Pilota trova Bigfoot per sfidarlo a colpi di sgommate

Recoil 3

Come amano dire nel paese delle aquile con la testa bianca, ce ne vuole Uno, per trovarne Uno; colui quello, il gringo della situazione, l’individuo atipico che fuoriesce dagli schemi. E dai sistemi: del resto non credo siano molti, tra gli amici di “Ballistic” BJ Baldwin, coloro che tendono a considerarlo una persona semplice ai confini con la noia. Quanti possono realmente dire, tra una cena e l’altra, di aver guidato a regime un fuoristrada da oltre 800 cavalli per gli aridi territori della Baja California messicana, vincendo addirittura la prestigiosa Baja 1000 della lega SCORE non una, bensì due volte…E nel 2011 anche la Mint 400 organizzata dall’omonimo casinò ed hotel di Las Vegas, altrimenti detta “l’unica grande gara dei deserti americani”. Così capita in questo strano video che il maestro del volante, trasportato nell’ambiente più diverso immaginabile dai suoi sentieri abituali, vada ad imbattersi proprio nella creatura leggendaria più rara, nonché culturalmente significativa, del verdeggiante Northwest del Pacifico. Ma tu guarda! E di chi staremmo mai parlando, se non di lui? L’odierno discendente del preistorico Gigantopithecus, uno scimmione alto 3 metri che per qualche inspiegabile ragione non si riproduce né si estingue, ma sopravvive silenziosamente fra gli alberi ed i laghi dello stato di Washington, facendo comparsate occasionali su pellicole notevolmente fuori-fuoco, oppure nei racconti degli ubriachi della situazione. Di miti e leggende su questa creatura misteriosa, che i parlanti della lingua Salish definivano se’sxac (l’uomo selvaggio) ce ne sono innumerevoli, variabilmente terribili e/o inquietanti. Si dice che aveva l’abitudine di rapire i bambini che osassero pronunciare il suo nome. Come pure che fosse l’ultimo sopravvissuto di una razza di mostruosi cannibali, un tempo attestati unicamente presso le cime del Monte Sant’Elena, nella parte meridionale dello stato. I nativi raccontarono inoltre, ai primi missionari protestanti giunti nella regione, dell’esistenza di un gigante peloso e maleodorante, che si avvicinava all’uomo solamente per rubare i salmoni presi nella rete dai pescatori dei corsi d’acqua locali. Sarà stato, che so, un orso? Molto chiaramente, No!
Quindi dovremmo ben comprendere, nonostante la nostra natura spiccatamente non violenta, l’attività condotta dal campione nel suo nuovo episodio internettiano Recoil 3 (parte di una serie) realizzato con il patrocinio di alcuni sponsor milionari e che lo mostra da principio, agghindato in abito mimetico, mentre si aggira per i boschi con un fucile M4 più accessoriato dell’automobile media, tra mirino, sistemi di aggancio, microfoni e caricatore esteso. Non si prende una leggenda solamente con le buone intenzioni. Eppure, persino così, le circostanze possono sfuggire verso il regno delle idee… Perché il caro vecchio sasquatch, qui rappresentato da un misterioso individuo nella pantomima d’apertura e ben presto giocosamente “scovato” come da copione, compie un gesto totalmente inaspettato: ruba senza ritegno da un gruppo di campeggiatori, ma non un semplice cestino con il pranzo, bensì la cosa PEGGIORE immaginabile. Niente meno che una Maverick X ds TURBO, piccolo e pimpante fuoristrada in grado di sviluppare un rapporto peso/potenza di 9.4 hp ogni 45 Kg (100 libbre), per un totale 634 Kg. Il che significa, mettendo al bando ai numeri, che può scappare via come una freccia in mezzo agli alberi e le case della vicina città di Tacoma (196.520 abitanti). Intollerabile. Impossibile. Ingiusto. Fortuna che l’improvvisato giustiziere, in maniera totalmente fortuita, si fosse portato dietro il suo pick-up fuoristrada da competizione (anche detto trophy truck) basato sullo chassis di uno Chevy Silverado, ma continuamente perfezionato e potenziato dal suo team di gara, in occasione di ciascuno degli eventi motoristici più importanti dell’anno.  Ciò che segue, è una corsa degna del più assurdo videogame…

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Negli anni ’30, quando i dirigibili avevano le ruote

Dymaxion car

É possibile che una semplice automobile, mezzo per spostarsi da un luogo all’altro, possa giungere all’umanità in guisa di formidabile rivelazione, salvandola da se stessa e mutando il corso della Storia? Quasi certamente, no. Eppure, essa può salvare un uomo. Quando Richard Buckminster Fuller, colui che sarebbe diventato un grande filosofo, architetto ed inventore americano, si avvicinò nel 1927 alle sponde gelide del lago Michigan, trasferitosi a Chicago all’età di 32 anni, non aveva più nulla, neanche un dollaro a suo nome: reduce da un’ambiziosa business venture messa in piedi assieme al suocero, era andato in fallimento alla scoperta che dopotutto e nonostante la logica, il grande pubblico americano non era interessato ad acquistare case prefabbricate leggere, impermeabili e antincendio. Nel 1922 sua figlia di quattro anni, la beneamata Alexandra, era deceduta per complicazioni dovute alla poliomelite, un fatto per cui lui non aveva mai smesso d’incolparsi, fino al punto di sprofondare in una lieve forma d’alcolismo. Quello stesso anno, inoltre, aveva avuto con la moglie una seconda figlia, Allegra, aumentando le spese a cui la famiglia stava per andare incontro. La sua unica speranza, a quel punto, gli sembrava il suicidio, affinché la famiglia, in sempre maggiore difficoltà, potesse almeno incassare i soldi della sua assicurazione. Se non che nel giorno scelto per il gesto, secondo quanto lui stesso avrebbe raccontato successivamente sui palchi della scena internazionale, lui ebbe una sorta di catartica rivelazione: camminando verso la fatale riva nella foschia dell’inverno americano, si ritrovo all’improvviso a colloquiare con l’Universo; ed esso stesso gli parlò, dicendo: “Tu, essere umano, non appartieni a te stesso ma sei parte del grande Tutto. Per questa ragione, non hai il diritto di toglierti la vita. Da quest’oggi, dovrai applicarti nel tradurre la tua esperienza in un vantaggio per la collettività.” E già da quel momento, probabilmente, egli stava intravedendo quella forma oblunga dell’invenzione che sarebbe rimasta, nonostante i molti altri successi conseguiti nel corso degli anni successivi, la sua singola creazione più famosa: la Dymaxion Car (unione delle tre parole Dynamic, Maximum e Tension, termini che avrebbero costituito il filo conduttore della sua opera completa).
Nel 1928, Fuller pubblicò i disegni per un nuovo concetto di veicolo, da lui definito quadridimensionale. Un termine matematico che voleva riferirsi, per analogia, al concetto di questo etereo mezzo di trasporto in grado di spostarsi indifferentemente attraverso l’aria, l’acqua o lungo il suolo. L’idea era evidentemente idealizzata, ma non abbastanza da sembrare impossibile, al punto che nel 1930 il facoltoso investitore finanziario e socialita Philip Pearson decise di offrirgli 5.000 dollari (non pochi a quell’epoca) affinché si giungesse alla produzione di un prototipo funzionante dell’idea. Ma Fuller, che nel frattempo aveva ereditato i soldi della madre recentemente venuta a mancare, si era dato all’insegnamento universitario ed aveva acquistato una rivista d’architettura sulla quale pubblicare le proprie idee, si era già risollevato finanziariamente, e fu subito diffidente dell’entrata di denaro inaspettato. Così fece famosamente firmare a Pearson un’assurda clausola del loro accordo, definita “del gelato”, secondo la quale lui, se l’avesse voluto, avrebbe potuto sperperare l’intera somma nell’acquisto dei gusti cioccolata, vaniglia, etc. Ma questi, nonostante tutto, la firmò ed a quel punto, il futuro era segnato.
Chiamare un simile mezzo un prototipo stradale sarebbe come definire la Quinta di Beethoven una mera sinfonia, oppure il ponte di Brooklyn un tratto d’autostrada sopra il mare. Nel 1933 Fuller aprì uno stabilimento a Bridgeport, nel Connecticut, ed assunse il progettista navale Starling Burgess per assisterlo nelle questioni più tecniche dell’impresa. I due assunsero inoltre 27 operai, dopo averli scelti da un’enorme pool di candidati. Questo perché nel frattempo era iniziata una delle più gravi crisi economiche della storia, ed alle loro porte avevano bussato più di 1.000 persone, disperate esattamente quanto il loro potenziale capo lo era stato, soltanto pochi anni prossimo a cercare quella prematura fine di se stesso. Ciò che fuoriuscì dalla catena di montaggio, in tempo per la Fiera Mondiale di Chicago del 1933-1934, doveva rappresentare soltanto il primo passo verso il Veicolo Totale, una sorta di stato larvale di quella splendida farfalla che sarebbe nata di lì a poco.

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Quando i tedeschi sognavano l’Isetta

Hoffmann car

Dalle profondità dei sotterranei del Museo Automobilistico di Lane, a Nashville, Tennessee, riemerge una creatura che l’intero mondo aveva già dimenticato: è la Hoffmann del ’51, questa che Jason Torchinsky del blog Jalopnik, parte del famoso network Gawker.com, ci dimostra nel primo episodio della sua nuova serie Jason Drives. E dopo che avrà portato a termine il suo giro di prova, bisogna riconoscerlo, nulla sarà ancora come prima. Nella comprensione di quante cose, davvero, possano andare per il verso sbagliato nella progettazione di un automobile. Nonché nell’attribuzione dei meriti di coloro che vennero subito dopo, Renzo Rivolta con la sua Iso di Milano, assieme ai progettisti Preti e Raggi. Perché in terra di Germania, come in Italia, Francia ed Inghilterra, nasceva in quegli anni del secondo dopoguerra un’esigenza nuova, di acquisire l’abilità di spostarsi su ruote senza scialacquare le proprie risorse finanziarie, sempre più scarse e preziose. E in molti, provenienti dagli strati sociali più diversi, tentarono di approcciarsi al problema con finalità di arricchimento personale, giungendo talvolta alla creazione di un prototipo, o una prima serie limitata di veicoli provenienti da qualche fabbrica in periferia, che poi piazzavano tra i propri vicini.  Ma questa macchina, frutto della mente e delle mani operose dell’omonimo ingegnere di Monaco (di cui Internet conosce il solo cognome, oltre all’altra iniziale, M.) resta tuttavia diversa da ogni altra prodotta nel suo tempo ed in effetti, della storia.Tre sole ruote, di cui quella posteriore si occupa di sterzare, per appena 340 Kg di carrozzeria spiovente in alluminio, dalla coppia di vistose prese d’aria per il radiatore, ma il cui retro rassomiglia stranamente al casco di un supereroe. Una forma che Jason descrive come “inadatta al corpo umano” mentre si contorce faticosamente, per fluire fino al posto del guidatore, dove procede nell’illustrarci le fenomenali meraviglie del veicolo: finestrini sollevabili grazie all’impiego di una striscia di cuoio, che veniva bloccata a mezza altezza grazie a perni verso la metà della coppia di sportelli. Un serbatoio posto in alto e dietro, con il condotto della benzina che, inspiegabilmente, passa dentro l’abitacolo, che a causa delle guarnizioni vecchie e consumate, inonda quest’ultimo di esalazioni maleodoranti e irrespirabili. La leva del cambio, sequenziale, che prevedeva intenzionalmente, una posizione intermedia tra ciascuna coppia di marce, corrispondente al folle (1-F-2-F-3-F…) senza nessun tipo di risposta tattile al passaggio dall’una all’altra condizione. Con conseguenze sull’effettiva guidabilità che vi lascio facilmente immaginare: durante il suo faticoso ma breve giro per il parcheggio del museo di Lane, un ex panificio, l’improbabile pilota rischia quasi di scontrarsi ben due volte, per non parlare del pericolo costante di cappottamento.
Il grande progettista Hoffman aveva ben pensato, infatti, di posizionare le tre ruote della sua automobile piuttosto lontane dai paraurti, con quella posteriore, in modo particolare, che sembra più che altro messa al centro esatto del veicolo, mentre l’abitacolo prosegue per un metro abbondante. Inoltre, e questo è forse l’aspetto più incredibile, alcuni pesanti componenti del motore si trovano montati su un’apposita parte del telaio che (per qualche ragione) sterza assieme alla ruota, inducendo un costante spostamento del baricentro da destra a sinistra, anche con il veicolo fermo. Alla fine, più che altro per appesantire il mezzo, l’inviato di Gawker finisce per fare il suo giro accompagnato da un addetto del museo, trasformatosi in zavorra umana per l’occasione, onde evitare conseguenze infauste quanto cupamente attese. Eppure questa strana creatura non fu probabilmente un pezzo unico, visto come da una rapida ricerca online se ne scopre almeno un altro esemplare al Microcar Museum di Madison, Georgia, oltre ad alcuni articoli che la confondono con un’altra trovata tedesca di quegli anni, la Hoffmann Auto-Kabine, in realtà l’opera di Jakob Oswald Hoffmann di Düsseldorf, che a questo àmbito dei trasporti ad uso personale scelse di dedicargli la vita e tutte le sue finanze, fino all’imprevisto finale del 1954. Ma ben prima che accadesse questo…
 

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Howmet TX: il breve sogno dell’auto a turbina

Howmet TX

La prima cosa che noti è il rumore. Non proprio un rombo che sale, quanto piuttosto il sibilo di un compressore, che spinto nel vortice gassoso dell’ossigeno e dell’aria, accelera, ancora e ancora, fino a 20/30.000 giri al minuto. Come un aspirapolvere gigante, o per meglio dire, un aeroplano a reazione, praticamente fermo sul posto. Il secondo punto degno di nota: l’estetica. Quest’auto del 1968, di cui furono prodotti soli tre esemplari, ha il fascino curvilineo della seconda Batmobile, con una presa d’aria e fari tondi sul retro con protezione ad Y, così conformi al gusto vagamente retrò di certe super-macchine dei nostri giorni. La presa d’aria sul tetto, invece, ricorda nello specifico certi modelli contemporanei della TVR. La Howmet, dopo tutto, fu disegnata e messa assieme praticamente da un solo uomo, l’ormai leggendario Bob McKee della McKee Engineering, l’uomo che afferma nel presente video: “Costruire qualcosa a 30 anni e vederla girare su pista ad 80, queste sono le soddisfazioni della vita!” Osservando il quale, gradualmente, si comprendono le prestazioni ed i vantaggi di questa particolare soluzione tecnica, che pur essendo molto in voga nel secondo dopo guerra, ed ancor maggiormente a seguito di alcuni prototipi costruiti dalle grandi aziende motoristiche negli anni ’50 e ’60, finì per essere subordinata al classico motore coi pistoni, più semplice da integrare negli chassis, soprattutto se ad alte prestazioni, maggiormente familiare al mondo della meccanica, e diciamo la verità: nella maggior parte delle situazioni, decisamente meno assetato di benzina. Eppure, se soltanto le cose fossero andate in modo leggermente diverso….
La Howmet TX (Turbine eXperimental) nacque da un’idea del pilota Ray Heppenstall, che trovò terreno fertile presso il suo sponsor principale, l’azienda metallurgica Howmet Castings, in quegli anni alla ricerca di un metodo per colpire la fantasia del grande pubblico. Non si trattava, ad ogni modo, di un progetto totalmente nuovo. Già nel 1954 la nostra Fiat, presso la pista del Lingotto a Torino, aveva sperimentato soluzioni comparabili con una concept car denominata Fiat Turbina, in grado di raggiungere i 250 Km/h. Nel frattempo la Chrysler, all’altro lato dell’Atlantico, preparava un progetto ambizioso per giungere a produrre una berlina di serie con questa tecnologia, che avrebbe avuto dei vantaggi significativi sulla concorrenza: una necessità d’interventi tecnici decisamente minori, una vita del motore più lunga, l’80% di componenti in meno per ciascun veicolo, l’immediata partenza in qualsiasi condizione climatica senza alcun tempo di riscaldamento e un peso notevolmente inferiore. Ne furono prodotte in totale 55 unità, di cui 5 prototipi e 50 “auto di prova” fatte avere ai loro clienti di fiducia, per una prova a lungo termine su strada, durante la quale molti rimasero colpiti dall’estrema efficienza del mezzo, benché fosse frequente l’errore di premere l’acceleratore troppo presto dopo l’accensione, inondando il motore di carburante e ottenendo quindi un effetto contrario al desiderato. Nel giro di qualche anno, tuttavia, il governo degli Stati Uniti cambiò i regolamenti in materia di emissioni d’azoto nel 1963, rendendo di fatto l’intero progetto obsoleto. La Chrysler richiamò i veicoli e li smonto pezzo per pezzo, quasi dal primo all’ultimo: attualmente, soltanto 6 di queste automobili sopravvivono, all’interno di musei e collezioni private. Un tale evento, se possibile, rese ancor più chiaro quello che in molti avevano iniziato a pensare: se le turbine automobilistiche avevano un futuro, sarebbe stato nel campo delle gare su pista, dove il costo per singolo esemplare conta poco, e soprattutto ai quei tempi, era possibile sfidare l’immaginazione con trovate inusuali ed impreviste, senza la necessità di adeguarsi a norme eccessivamente stringenti. Nel corso della prima metà degli anni ’60, quindi, i team Rover e BRM unirono le forze per costruire alcune auto a turbina, che parteciparono alla prestigiosa 24 di Le Mans, senza tuttavia riuscire ad ottenere dei risultati particolarmente degni di nota. Il primo grande (quasi) successo ebbe quindi a verificarsi nel 1967, con una particolare vicenda che sarebbe rimasta scritta a lettere di fuoco nella storia dell’automobilismo americano.

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