La torre di Belém, ornato baluardo che guardava oltre i confini del Portogallo

Con la sua qualifica di pronipote del grande sovrano Enrico il Navigatore, Giovanni II del Portogallo aveva ricevuto numerose responsabilità. In primo luogo governare sul paese durante il periodo in cui suo padre si recò a combattere nella guerra di successione castigliana, tra il 1475 e il 1477. Per poi accedere definitivamente al trono quattro anni dopo, alla morte di quest’ultimo, ricevendo il potere supremo di un paese dal tesoro parzialmente prosciugato, le casate ducali tutt’altro che fedeli e il popolo in subbuglio, per i soprusi messi in atto nel corso dell’ultimo decennio da parte dei propri feudatari. Eppur avendo fortunatamente letto gli scritti di Machiavelli, egli si era ripromesso in gioventù un obiettivo tutt’altro che scontato: agire nel corso della sua vita fino al punto di essere a tutti gli effetti il Principe perfetto, strategicamente inattaccabile e completamente incapace di compiere errori. Acquietati gli animi dei propri nobili, mansione molto complessa nel momento in cui stava attuando numerose riforme amministrative e finanziarie, il re decise quindi prudentemente di attuare una serie di espedienti per proteggersi dal possibile assalto di potenze straniere. Il che incluse la fortificazione del fiume Tagus di Lisbona con la costruzione di due fortezze di tipo assolutamente tradizionale, la Cascais e la São Sebastião, in posizione ideale per chiedere il pedaggio ai bastimenti che giungevano per scaricare le preziosissime spezie nei magazzini più sicuri della città. Ciò che il suo intuito affinato dalle molte avversità gli aveva permesso di comprendere, tuttavia, era che in assenza di un punto di difesa in corrispondenza della foce fluviale, giammai la propria capitale sarebbe stata a tutti gli effetti al sicuro dal piano di un comandante nemico che avesse intenzione di far sbarcare i propri militi all’interno delle mura, ragion per cui occorreva in tempi brevi correre ai ripari. Il che rappresentò l’origine della cosiddetta Grande Nau, un gigantesco galeone da 1.000 tonnellate situato come Cerbero all’ingresso mai troppo tranquillo dell’Ade. Ciò che Giovanni II ben sapeva d’altra parte, anche grazie alla consulenza dei propri uomini di fiducia, era che soltanto una struttura stabile e sopraelevata avrebbe potuto garantire le migliori caratteristiche balistiche in caso di attacco, oltre al vantaggio niente affatto indifferente di non poter essere meramente affondata. Fortunatamente, nonostante la prodigalità e poca accortezza del predecessore Alfonso V, l’attento sovrano disponeva di una risorsa pressoché inesauribile: un redditizio 5% di tassazione su tutti i commerci provenienti dalle terre dorate d’India e Cina, abbastanza da intraprendere programmi di ammodernamento e miglioramenti infrastrutturali ai più alti vertici dell’intera Europa continentale. La sua morte a soli 40 anni di età, nel 1495, sopraggiunse però prima che le pietre di pregiato marmo di Lioz accantonate dalla costruzione del vicino monastero di Santa Maria de Belém (Betlemme) potessero assumere la forma della fortificazione tanto a lungo teorizzata, lasciando il progetto nelle mani del re successivo, Manuele I d’Aviz, detto l’avventuroso o il fortunato. Famoso tra le altre cose per aver rifiutato di finanziare l’epocale spedizione di Ferdinando Magellano, nonché tutore del paese all’apice della sua influenza culturale, al punto che da lui avrebbe preso il nome l’impeccabile stile architettonico manuelino, una forma di tardo gotico caratterizzato da elementi moreschi, orientalismi e motivi nautici di varia natura. Anche e soprattutto grazie al lavoro completato nel 1519, dopo svariati anni di febbrile lavoro, con l’allora battezzato Castello di San Vincente (protettore della città) in base alle direttive dell’architetto militare Francisco de Arruda. Un nuovo tipo di fortezza marittima, se vogliamo, che avrebbe avuto ondate d’influenza generazionali attraverso l’architettura di una buona parte della penisola Iberica…

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Una dimostrazione pratica del primo fucile Gauss portatile prodotto in serie

Assolutamente cruciale nel tipo di scenari generalmente utilizzati nella fantascienza speculativa è un qualche tipo di superamento del tipo d’implementi bellici di cui al giorno d’oggi possiamo disporre. Quasi come se nel lancio esplosivo di proiettili figurasse un qualche tipo di limitazione inerente, concettualmente insuperabile, tale da lasciare l’unico spazio evolutivo di d’iniziare nuovamente da capo. O forse si tratta dell’inclinazione naturalmente creativa della mente ingegneristica, perennemente in cerca di un qualche margine per rivoluzionare ciò che pur non risultando necessario, riesce ad essere così dannatamente interessante. E cosa c’è di più interessante a questo mondo, dell’oggetto più pericoloso in assoluto? Un’arma “da fuoco”, per così dire, in cui effettivamente il terzo elemento non figura, a meno di considerarlo trasformato nella sua accezione elettrolitica e all’interno della dura scocca di un agglomerato di litio ed altri materiali oggi del tutto indispensabili nel mondo della tecnologia applicata. Eppure non è un mero sfoggio di competenze, o il tipico esperimento di YouTube condotto per attrarre l’attenzione, quello offerto nel presente video da Ian McCollum, A.K.A. Gun Jesus di Forgotten Weapons (così soprannominato per i capelli lunghi e la barba, anche se ultimamente porta il pizzetto) che una volta mostrato l’orpello da ogni angolazione immaginabile compie senza esitazioni il passo successivo, trasportando il GR-1 “Anvil” nel poligono di tiro, dove lo usa con successo per bucare da parte a parte il classico bersaglio dalla forma vagamente antropomorfizzata. Senza la necessità di mettersi alcun tipo di protezione alle orecchie, perché qui siamo di fronte senza usare mezzi termini al tipo di arma teorizzata per la prima volta dal matematico del XIX secolo Carl Friedrich Gauss, e che potremmo definire con un termine più descrittivo coilgun, ovvero il cannone a bobina. Una soluzione… Interessante, per scagliare il proiettile verso l’obiettivo selezionato, senza nessun tipo di esplosione e superando alcuni delle più basilari implicazioni del concetto stesso di “fucile”, in quello che potremmo piuttosto scegliere di definire un vero e proprio acceleratore di massa. In primo luogo perché in questo rifle, per citare lo stesso Gun Jesus, manca per l’appunto il rifling (rigatura della canna) facendone più che altro una sorta di evoluzione del concetto di shotgun o bocca da fuoco a canna liscia, inerentemente meno precisa, come non può mancare di utilizzare questo esperto tiratore dalle innumerevoli esercitazioni di sparo pregresse. Pur restando nondimeno colpito da diversi aspetti dell’avveniristica e ingombrante arma, non ultimo dei quali la sua naturale somiglianza a quanto fatto figurare all’intero d’innumerevoli opere d’ingegno e d’intrattenimento, non ultima la serie di sparatutto interattivi Halo, che il recensore giunge a citare espressamente nel corso della propria trattazione. Benché persino gli sviluppatori ed i designer di quel mondo ad anello, e tutto il conflitto interstellare che gli ruota attorno, avessero pensato di collocare simili implementi nelle mani di super-soldati dalla forza sovrumana, armando la comune fanteria con carabine e mitragliatrici di un tipo maggiormente maneggevole e familiare…

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Il pericoloso trattore che avrebbe dovuto impedire l’invasione della Nuova Zelanda

E se qualcuno avesse bisogno di trovare una conferma che “Non mi pare nessuno di voi abbia saputo fare di meglio” costituisce una delle peggiori premesse per giustificare una particolare linea di comportamento, potrebbe risultare assai difficile trovare un periodo maggiormente rappresentativo del secondo conflitto mondiale, quando un serpeggiante senso di condanna pesava sulle scelte delle nazioni e degli uomini, portandoli a scendere a dolorosi compromessi con tutto ciò che era la ragionevolezza, verso la necessità di sopravvivere, ad ogni costo. Nazioni come la Nuova Zelanda ed uomini come Bob Semple, nato nel 1873 e diventato 25 anni dopo un minatore, poi sindacalista ed attivista dei diritti di categoria, finché la partecipazione a diversi scioperi eclatanti lo avrebbe fatto licenziare nel 1903, poi finire un paio di volte in prigione. Contribuendo, nel contempo, a spianargli la strada verso un successivo ingresso in politica, con il soprannome di “agguerrito Semple” dapprima nel concilio cittadino di Wellington, finché le elezioni l’avrebbero investito deputato del partito Laburista a partire dall’epoca della grande guerra. Famoso per l’insolita abitudine d’insultare i suoi rivali usando termini come “canguro”, “kookaburra” e “dingo”, la sua missione principale sarebbe quindi diventata l’abolizione del servizio di leva obbligatorio, che chiamava “la piovra prussiana”. Posizione sostenuta enfaticamente per oltre una decade, finché la marcia della storia non avrebbe finito per portarlo in direzione diametralmente opposta. Così lo ritroviamo, nel 1940, ai vertici del sistema politico con la carica di Ministro delle Opere Pubbliche, ma soprattutto il portafoglio de facto di una mansione che nessun altro avrebbe voluto svolgere: quello di responsabile politico della Guerra. Un concetto certamente aleatorio, per un paese tanto isolato e distante, sebbene le ultime notizie provenienti dal Pacifico avessero causato un certo sconforto tra la popolazione della Nuova Zelanda. Mentre i giapponesi continuavano la loro espansione in terra d’Asia, dimostrando tutta l’eccezionale efficienza di una macchina bellica che sembrava inarrestabile. Con l’Australia impegnata a difendere le proprie stesse coste, e gli Inglesi necessariamente impossibilitati a fornire rinforzi, chi avrebbe potuto dunque intervenire a favore di Aotearoa, la Terra della Lunga Nube Bianca? “…Se non noi stessi.” Ebbe modo di affermare indubbiamente a più riprese, l’uomo politico che questa volta non soltanto sosteneva, ma organizzava l’effettiva coscrizione dei propri connazionali. Rendendosi perfettamente conto nello stesso tempo che nessun addestramento alla guerriglia avrebbe potuto sostituire a pieno l’assenza di armi, veicoli e matériel, ivi incluso lo strumento ormai considerato niente meno che indispensabile di un corpo di fanteria appropriatamente meccanizzato.
Tutti avevano ampiamente chiara nella mente, d’altra parte, l’implacabile efficienza dei carri armati, che tanto avevano fatto per eliminare il concetto di guerra di trincea, dimostrandosi una forza in grado di cambiare drasticamente gli equilibri della guerra in tutto il corso del Novecento. E sebbene fosse possibile affermare che in una situazione di tipo difensivo tali veicoli potessero venire contrastati mediante l’impiego di postazioni fisse, era diventato ormai impossibile condurre un qualsivoglia tipo di manovra bellica moderna senza poter contare almeno su un comparto ragionevole di mezzi d’assalto corazzati. Semple dunque, che credeva fermamente nell’autodeterminazione dei popoli e del proprio destino, ricordò di aver visto tempo prima le illustrazioni per un particolare tipo di carro armato, ricavato dal telaio di un trattore civile. Le cronache storiografiche oggi ritengono che possa essersi trattato del Disston Tractor Tank, una bizzarra e sgangherata proposta statunitense degli anni della grande depressione, nata dall’incontro tra la Caterpillar Corporation e l’omonima segheria poco fuori la città di Philadelphia. Il fatto stesso che una macchina agricola potesse essere allestita come mezzo di combattimento, d’altra parte, non poteva che costituire un significativo incoraggiamento, dinnanzi alla presa di coscienza che in tutta la Nuova Zelanda esistevano soltanto sei cannoni mobili Bren contro l’eventuale assalto del più temibile impero nella storia d’Oriente. Fu così che il celebre politico coinvolse un gruppo d’ingegneri del Dipartimento dei Lavori Pubblici (PWD) di Temuka, guidati da un certo Mr. Beck, per creare un qualcosa che forse non avrebbe mai potuto cambiare le sorti della guerra. Ma sarebbe stato un baluardo sostenuto, se non altro, da un potente senso patriottico e l’orgoglio di un popolo convinto di poter fare qualcosa. Che era comunque meglio di restare immobili ad aspettare l’ora della fine…

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Le complesse implicazioni abitative di un forte di mare gallese

Si può capire molto del carattere di una persona, dai rumori di fondo del suo appartamento ideale. Onde marine sugli scogli, il sibilo del vento ed il richiamo dei gabbiani? L’eco storico di un susseguirsi roboante di colpi di cannone? Chiaramente, ci troviamo di fronte a un lontano erede filosofico di Thomas Cromwell, primo ministro del talvolta controverso sovrano d’Inghilterra Enrico VIII, che fu strumentale nella creazione di un piano valido utile a sposare la seconda delle sue molte mogli, Anna Bolena. E che proprio per aver tentato di riformare in parte la nuova chiesa capace di sancire divorzi senza l’approvazione del potere papale, sarebbe diventato inviso al sovrano e l’avrebbe seguita a quattro anni di distanza sul patibolo delle esecuzioni reali. Ma non prima di proporre al re un sofisticato piano, nel 1539, per proteggere le coste del paese da un possibile assalto di potenze straniere, tra cui la Francia particolarmente invisa alla dinastia dei Tudor, mediante la costruzione di una serie di potenti forti navali. Uno dei più importanti dei quali avrebbe dovuto trovare posto sopra un’isolotto nell’insenatura di Milford Haven, distintiva caratteristica geografica a metà tra un fiordo e l’estuario del fiume Pembroke, dove l’omonima cittadina faceva ormai da mezzo secolo le funzioni di un importante cantiere navale. Valore strategico, dunque, una posizione chiave ed ottimi presupposti, data la limitata ampiezza dello sbocco disponibile sul mare, a interdire completamente l’accesso ai vascelli di provenienza incerta o indesiderata. Peccato che l’assenza temporanea di fiordi, il disinteresse da parte di chi avrebbe dovuto prendere la decisione ma soprattutto la caduta in disgrazia di colui che aveva postulato l’idea, avrebbero portato ad uno spostamento dell’idea tra i progetti di minore priorità esecutiva. Al punto che ci sarebbero voluti 3 secoli e 11 anni perché qualcuno, finalmente, giungesse a porre la prima pietra su quella minuta striscia di terra, realizzando finalmente il sogno del primo conte dell’Essex.
Assoluta unità di scogli, terra emersa e solide mura alte tre piani, l’ultimo dei quali costellato di efficienti feritoie, soluzione da cui avrebbe conseguito il nome informale di Stack Fort. Ospitante all’inizio un gran totale di quattro potenti cannoni, di cui tre della classe e portata identificata come 32-pounder (del peso di circa una tonnellata e mezzo) ed un 12 pounder (544 Kg) per l’autodifesa delle mura. Il tutto gestito da una guarnigione di 30 uomini ed un singolo ufficiale, secondo i piani attentamente stilati dalla Commissione Reale per la Difesa del Regno Unito, creata per volere di Henry Temple, terzo Visconte di Palmerston, in un’epoca di pace con Napoleone III, che nessuno sospettava potesse durare particolarmente a lungo. Così sorse, finalmente, il piccolo castello assieme a diversi altri forti costieri nella regione ed una grande caserma difendibile nei pressi della cittadina di Milford Haven. E non ci volle molto perché, appena una decina d’anni dopo, le bocche di fuoco fossero aumentate a sedici, sebbene questa particolare zona del Galles non fosse destinata ad ospitare battaglie negli anni a seguire, neppure durante il grande conflitto che oggi conosciamo come prima guerra mondiale. Così che il fortino sarebbe andato progressivamente dimenticato nel corso delle successive generazioni, tanto da trovarsi associato alla definizione di forgotten island, costituendo un polo d’attrazione irresistibile per tre tipi fondamentali di creature: gli uccelli marini in cerca di un luogo sicuro per costruire il proprio nido; gli YouTuber appassionati di urbex e altre discipline finalizzate all’esplorazione dei luoghi abbandonati; ed alquanto inaspettatamente, gli agenti immobiliari…

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