Il canto indiano che sostituisce il tamburo

Nella storia della musica del genere di origini afro e latinoamericane hip hop, spesso maggiore importanza è concessa al ritmo, alle rime e al messaggio della canzone. Quasi come la composizione in se stessa venisse dopo, rispetto alla sveltezza ed al concetto permeabile della poesia verbale, giungendo a considerazioni commerciali quasi incidentalmente, e nel caso di taluni artisti, dopo parecchi anni di tentativi. Perciò sono molti, tra i più grandi autori del rap, a vantare almeno un’exploit celebre in cui il numero di parole al minuto viene drasticamente aumentato, fino al raggiungimento di una sorta di “iperspazio vocale”. In molti avranno tutt’ora presente, ad esempio, la canzone di Eminem del 2013 “Rap God”, in questa figura di spicco del mondo discografico degli anni 2000, liberandosi di ogni limitazione, tornava alle origini della sua creatività, investendo l’ascoltatore con un treno quasi inafferrabile, eppure assolutamente chiaro, di frasi ironicamente autocelebrative. E se vi dicessi che persino questo, non fu pressoché nulla, rispetto all’antica corrente musicale indiana del Konnakol? Che trasformando il significato con una sorta di stenografia uditiva, i praticanti di questo genere possono raggiungere una rapidità letteralmente sconosciuta ai velocisti aurali di qualsiasi altra corrente musicale?
In principio era il suono: un sibilo continuo, il fischio senza tempo della Creazione. Modulato e variabile, un prodotto alterno delle onde del mare, del canto dei volatili, il verso delle tigri tra gli alberi della foresta di Giddalur. Quindi venne il desiderio di trasformarlo in musica, separandolo e definendolo, grazie all’impiego di appositi strumenti. E infine, l’incomparabile modulo della voce umana. Anche meglio del respiro fatto passare attraverso i flauti o le trombe; più squillante dello strofinìo di centomila archetti;  persino più ridondante del rullo di un gigantesco tamburo. Quello simbolico, da cui l’espressione materiale, popolare nell’India classica così come altrove, di uno strumento concepito per sviluppare il ritmo ancor prima della melodia. Affinché i musicisti di queste terre potessero elaborare, attraverso infinite sperimentazioni, l’espressione forse più sofisticata di una simile arte, l’ordito su cui intessere la trama delle canzoni dedicate al più vasto ventaglio dei sentimenti e l’espressione della realtà. Che è fondamentalmente una misurazione matematica d’interconnessioni tra le note, eppure, ancor prima di questo, il susseguirsi diretto tra il succedersi dei momenti. Prima, dopo e durante: tāl e ragam. Anche nella tecnica di notazione alla base di questa singolare forma d’arte, originaria della parte sud del paese, questi sono i due principi alla base di tutto, vagamente corrispondenti ai nostri “ritmo” e “melodia”. Eppure, entrambi differenti in maniera significativa, come in una sorta di espressione parallela, e per certi versi assai più complessa, della stessa identica idea. Nessuno sa esattamente quando ebbe inizio l’usanza di immortalare su carta le espressioni musicali dell’area carnatica mediante l’impiego di sillabe prelevate direttamente dai mantra e i canti di preghiera della religione induista, ma sappiamo che il tāl (o tala) ebbe origine almeno all’epoca del regno semi-mitico di Yaksha (500 a.C. ca.) quando il succedersi delle note iniziò ad intrecciarsi in una sequenza complessa che permetteva di alterare il modulo, intrecciarlo e superare i limiti stessi della consequenzialità temporale. Per il concetto di ragam (o raga) in senso moderno e contemporaneo occorre invece fare riferimento all’opera di Bharata Muni, studioso del teatro e musicologo che nel III secolo a.C. scrisse il trattato Natya Shastra, nel quale effettuava una sperimentazione empirica, con conseguente analisi, dell’effetto gradevole o meno di determinate condizioni di note. Nasceva così la consapevolezza formale, di primaria importanza in determinate correnti filosofiche indiane, che la semplice espressione musicale potesse influenzare o “colorare” (questo il significato letterale della parola) gli stati d’animo umani. Eppure, il ragam è molto più di questo, rappresentando anche una sequenza o un tema di note, sul quale l’artista è invitato a improvvisare o proporre una sua personale interpretazione, al fine di effettuare una dichiarazione artistica dei propri intenti. Anticipando di qualche millennio, in questa maniera, alcune delle caratteristiche alla base del jazz e dell’hip hop dei nostri tempi.
Ascoltare gli artisti del Konnakol all’opera tuttavia, come questi due eccezionali Vidwan B. R. Somashekar Jois e Kumari V. Shivapriya, oltre a costituire un’esperienza conoscitiva del più remoto passato, è anche un balzo ad occhi chiusi nell’inconoscibile ed incomprensibile dopodomani. Ovvero acquisire la cognizione, lungamente rimasta in condizione ipotetica, che la musica non sia soltanto un linguaggio universale, bensì il superamento stesso del concetto generico di linguaggio…

Leggi tutto

L’antica belva meccanica del sultano di Mysore

“Comunque vada a finire questa storia, la natura è dalla mia parte.” Quanti governanti, di un paese possibilmente orientale, si sono ripetuti un simile precetto mentre le armate nemiche avanzavano sul loro territorio. Perfettamente consci di come la natura inospitale di un tale luogo, immancabilmente, pretendesse una dura tassa ad ogni chilometro di marcia da parte degli stranieri. Caldi, freddi, malattie infettive. La pioggia copiosa dei monsoni. E in determinati casi, le bestie selvatiche in agguato. Per le forze coloniali inglesi dell’epoca rinascimentale, inviate ai quattro angoli del globo, tutte questioni appartenenti alla sfera del possibile. Per un sultano sulla strada della loro implacabile sete di conquista, una cupa soddisfazione rinnovata nel quotidiano. E una speranza. Era la fine del XVIII secolo, quando Tipu Sahib, sovrano islamico del più vasto regno del meridione indiano, discendente dell’antica famiglia di Wodeyar, chiamò a raccolta alcuni dei migliori artigiani facenti parte della sua corte, per assegnargli il difficile compito di dare una forma fisica ad un simile sentimento. Così che gli uomini, tra cui si trovavano anche alcuni tecnici di provenienza europea, potessero costruirgli il singolo oggetto più strano, nonché pregevole, della sua intera collezione di strumenti musicali. Se così vogliamo davvero chiamarlo: dopo tutto, non è vero che le grida di terrore possono costituire, anche loro, un musica celestiale? Se a emetterle è colui che, con armi e catene, viene ad usurpare quanto abbiamo ricevuto in eredità per diritto di nascita e l’indiscutibile volere del Cielo.
A seguito della battaglia di Seringapatam, città non troppo distante dalla capitale del regno, che pose fine alla quarta ed ultima guerra anglo-mysore con l’assalto diretto del palazzo estivo del sultano, da parte di una forza congiunta di svariate centinaia di soldati occidentali assieme alle truppe del Nizam di Hyderabad, traditore del suo stesso signore, i molti tesori contenuti all’interno di quelle mura furono catturati come spoglie di guerra, al fine di riportarli nella patria di Sua Maestà. Era il 1799. Scrive quindi l’anno successivo in un resoconto, James Salmond, ufficiale subordinato alla Compagnia delle Indie Orientali: “Questo disegno ritrae un meccanismo raffigurante una tigre a dimensioni naturali che divora un europeo coricato in terra. Ci sono alcune canne d’organo nella tigre, e una serie di tasti per l’emissione delle note convenzionali. I suoni prodotti dall’organo, tuttavia, sono concepiti per assomigliare ai lamenti disperati di un essere umano morente, inframezzati dal ruggito terribile della tigre. […] Mi sembra ragionevole pensare che una manifestazione tanto palese dell’odio del sultano Tipu contro la nazione inglese possa costituire un’aggiunta di valore alle sale della Torre di Londra.” Descrizione a cui è doveroso aggiungere come durante l’utilizzo, il braccio della figura umana in legno, dipinto con un’uniforme simile a quella dei soldati inglesi, si sollevava in maniera ritmica, tentando inutilmente di proteggersi dalle fauci del suo torturatore. È stato successivamente ipotizzato che per il truculento giocattolo ligneo, custodito con orgoglio assieme al resto dei suoi strumenti musicali, il committente avesse tratto l’ispirazione al fatto di sangue avvenuto nel 1781, successivamente alla battaglia di Porto Novo (Parangipettai) nella quale il padre dello stesso sultano, Hyder Ali, era stato sonoramente sconfitto dall’esercito inglese. Ma qualche tempo dopo il figlio del tenente-generale Sir Eyre Coote, vincitore del confronto, era stato attaccato ed ucciso da una tigre reale del Bengala (Panthera tigris tigris). Un animale il quale, in maniera tutt’altro che casuale, era sempre stato considerato tra gli emblemi della casa reale di Mysore, in particolare a seguito della presa di potere del loro ultimo rappresentante, che ne utilizzava l’effige su tutti gli stemmi, le armi, le uniformi delle guardie di palazzo. Giungendo a possederne, addirittura, svariati esemplari in carne, pelo a strisce ed ossa. Quale migliore occasione giunti a quel punto di svolta, dunque, per comunicare al pubblico inglese la sua cocente sconfitta! Che impadronirsi di un apparato così carico d’odio, e utilizzarlo per suonarvi continuamente musica patriottica e l’inno “Dio salvi la Regina”…

Leggi tutto

Il gatto selvatico più piccolo del subcontinente indiano

Nel XIX secolo l’occasione di osservare da vicino animali provenienti da lontano non si presentava particolarmente spesso. Con la sola eccezione dei soldati, dei mercanti viaggiatori e dei diplomatici, la gente viveva ancora in una bolla, mantenuta solida dall’assenza di comunicazioni, trasporto a lungo raggio, persino valide ragioni per rischiare la propria incolumità e salute, affidandosi all’ambiente non propriamente salubre di un vecchio veliero o imbarcazione a vapore. Perciò quando i visitatori della casa del naturalista, dottore e zoologo Thomas C. Jerdon facevano la conoscenza con il gatto che manteneva i suoi solai liberi dai numerosi scoiattoli di Hastings, nel Sussex, non c’erano molti che s’interrogassero in modo particolare sulla sua provenienza. Del resto, non era sempre facile sottrarre la scena alla sua lontra ed al vero e proprio pitone, che con sguardo minaccioso scrutava i commensali, all’apparenza meditando su chi avrebbe tentato di stritolare prima dell’ora del tè. Ma a tutti coloro che, da quella tavola imbandita, veniva in mente di attrarre lo scaltro felino con qualche boccone proteso verso il pavimento, nella speranza di riuscire ad accarezzarlo, la verità iniziava a palesarsi un poco alla volta. Per prima cosa, il felino in questione appariva particolarmente minuto. Non tanto in termini di lunghezza (40-45 cm, dopo tutto, non sono particolarmente atipici) ma per l’altezza da terra e la costituzione, che ad occhio permettevano di stimare il suo peso a circa un terzo rispetto al normale. Anche la colorazione era diversa, con un susseguirsi di macchie disposte a partire dalla testa e fin quasi all’attaccatura della coda. La forma della testa, infine, era strana, con un cranio lievemente più aerodinamico ed allungato verso la parte posteriore. In altri termini, si trattava di un gatto alieno.
Non extraterrestre, s’intende, bensì proveniente da una terra lontana, un luogo che Jerdon aveva conosciuto fin troppo bene durante la lunga trasferta nel distretto di Ganjam come membro della stessa associazione naturalistica di Charles Darwin, vissuta nel tentativo di alleviare la sofferenza delle truppe di occupazione inglesi, causata da un quasi costante stato di dissenteria. Nei quattro anni successivi al 1837, quindi era vissuto laggiù, conoscendo tra gli altri il piccolo gatto che aveva, successivamente, riportato in patria. Le cronache e le biografie, purtroppo, non ci svelano il nome dell’animale, ma possiamo fortunatamente dire di aver compreso perfettamente la sua specie di appartenenza: Prionailurus rubiginosus, ovvero, il gatto rugginoso, un’altro esponente della stessa categoria di piccoli predatori popolata dal gatto dai piedi neri (Felis nigripes) il gatto pescatore (Prionailurus viverrinus) e/o lo stesso gatto leopardo del Bengala (Prionailurus bengalensis). Creature create dall’evoluzione non tanto per dominare una specifica nicchia, quanto diventare i veri e propri signori del loro ecosistema, in grado di catturare e fagocitare pressoché qualsiasi essere vivente fosse a portata di zampa, potendo contare su una massa fisicamente inferiore alla loro. Tra cui: roditori, uccelli, lucertole, rane e insetti. Mentre la loro strategia, nel tentativo di sfuggire ai predatori, era sempre più o meno la stessa: arrampicandosi sugli alberi, facendo affidamento sui loro artigli sicuri ed affilati. In tempi più moderni quindi, a causa della sua abitudine di cacciare sul terreno coltivato, dove i rifugi per le prede sono inerentemente in quantità inferiore, il felino in questione si è trovato in condizioni di conflitto con le popolazioni locali, anche per l’abitudine non proprio gradevole di intrufolarsi nei pollai, con conseguenze fin troppo facili da immaginare. Generalmente lontano dalla coscienza ecologica del senso comune, questo animale sta godendo di un periodo di fama su Internet grazie al video diffuso dalla BBC, per promuovere la sua nuova serie di documentari “Big Cats” (benché nel caso specifico, non si tratti esattamente di un “Big”…)

Leggi tutto

Il pilastro che fluttua nel tempio dei giganti

Ci sono luoghi, dall’antica e importante vicenda storica, presso i quali la principale attrazione turistica finisce per essere un singolo gesto, eternamente ripetuto dai visitatori curiosi, secondo un rituale che di ben poco è cambiato attraverso i secoli. Così come i fotografi della torre di Pisa, che cercano d’inquadrare i propri compagni di viaggi mentre ne falsano la prospettiva sulla pubblica piazza, nel territorio d’India dello stato dell’Andhra Pradesh, ben pochi varcherebbero queste sacre mura senza portare con se una tovaglia, un canovaccio, oppure qualcosa di oblungo da far penetrare al di SOTTO. Del blocco granitico da svariate tonnellate, che costituisce una delle molte colonne riccamente ornate del sancta sanctorum del tempio dedicato all’Avatar di Shiva Veerabhadra, presso la cittadina di Lepakshi, non troppo distante da Bangalore. Il quale, in maniera piuttosto insolita, non sembrerebbe poggiare sul pavimento. O almeno non completamente, come ci spiega con precisione l’autore di questo video Dong Trieu, che sembra aver dedicato alla questione una lunga sequenza di pensieri, giungendo infine alla conclusione che nonostante l’esistenza di un “trucco” (la pietra poggia in corrispondenza di un angolo) esso costituisca cionondimeno una delle meraviglie architettoniche della sua intera nazione. Eventualità condivisa, a quanto sembrerebbe, dai precedenti funzionari del governo coloniale inglese, che tentarono di svelarne il funzionamento danneggiandolo e lasciandolo in posizione parzialmente inclinata: un altro punto di contatto, se vogliamo, con il campanile della cattedrale di Santa Maria. L’epoca di completamento per una mera coincidenza poi, non è così distante, visto come le possenti mura di un simile luogo di culto furono messe assieme, con una tecnica delle pietre cesellate ed incastrate fra di loro non dissimile da quella dei edifici Maya di Machu Picchu, durante la dinastia coéva dei re Vijayanagara (1336-1646) per volere dei due governatori e fratelli Virupanna Nayaka e Viranna, affinché al suo interno abitasse in totale ascesi il saggio vedico Agastya. Benché esistano leggende locali che fanno risalire, almeno alcuni degli elementi, ad un’epoca molto più antica. E alla situazione che venne a crearsi per l’amore smodato nei confronti di due donne.
Sita era la diretta discendente della dea della Terra Bhūmi, che scelse di vivere tra gli umani come figlia adottiva del re Janaka di Videha. Riuscendo ad affascinare, con la sua naturale bellezza e l’aura straordinaria, niente meno che il principe Rama, il settimo avatar del dio Vishnu. Se non che i due, scelto di vivere in esilio assieme al fratello di lui nel territorio di Lakshmana, finirono per attrarre l’attenzione del potente Ravana, il sovrano demoniaco del regno di Lanka, che senza la benché minima esitazione, la portò via con la forza. Questa vicenda, alla base della principale guerra del lungo poema epico Mahābhārata, fu alla base d’innumerevoli battaglie, gesta eroiche e sacrifici, tra cui il primo fu quello di Jatayu, l’uccello magico simile ad un’aquila che faceva parte del vasto seguito di Vishnu. Il quale, assistendo dall’alto all’efferato rapimento, si lanciò subito all’inseguimento del re, se non che questi, proprio nel mezzo delle lande desolate, non rivelò il suo vero e possente aspetto. Allora Ravana, nella sua guisa di vero appartenente alla schiatta dei demoni Rakshasa, si sollevò in piedi sul suo carro, con dieci teste e centinaia di braccia, ciascuna delle quali impugnava un’arma terrificante, il ventre rigonfio per effetto del nettare dell’immortalità. I due combatterono nei cieli del mondo, finché inevitabilmente, l’imprudente Jatayu si vide strappare le ali e precipitò rovinosamente al suolo. Mentre il malvagio riprendeva la sua fuga, quindi, Rama giunse sulla scena, trovando l’amico volatile morente. Così dandogli l’estremo saluto pronunciò le famose parole “Le, Pakshi” ovvero in lingua telugu: “Alzati, uccello”. Gli umani, che avevano sentito il suo grido di dolore, decisero quindi di scegliere questo nome per l’intera città, e il luogo di culto che sarebbero sorti sulla scena di un simile tragico evento. Ma il tempio di Lepakshi, che come dicevamo è anche associato al nome di Veerabhadra, ospita al suo interno una statua in pieno armamento bellico di uno spaventoso guerriero, che aveva amato, anch’egli, una leggiadra fanciulla e che se l’era vista sottrarre per un crudele scherzo del fato. Si trattava di una delle personificazioni terrene più terribili del dio Shiva, che dopo un lungo periodo d’impegno spirituale da parte di lei, aveva scelto di lasciarsi conquistare da Sati, la figlia del re che era figlio di Brahma, Daksha. Se non che quest’ultimo, circondato dai maggiori lussi terreni, provava disprezzo per la vita condotta dal genero, che abitava tra i poveri, portava la barba lunga e ricopriva la sua pelle di cenere come i guru itineranti, circondato dall’ordine dei suoi devoti Bhutagana. Così che un giorno, invitata sua figlia a palazzo con la scusa di uno yajna (sacrificio) a Brahma, prese a criticarla di fronte a tutta la corte, ricoprendola di insulti così terribili che la spinse a suicidarsi, gettandosi nel fuoco. Questo fu un terribile errore. Quando Shiva venne a conoscenza della notizia, subito si tagliò un capello e lo divise in due. Da tali frammenti, quindi, scaturirono i due avatara Veerabhadra e Bhadrakali, tra i più pericolosi guerrieri che fossero mai vissuti. Questi si posero alla guida dell’armata dei Bhutagana, e presero d’assalto il palazzo di Daksha.

Leggi tutto