Uomo perde il drone in mezzo alle bandiere sacre tibetane

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Quante volte vi è capitato di guardare un qualcosa da lontano, trovandolo bellissimo, per poi avvicinarvi e scoprire che non tutto era precisamente in linea con le vostre aspettative? Sia chiaro: con ciò non voglio dire che l’antica tradizione dell’Himalaya consistente nell’appendere a dei lunghi cordoni i rettangoli di stoffa chiamati Lung Ta (cavalli che corrono nel vento) sia una pratica priva di grazia ed eleganza. Onorare le usanze degli antenati non è mai sbagliato, come del resto un rituale pensato per diffondere nel mondo la pace, la compassione ed altri influssi dovrebbe necessariamente istigare in noi un senso di stima ed assoluta condivisione dei sentimenti generativi. Ritengo tuttavia importante, e al tempo stesso significativo, prendere atto della curiosa ed ansiogena esperienza del viaggiatore canadese Vafa Anderson, che fra questi elevatissimi recessi stava per subire la peggiore esperienza che possa capitare ad un pilota di quadricottero con telecamera dall’alto: subire l’interruzione del contatto col dispositivo mentre si trovava a circa la metà del raggio massimo di controllo, e quindi perderlo di vista in un luogo remoto. Tanto che soltanto la sua stolida perseveranza, il supporto morale degli amici e soprattutto l’aiuto della guida locale Punsok, gli ha permesso infine di risolvere la situazione. Ma non prima di trovarsi a fare un qualche cosa che raramente viene mostrato in video, ovvero camminare in prima persona presso una delle vette del monte Potala, la dimora di Avalokitesvara (nota ai cinesi come Guānyīn) somma dea della misericordia, dove oscillano da sempre le suddette bandierine da preghiera. Per mostrarci quasi casualmente una piccola e imprevista verità.
Ho scelto di mostrare  la sua avventura iniziando in medias res, ovvero dal secondo video con il culmine del piccolo disastro aeronautico, perché trovo che l’immagine d’apertura risulti così essere molto immediata e coinvolgente: vi compare proprio lui, Vafa, che arranca affannosamente su per l’assolato pendio, respirando con fatica l’aria sottile ad oltre 4.000 metri d’altitudine. Siamo presso la città di Lhasa ed egli non dovrebbe fare altro che voltarsi, letteralmente, e risalire in macchina, per fare il primo passo del ritorno verso i luoghi del turismo e l’assoluta civiltà. Ma poiché il drone in fabula non è esattamente un “pezzo” tecnologico di poca importanza, trattandosi in effetti di un DJI Phantom 3 Professional dal prezzo di listino di esattamente 999 dollari, la sua scelta di procedere diventa chiaramente l’unica possibile, in tutta coscienza, e sopratutto volendo continuare a disporre nel corso del suo attuale viaggio in Oriente di quell’utile occhio nei cieli. Così arrivato in prossimità della cima assieme a Punsok la guida, la sua telecamera personale finisce per riprendere ciò in effetti, quasi ogni minuto dell’anno, si trova sotto all’area oggetto dell’allestimento che vediamo in ogni cartolina tibetana: le vecchie bandiere colorate, cadute a terra per il vento, quindi lasciate lì fra l’erba, a sopportare l’inclemenza degli elementi. Ciò è interessante, e al tempo stesso molto singolare. Perché la prassi di utilizzo delle Lung Ta, così come quella delle Darchor a disposizione verticale con l’uso di un palo, esprime chiaramente il fatto che giammai, simili oggetti sacri dovrebbero essere trattati con mancanza di rispetto, ovvero gettati a terra, calpestati, oppure gettati senza troppe cerimonie nei rifiuti. Ma è del resto altrettanto vero che esse vengono generalmente rimosse soltanto in una precisa occasione: il Losar, o capodanno tibetano, corrispondente all’andamento dell’anno lunare ma che in genere si celebra con più di un mese di distanza da quello cinese, più celebre a livello internazionale. Il che significa, in altri termini, che sotto le splendide bandiere all’orizzonte, non può che permanere un costante strato di vecchi rettangolo di stoffa, che finiscono per accumularsi dando a questa scena un’aria strana, ed irreale, di trascuratezza delle circostanza…

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Perché il picchio pileato può sconfiggere un serpente

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La visione dei cartoni animati ma anche le naturali associazioni delle cose piccole alle idee, ci hanno portato alla cognizione che il suono del picchio all’opera nella foresta corrisponda grosso modo a quello di una lieve ballerina sulle punte, intenta a ad occupare uno dei ruoli secondari nella danza del lago dei cigni. Il che da luogo al dubbio reiterato, spesso vissuto dagli escursionisti nelle foreste boreali del Canada e dei Grandi Laghi, che può essere riassunto in breve nella frase: “Cosa diamine è questo frastuono… Infernale?” E già, che sarà mai? Sembra quasi che un cantiere edilizio, trasferito tra le fronde e resosi invisibile, giunga per manifestarsi come il fantasma di un castello vittoriano. Pare che un falegname alto due metri, preso dal raptus del lupo mannaro, si nasconda in mezzo ai tronchi e si diverta nel prenderli a martellate, a martellate. Bam, bam, BAM, BAM: foglie cadono dai rami, scoiattoli si lanciano verso la salvezza. Un piccolo pioppo americano, perforato da parte a parte, con l’aiuto del vento inizia gradualmente a piegarsi, quindi con lo schianto e un vortice di schegge si spezza in due. Dalla scena del delitto, un paio d’ali nere, con striature bianche e un ciuffo rosso sulla testa, grande grosso modo come un corvo, se ne vola via. Il suo aspetto è grazia ed innocenza. Il suo nome, puro terrore per le piante.
Dryocopus pileatus è fra tutti i picchi americani, quello che si è saputo adattare meglio alle necessità di un ambiente mutevole, continuamente condizionato dalle necessità d’espansione e conseguente disboscamento umano. Territoriale come i suoi fratelli, anch’egli soggetto alla necessità di aggredire una pluralità di tronchi alla ricerca di nuove larve o formiche sempre nuove da fagocitare, si tratta ad ogni modo di un uccello sufficientemente prolifico ed opportunista nel suo nutrimento, da riuscire a sopravvivere in praticamente ogni situazione. Capacità che gli ha permesso di fregiarsi all’attivo dello stato di diffusione graduato dalla IUCN di Least Concern (rischio d’estinzione minimo) ovvero tutto l’opposto di almeno due altre specie simili ma più specializzate, che per quanto ne sappiamo, ad oggi potrebbero anche essersi estinte. Il che sarebbe un vero dramma, nel caso del picchio pileato: perché è proprio questa creatura associata nella fantasia all’indole dispettosa e distruttiva di Woody, il picchio antropomorfo che folleggiò nei cartoons americani degli anni ’50, a consentire nei fatti la sopravvivenza di un alto numero di specie di uccelli e mammiferi, tra cui gufi, anatre dei boschi, scoiattoli e persino procioni, che arrampicandosi occasionalmente sugli alberi non mancano mai di apprezzare il foro tondeggiante, perfetto ed accogliente, ricavato in origine dal piccolo pennuto per custodire le sue uova.
Allo scoccare della stagione riproduttiva infatti, il pileatus cessa il suo vagabondare scriteriato, ed inizia a picchiettare un solo, specifico albero. Con insistenza estrema e all’apparenza crudele, tanto da perforare la corteccia, disintegrare letteralmente il legno all’interno e accumulare un letterale cumulo di segatura e frammenti, lasciati a depositarsi sulla base del tronco come una sorta di macabra paccianatura. Ciò viene fatto, tuttavia, con uno scopo assai specifico. E quello scopo è attirare la femmina, così come avviene per la danza combattiva del gallo cedrone, oppure l’apertura rituale della coda del pavone. Inizierà, quindi, quel riconoscibile richiamo quasi degno di un uccello tropicale, nei fatti simile alla risata stridula del succitato personaggio, finché una lei di passaggio non ceda all’evidenza, e non venga ad accoppiarsi e qui deporre le sue preziose uova. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Non proprio. Perché può capitare che il cumulo di legno sminuzzato, nei fatti, finisca per attrarre l’attenzione di un qualcosa di pericoloso e spiacevolemnte famelico. Un sinistro mangiatore delle cose bianche, tonde e ssucculente…

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Nuovo record: 144 Km/h nell’uovo a pedali

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Neanche l’ombra di un finestrino. Il proiettile bianco trionfa di nuovo a Battle Mountain, Nevada: molti sono i soprannomi che potremmo riuscire a dargli. La ghianda, la capsula, la supposta. Ma per comprendere realmente la più pura essenza di Eta, che ha permesso al suo team Aerovelo di superare ampiamente la concorrenza internazionale, occorrerebbe rimuovere la sua intera parte superiore, per scrutare all’interno e vedere… Todd Reichert, PhD canadese in ingegneria aerospaziale dalle doti ciclistiche tutt’altro che indifferenti, intento ad esprimersi attraverso lo strumento dei pedali, in posizione reclinata, alla velocità del fulmine e del tuono. Pilota, ed al tempo stesso motore, dell’oggetto che potremmo definire il primo dei primi rappresentanti veicolari del nostro futuro.
Un mondo in cui l’unico modo per spostarsi da un luogo all’altro è bruciare del carburante, o in alternativa impiegare energia elettrica derivata, nella maggior parte dei casi, dall’aver bruciato del carburante (migliore) altrove. È davvero questo il mondo che vogliamo lasciare in eredità ai nostri discendenti? Possibile che niente possa essere fatto per l’inquinamento, i problemi ambientali e di salute, lo stress ed il costo che derivano da una delle invenzioni che più hanno influenzato gli ultimi secoli, ovvero il veicolo a motore? Perché è questo, che siamo, fondamentalmente: cicale lanciate a velocità supersonica verso il profondo baratro dell’autodistruzione. Esseri viventi che hanno costruito, o che per meglio dire lasciato che nascesse in mancanza di appropriati accorgimenti, un contesto in cui non è soltanto “normale” ma persino considerato indispensabile e necessario, che ogni giorno si salga a bordo di un mezzo in grado di contenere fino a cinque persone, e lo si usi in solitudine per raggiungere il luogo delle nostre tribolazioni lavorative. Certo, esistono le eccezioni. Persone così fortunate (nessuno esiterebbe a definirle tali) che non hanno bisogno di coprire alcuna distanza che sia superiore a quella percorribile mediante l’impiego della sola energia muscolare. E poi, ovviamente, esistono i mezzi pubblici. Ma in ultima analisi, in un domani in cui tutti, fino all’ultima persona, dovessero salire sugli stessi autobus, tram e metropolitane che sono già in nostro possesso, diventerebbe necessario vararne una quantità tripla o doppia, riportandoci a una versione più moderata dello stesso problema. No, l’unica speranza è questa: pedalare, lavorare, pedalare. Come succede, notoriamente, in Olanda. Eppure resta il fatto è che al di fuori di un simile paradiso delle trasmissioni a catena, occorre fare i conti con gli effettivi limiti funzionali associabili al concetto stesso di bicicletta. Totale esposizione agli elementi. Una sicurezza stradale tutt’altro che eccelsa. Soprattutto, prestazioni che realisticamente limitano di molto le distanze copribili in un tempo che possa ragionevolmente far fronte alle esigenze quotidiane. Ed è proprio per far fronte a queste tre esigenze, unite a quelle comparativamente simili di cielo (gasp!) e di mare, che nacque in California nel 1980 la IHPVA: International Human Powered Vehicle Association, finalizzata al raggiungimento delle massime vette dei sistemi di trasporto del tutto privi di un motore. Attraverso uno strumento, tra gli altri, che ha sempre portato alle migliori soluzioni dei più complessi problemi: la sana competizione; il che ci porta, nello specifico, all’annuale gara recentemente conclusosi della World Human Powered Speed Challenge (in breve, WHPSC), dove lo scorso 19 settembre, alla presenza dei giudici di gara, quest’uovo fantastico ha superato di 4,8 Km/h il precedente detentore del record di velocità mondiale, varcando con fragore apocalittico la soglia superiore della classifica, in un campo in cui normalmente si lavora su guadagni di neanche mezzo Km/h l’anno. E la ragione di un simile successo, oltre alla forza fisica del conducente, va ricercato nei meriti dei costruttori…

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Ultimo atto: i sedili spariscono sotto il teatro

Laura Turner Concert Hall

Occorre spezzare una lancia a favore delle soluzioni multi-uso: perché quando mai è stato meglio disporre di uno spazio architettonico facente le funzioni di supermercato, un altro con la farmacia dentro, ed un terzo in cui ci sono il ristorante col bar… Rispetto ad un singolo edificio in cui c’è tutto questo e molte altre cose, parallelamente ben disposte lungo l’ampia galleria del centro commerciale! Mentre invece, in una grande capitale europea che possa dirsi davvero “culturalmente elevata”, da sempre coesistono il teatro dell’opera, l’auditorium, la sala da concerti, il centro conferenze… Laddove all’altro capo dell’Atlantico, tra gli orsi bruni e le aquile di mare, il cittadino americano ben conosce quell’approccio estremamente pratico, che consiste nell’adottare la soluzione omni-comprensiva del PAC, alias: Performing Arts Center. Un significativo passo avanti nell’unione tra convenienza e funzionalità, bellezza estetica e portata delle soluzioni tecnologiche nello specifico campo architettonico fin qui delineato. Prendi per esempio, lo Schermerhorn Symphony Center, vistoso edificio neoclassico nel quartiere SoBro di Nashville, finanziato e correntemente impiegato dall’orchestra sinfonica della città. Con una sala per le lezioni di musica o l’ascolto di musica da camera (170 posti a sedere) uno spazio per le presentazioni aziendali (fino a 60 partecipanti) un piano bar (120 seduti/225 in piedi) il grande lobby fronte giardino (200) la sala club (80) un grande salotto per i ricevimenti privati (55) e sopratutto la vasta Sala da Concerto “Laura Turner” con soffitti alti 12 metri, otto candelieri monumentali, pavimenti pregiati e l’organo da 3.568 canne appositamente progettato dalla Schoenstein & Co. di San Francisco, fatto per scomparire dietro un’elegante pannellatura in tutti i casi in cui non dovesse rendersi necessario. Perché di volta in volta, le fino a 1860 persone che possono prendere posto nell’augusta sala, potranno averlo fatto, nella maggior parte dei casi, con una di tre diverse finalità: A- Ascoltare un concerto di musica classica B- Fare lo stesso con un evento jazz, traditional pop o contemporaneo C- Assistere ad una rappresentazione in stile cabaret o un balletto. Diverse modalità che prevedono, a seconda dei casi, una configurazione dell’ambiente radicalmente diversa, con i sedili che giungono fino a ridosso nel palco nel caso A, mentre lasciano un più ampio respiro se si tratta di una situazione di tipo B, e nel caso della C addirittura spariscono fino quasi a ridosso delle balconate, riducendo gli spazi disponibili al pubblico ma aumentando esponenzialmente quelli per chi dovrà esibirsi. Ora naturalmente, un simile approccio non è totalmente nuovo nel mondo dei teatri e degli auditorium; benché si trovi raramente applicato ad una simile scala di dimensioni. E la ragione è presto detta: riconvertire un’ambiente per simili finalità notevolmente differenti, comporta inevitabilmente lo spostamento fisico di un ampio numero di posti a sedere, che dovranno essere ogni volta disposti in maniera perfettamente equidistante e per di più, secondo le leggi antincendio statunitensi, legati saldamente tra di loro, onde evitare il capovolgimento in caso di fuga precipitosa degli occupanti. Inoltre, problema non da poco, le sedie spostabili a mano sono per loro natura più leggere e dunque meno confortevoli, perché prive di una significativa imbottitura. Difficile negarlo: c’è un ottima ragione se ad oggi ben pochi PAC dimostrano la versatilità dello Schermerhorn. Benché il loro numero, ritengo, sia destinato ad aumentare nei prossimi anni.
Ragione di una simile affermazione? Avrete di certo già guardato il video soprastante, apprezzando l’impiego di questa particolare tecnologia. Il patinato quartier generale dell’orchestra di Nashville dispone infatti, fin dalla sua inaugurazione avvenuta nel 2003, di un fenomenale sistema motorizzato installato dall’azienda canadese Gala Systems, il cui motto “Trasformiamo la vostra visione in realtà” trova riconferma pressoché quotidiana, nell’effettivo funzionamento del particolare sistema brevettato dal nome di Spiralift. Il più compatto sollevatore con motore elettrico in proporzione alla sua potenza, che trova larga applicazione nel campo teatrale per ogni sorta di apparecchiatura o diavoleria, tra cui piattaforme mobili, macchine scenografiche, podi auto-sollevanti ed ovviamente, lo spostamento meccanizzato dei sedili che permette alla stessa sala di fornire gli spazi, a neanche un’ora di distanza, per eventi dalle esigenze di spazio radicalmente diverse. Le possibilità sono letteralmente infinite…

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