 17 più della distanza che c’è tra il Sole e il suo ultimo pianeta, Nettuno. Questo perché, come ampiamente dimostrato dai radiotelescopi del New Mexico usati nel corso del sondaggio, per ciascuna formazione stellare era presente una concentrazione molecolare nota come “ammasso denso” simile a un uovo con due tuorli distinti. Talvolta più distanti, e quindi propensi a separarsi per l’effetto della forza centrifuga rotativa, e qualche altra invece estremamente vicini, inevitabilmente destinati a formare sistemi multipli come quello della vicina Alpha Centauri. Ma il caso del Sole e di Nemesis, per inferenza, dovrebbe essere ancora diverso, ovvero quello di una delle due parti che assorbe una simile quantità di materiale da subordinare la sua controparte, limitando le sue dimensioni sufficientemente da farla restare intrappolata nel suo campo gravitazionale. Con le succitate conseguenze che purtroppo, noi già ben conosciamo. È una strana correlazione di fattori, che ci permette di comprendere qualcosa del nostro più prossimo vicinato attraverso l’osservazione di una realtà sita ad oltre 700 anni luce di distanza. Il che significa, incidentalmente, che stiamo osservando il passato. Ma questo, come si dice, è tutto un’altro paio di maniche…
Piattaforma Larsen C, la catastrofe incombente del Polo Sud
È successo recentemente, anche se non se n’è parlato molto. Chissà poi perché. Verso l’inizio del 2017, i ricercatori inglesi del progetto MIDAS, volando a bordo di aeromobili dall’alta autonomia, si sono recati a controllare la situazione di un luogo per loro molto familiare, sulla sottile striscia di terra emersa che si estende nel bel mezzo del mare di Weddel, da capo Longing fino all’isola di Hearst. Per scrutare con i loro stessi occhi qualcosa di terribilmente preoccupante: che la lunga e sottile crepa nel continente, ormai sotto osservazione da parecchi anni, si era ampliata in maniera esponenziale. E che il momento del distacco, oramai, appariva quanto mai vicino.
Nessuna sfera è perfetta ed immutabile nel tempo, questione assolutamente vera anche per la più grande su cui ci sia capitato di appoggiare i nostri piedi, il dinamico, diseguale, ormai inquinato pianeta Terra. Ma c’è un elemento che hanno tutte quante in comune: il marchio di fabbrica nel punto per così dire “posteriore” (inferiore?) dell’intera faccenda, una sorta di tappo con il logo del produttore, oppure toppa decorata che riporta il nome del team. Così la nostra accogliente palla azzurra, naturalmente, non fa eccezione. La stimmata che la caratterizza è tuttavia diversa dal normale, poiché piuttosto che rispondere alle stesse norme costruttive del resto della sua crosta pietrosa, si trova in un posizione che non viene facilmente raggiunta dai raggi del Sole. Ed ci appare per questo, come interamente ricoperta di ghiaccio. Ovvero il più piccolo, gelato ed inospitale di tutti i continenti emersi, adatto unicamente alle forme di vita pinguinesche, qualche foca, uccello e le forme di vita immerse sotto la superficie increspata di un mare senza coste ravvicinate. Che tuttavia, non può fare a meno di dividersi, nel punto in cui lo spazio qui descritto vede l’estendersi di un avamposto, tra le più particolari ed importanti penisole trovate sul mappamondo, perché sembra andare incontro alla Terra del Fuoco, costituendo quindi, una sorta di coda distaccata dell’intero continente Americano. Si tratta di Graham Land. Della Palmer Peninsula? La Tierra de San Martín? Di nomi, ne ha parecchi. Così come sono molte le stazioni di ricerca che vi trovano posto, battenti bandiera dei paesi più diversi, ciascuno dei quali formalmente convinto ad avere il diritto di rivendicare questi luoghi a vantaggio esclusivo del suo presidente, re o regina, direttore generale e così via. Mentre la realtà è che molto presto… Potrebbe esserci un significativo qualcosa in meno da conquistare; con l’imminente evento, lungamente atteso ed assai giustamente temuto, dello staccarsi del più grande iceberg che il pianeta abbia conosciuto a partire dal termine dell’ultima glaciazione, subito seguìto dall’andare a fondo di una parte considerevole del materiale geologico costituente il Polo Sud, con conseguente aumento incontrollabile del livello medio degli oceani, di una cifra difficile da stimare. Ma quante piccole isole del Pacifico scompariranno entro i prossimi 10 anni…Quante spiagge torneranno al ruolo primigenio di fondali conquistati da aragoste, mentre gli abitanti di città vicine meditano se sia il caso di fare le valige e scappare via…
La questione della piattaforma galleggiante Larsen, suddivisa in tre sezioni ed altrettanti capitoli diversi, ebbe inizio nel 1995, con il ripetersi di un disgregarsi ciclico della sua sezione A, verificatosi nella storia geologica locale all’incirca ogni periodo di 4.000 anni. Trattandosi della parte più settentrionale in assoluto del Polo Sud, questo evento non ha causato grandi preoccupazione. Voglio dire, strano che dovesse succedere proprio ora, giusto? Proprio quando un gruppo di “allarmisti immotivati” vanno ripetendo il grido collettivo d’allarme in merito al riscaldamento terrestre! Davvero, la natura ama prendersi gioco di noi. Ma le cose hanno iniziato a farsi più serie nel 2002…
Il virus che zombifica i tentacoli delle stelle marine
L’oceano è una voragine ricolma di terribili misteri e questa, fra le tante, ne è una prova estremamente chiara: cerchiamo di descriverla con un’analogia. Un individuo torna a casa dopo una giornata di lavoro, affamato perché non ha avuto tempo di pranzare a dovere. Prima di mettersi ai fornelli, tuttavia, si sdraia per qualche minuto sul divano. Durante il sonnellino, mentre la coscienza è sopita, il suo braccio assume vita propria, si separa dal corpo e inizia a camminare fino al frigorifero, trascinato in avanti dalle dita della mano contorte nella forma di un artiglio. Un metro, due metri, quindi faticosamente, l’arto autonomo spalanca lo sportello bianco e inizia ad afferrare tutto ciò che gli capita a tiro. Parte delle vivande cadono a terra con un tonfo sordo, il resto si accumula in corrispondenza di una spalla inesistente. È più o meno a quel punto, che il corpo immobile comincia a liquefarsi. Non è una puntata della famiglia Addams. E neppure un racconto appartenente al myhtos lovecraftiano di Cthulhu, in cui oscure divinità extraterrestri influenzano da millenni la storia dell’umanità. Ma esattamente come in questo secondo caso, si tratta di un orrore proveniente dal profondo, talmente inspiegabile da sfuggire anche alla scienza, benché diverse spiegazioni siano state azzardate, ed almeno un (vago) rapporto di correlazione, definito. Il fatto è che nel mare c’è QUALCOSA. Che periodicamente negli ultimi 40 anni, in almeno tre occasioni, si è scatenato sull’intera popolazione di una classe d’animali estremamente pacifica ed inoffensiva, decimandone in modo spietato la popolazione. Ed ora è dal 2013, anno più anno meno, che l’influsso malefico ha raggiunto un grado di spietatezza precedentemente inusitato, arrivando a ridurre nell’intera costa orientale degli Stati Uniti la popolazione delle Asteroidea (le adorabili stelle marine) di fino al 90% rispetto al totale pregresso.
La decorrenza di quella che viene correntemente definita SSWS (Sea Star Wasting Syndrome) è progressiva, ma estremamente rapida. Si comincia con un singolo esemplare, membro di una popolazione apparentemente del tutto in salute, sul quale compaiono delle lesioni biancastre, che coinvolgono lo strato dell’endoscheletro protettivo tipico del phylum degli echinodermi. Quindi l’animale diventa passivo, in quanto l’intero sistema linfatico che gli permette di mantenere l’equilibro, ridistribuendo i liquidi all’interno, cessa essenzialmente di funzionare. Giunti all’apice di questa fase si sviluppa la fase più inquietante della malattia, dimostrata poco più sopra grazie all’assistenza di dell’orribile similitudine umana: alcuni degli arti della stella sembrano guadagnare una propria volontà, e iniziando a tirare grazie alle centinaia di peduncoli presenti nella loro parte inferiore, si strappano via letteralmente dal corpo centrale, la parte dell’animale in è sita la bocca. Ora la capacità di alcuni appartenenti a questa particolare classe di creature di rigenerarsi, si sa, è letteralmente perfetta. Basta un singolo braccio (o “tentacolo”) affinché le istruzioni genetiche contenute all’interno delle sue cellule possa riuscire ipoteticamente a ricostruire tutto il resto del corpo, avendo effettuato a tutti gli effetti la riproduzione asessuata. Spesso, determinate specie usano una tecnica simile per sfuggire ai predatori, lasciandogli in pasto una parte di se alla maniera delle lucertole di terra. Ma non tutte le stelle marine possono farlo, e comunque, in presenza di un evento di SSWS anche questa manifestazione dell’animale tende ad avere una vita molto breve. Il tentacolo separato dal corpo, del resto, non può nutrirsi, e dovrebbe sviluppare uno stomaco in un tempo estremamente breve. Di certo, non quanto quello dello sguardo della morte in agguato.
Da osservatori guidati dalle proprie idee spontanee, molti abitanti e sub appassionati degli Stati Uniti e altrove hanno elaborato una teoria. Che nei fatti, risulta simile ad un’ammissione di colpa, elaborata in nome dell’intera umanità: l’insorgere di questa mutazione deleteria potrebbe derivare soltanto dall’incidente della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, colpita dal devastante terremoto e tsunami nel 2011, soltanto due anni prima dell’insorgere della nuova epidemia. Questo, tuttavia, non spiega l’insorgere di situazioni simili, benché meno gravi, verificatosi nel ’72 e nel ’78, a meno di non voler ricorrere a un generico “I mari sono inquinati, è naturale che stiano morendo.” Che è un pensiero utile, a suo modo. Ma non risolve la questione in oggetto….