La frenetica battaglia dei micro-sumo

Il celebre Yokozuna noto come Kitanosato, ormai prossimo alla fine della carriera, valutò la sua collocazione nel centro del dohyo, il sacro cerchio entro cui si sarebbe svolto il combattimento. Dinnanzi a lui, il massiccio Takanozan, pesante il doppio di lui, dai lineamenti marcatamente est europei. Dietro il suo nome di battaglia dal suono tradizionale, l’inaspettata verità: questo guerriero è un polacco. “Proprio così” pensò Kitanosato con un vago senso di nostalgia: “Finiti sono i tempi in cui raggiungere lo status di più grande lottatore del Giappone, ti rendeva automaticamente il più forte del mondo.” Anche questo è il progresso, e lo accoglieremo con gioia. Se significa che lo sport supremo non dovrà perire. L’arbitro, vestito in giacca e cravatta invece che con la divisa da gyōji risalente all’epoca del medioevo Ashikaga scrutava impettito la scena, quando d’un tratto inviò il segnale d’inizio, attraverso uno speciale telecomando a raggi infrarossi. Takanozan, senza esitare neppure un attimo, spalancò le braccia nodose aprendo le sue “mani” a mò di bandiere samurai, sperando così d’ingannare, quindi spingere l’avversario. Nelle prime fasi del torneo questa tattica l’aveva reso imbattuto, eliminando molti fieri guerrieri provenienti dai cinque continenti. Ma Kitanosato, in quel momento, ebbe un’ispirazione: i lunghi anni di pratica gli avevano infatti insegnato che i lottatori più massicci avevano la tendenza a caricare immediatamente con la furia del Drago, senza impiegare la scaltrezza e l’agilità della Fenice. Quindi, il veterano di 1.000 battaglie fece un rapido passo di lato, mentre il treno in corsa del suo nemico sbuffava e gridava la furia disarticolata. Portato spietatamente innanzi dal principio fisico dell’inerzia, il lottatore polacco frenò le sue membra gommate nel tentativo di fermarsi, Ma talmente ingente era la forza infusa nella sua carica, e così massiccia la forma della sua scocca, che non riuscì in alcun modo a farlo. Inciampando nel bordo del dohyo, Takanozan  subì un cappottamento, mentre lo sportello delle batterie si apriva e quest’ultime rotolavano via, lontano. Una vittoria su tutta la linea. In quel preciso istante, Kitanosato si rese conto di aver difeso il titolo con successo, nell’anno del suo ultimo exploit. A quel punto per festeggiare, iniziò la sua danza di guerra a 5 metri al secondo, rimbalzando come la pallina di un flipper fuori misura tutto attorno al tondo biancastro che definiva il momento più importante della sua vita. Forse, dopo tutto, l’unico che contasse qualcosa tra un’accensione e l’altra. “Winner: Japan” dichiarò l’altoparlante. Il pubblico della prestigiosa arena del Ryōgoku Kokugikan, per una volta, gridava la sua esultanza come fosse indemoniato dallo spirito del Dio Hachiman-jin/Yahata no kami…
Ci sono molti motivi per cui i robot rivestono un ruolo di primo piano nella cultura del Giappone: perché sono moderni, complessi, ingegneristicamente rilevanti. Perché richiedono abilità nella costruzione, ed ancor più cognizioni per raggiungere lo stato di grazia di un impiego ideale. Ma il loro significato più profondo, a mio parere, va rintracciato nella religione. Quella tradizionale di un popolo, secondo cui gli oggetti e i luoghi possono essere infusi di spiriti (o kami) la cui natura elude la mera esistenza umana. Secondo la religione dello shintoismo, in cui non esiste altro aldilà che questo stesso mondo, sperimentato attraverso il residuo postumo del reikon, la nostra anima immortale. E il folklore di questo paese è pieno di miti in cui una statua o un pupazzo prendono vita, per correggere un torto o compiere il volere postumo di colui che li aveva un tempo posseduto. Occasionalmente, lo stesso succede con gli animali (vedi le derivazioni mostruose di cani e gatti, che tanto spesso diventano protagonisti dei moderni cartoni per la Tv). La questione del robo-sumo, tuttavia, trova una collocazione altamente specifica e piuttosto diversa dall’usuale. Niente, in questi design, risulta effettivamente essere concepito per suscitare un senso di grazia e simpatia. Troppo importante, e impossibile da ignorare, è il richiamo possente della vittoria. Ci sono molte variazioni progettuali, ma tutte basate sullo stessa filosofia di fondo: essere il più rapidi, piccoli e forti possibili, con un’altezza dal suolo tale da impedire il passaggio di un singolo foglio di carta. Un po’ come nel celebre e mai dimenticato programma British degli anni ’90, Robot Wars. La quale tecnica non esclude, naturalmente, una certa quantità di fantastiche trasformazioni al momento in cui si riceve il segnale del Via.
Di tali impreviste meraviglie se ne possono osservare diverse, insieme alle alternative più tradizionali, in questo formidabile montaggio di molti video reperiti online, messo insieme dall’utente Robert McGregor (Twitter: @id_r_mcgregor) con il titolo di ロボット相撲 (Robotto Sumō) in cui la rapidità quasi frenetica del montaggio si specchia nello stile del combattimento tra i piccoli protagonisti della scena, per lo più appartenenti alla categoria internazionale robotica del cosiddetto Mega Sumo, dalla misura massima di 20×20 cm complessivi. Mentre le alternative ancor più piccole possono ridurre la questione fino ai 2,5 cm di lato, passando per diversi scalini intermedi. Sarà dunque evidente come la versione robotica di questo sport abbia poco o niente ha da spartire con la sua controparte umanoide, non basandosi neppure in parte sulla preparazione fisica e dietistica che consente di aumentare a dismisura la resistenza del proprio baricentro innato. Soltanto l’obiettivo, resta lo stesso…

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Cosa c’entra il sughero con le palle da tennis?

Tennis Balls

Si è recentemente giunti alla conclusione, osservando attentamente il mondo per come in effetti appare, che nonostante le apparenze non viviamo all’interno di un’epoca dell’abbondanza. Il cibo è insufficiente, l’energia costosa, l’acqua limitata e i materiali frutto dell’industria sempre più rari e preziosi. Ma è la storia ad insegnarci come, proprio nei momenti di maggiore crisi, l’opulenza mostrata in determinati contesti tenda ad aumentare a dismisura, generando dei contrasti delle situazioni che potrebbero stupire i più. Come quella dei patrizi che organizzarono sontuosi banchetti fino a pochi giorni prima del sacco di Roma, o ancora l’orchestra del Titanic che ritenne giusto non fermare il suono della festa, fino allo spalancarsi delle fauci del Profondo che ogni cosa avrebbero condotto all’entropia. Così mentre il mondo è a rotoli, qualcos’altro nel frattempo rotola, con enfasi esiziale e un assoluto senso di disinteresse per le scarsità del nostro tempo: quante palle servono per un torneo di tennis? Ad oggi, a quanto pare, 98.000. Ebbene si, non sto affatto esagerando. Questa è la precisa cifra dichiarata ufficialmente dalla ESPN, il principale network televisivo americano dedicato al mondo dello sport, a margine del qui presente video, realizzato con il patrocinio della Wilson Sporting Goods, l’azienda multinazionale, presso il loro stabilimento di produzione sui confini di Bangkok. L’occasione: il prestigioso US Open, quarta delle sfide che fanno parte del Grande Slam. Una visita davvero…Affascinante. Coronata dalla visione nebulosa di un ipotetica città, come El Dorado, le cui strade sono lastricate di palle da tennis, le pareti degli edifici costruite in mattoni gialli ricoperti di feltro e addirittura le persone, ogni qualvolta devono fare rappresentanza, indossano abiti in gomma vulcanizzata. Una terra ancor più tematicamente uniformata del Regno Mariesco dei Funghi…
E invece, guarda, è tutto vero. Giacché simili ordini per quantità spropositate, nell’odierno mondo dell’industria, non sono viste in alcun modo come inappropriate. Fornendo, piuttosto, l’energia e l’argentovivo ad un intero meccanismo, formato da macchine, apparecchiature, persone. Ovverosia gli anelli, rigorosamente consequenziali, di quell’unica filiera che viene chiamata la catena di montaggio. Per cui non importa, se l’ordine in uscita sia di 10 o 10.000 palle; perché ogni giorno, doverosamente, se ne produce sempre il MASSIMO, e l’intera collezione viene poi inviata ai richiedenti. Chiunque siano, dovunque essi si trovano. Non è meraviglioso, tutto ciò? Ed anche molto bello a vedersi. Tutto inizia, nel video prodotto dal filmmaker Benedict Redgrove, con la gomma che arriva in fabbrica divisa in balle, del peso variabile tra 30 e 115 Kg. Tale sostanza, quindi, impastata come il pane e poi appiattita manualmente, viene inserita all’interno di un duplice rullo, al fine di renderla perfettamente piatta ed uniforme. Il prodotto viene quindi estruso per creare un certo numero di ammassi dalla forma pressoché trapezoidale, ciascuno dei quali destinato a diventare un’emi-cupola, costituente la metà esatta del nucleo interno del prodotto finito. Forma che ciascun oggetto riceverà grazie ad uno stampo a caldo, non poi così dissimile dalla teglia giapponese per fare il Takoyaki, bocconcino sferoidale con ripieno di polpo. La cottura in questa prima fase dura 90 secondi e raggiunge i 320 gradi. Se non che a questo punto, inevitabilmente, la gomma in eccesso avrà formato una sottile lamina tra una mezza sferetta e l’altra, definita in gergo il flash. Per rimuoverla senza possibilità d’errore, dunque, verrà usata una pressa idraulica dotata di attrezzi da taglio, in un processo parzialmente manuale che proseguirà con la deposizione di ciascun mezzo prodotto su dei rulli ricoperti di colla, concepiti in modo da ricoprire i bordi appositamente resi ruvidi con la giusta quantità di adesivo. È importante notare, a questo punto, come la mano degli esseri umani sia e rimanga una primaria forza operativa nella fabbrica della Wilson, che pur potendo almeno in teoria perseguire un maggior grado di automazione, preferisce non farlo. Le ragioni sono molteplici, e doverosamente inclusive della creazione di un certo numero di posti di lavoro, validissima missione in terra d’India. Ma c’è anche da dire che, allo stato dei fatti attuali, sia in effetti meno costosa la manodopera locale che la costruzione di avanzati, e ancor più complessi, apparati utili soltanto a fare palle da tennis in enorme quantità!

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Quanto è forte l’Italia nello sport delle battaglie medievali?

Battle of Nations 2016

Risposta breve: molto. Risposta lunga: davvero molto, ma purtroppo ancora non abbastanza per sconfiggere Russia, Bielorussia, Ucraina e Polonia, il manipolo di paesi che ha fondato nel 2010 questa particolare forma di competizione tra singoli ed a squadre, a partire dalla passione locale per le ricostruzioni storiche che vanno, per così dire, dritte al punto. È una metodologia piuttosto originale di onorare la Storia, questa, che antepone all’accuratezza estrema degli aspetti per così dire, esteriori, così relativamente facile da ottenere purché si abbia la giusta documentazione (e materiali, studiosi, costumisti…) Con un approccio che potrebbe facilmente essere definito “sperimentale”.
La questione è molto semplice, volendo. Sappiamo bene, dalla letteratura coéva, dalla storia dell’arte e dai resoconti delle cronache delle famiglie nobili, che nell’Europa di una buona parte del Medioevo del Rinascimento, diciamo almeno tra il XII ed il XVI secolo, sia esistita la diffusa tradizione (se non vogliamo addirittura definirla “moda”) di far cozzare le proprie armi senza l’intenzione di ferire o uccidere l’avversario, ma sotto lo sguardo appassionato di un nutrito pubblico talvolta addirittura popolare, accorso sugli spalti o presso le pareti dell’arena per tifare i propri beniamini. Che erano, doverosamente, i signori del territorio di residenza, mentre i loro avversari provenienti da fuori dovevano fare affidamento sul proprio seguito di scudieri e servitori, trasformati per l’occasione in una sorta di primordiali cheerleaders, pronti a battere con forza sugli scudi di ferocia e d’entusiasmo. Una situazione, nel complesso, che non pochi sono giunti a definire come antesignana dei moderni sport più seguìti, in cui squadre attentamente definite si combattono inseguendo un qualche tipo di pallone, innalzando metaforicamente il vessillo della propria maglia rigorosamente nazionale. Così noi oggi, sappiamo tutto del torneo. Ma sappiamo veramente TUTTO del torneo? Perché un conto è leggerne sui libri, tutto un’altro, invece, calarsi sulla testa il rigido cimiero, ed avanzare verso la controparte di giornata stando bene pronti a ricevere qualche abbondante dozzina di colpi di mazza, azza, spada e scudo, trasformato per l’occasione nell’equivalenza pratica della proverbiale sedia degli incontri di wrestling, sarebbe a dire, l’arma dell’ultima spiaggia eppure tanto, tanto dolorosa. Perché qui, credo siano in pochi a voler dubitarne, si fanno veramente male, come testimoniato anche dalla presenza di un intero staff medico contemporaneo, appropriatamente tenuto nascosto in una tenda periferica del grande accampamento, ma sempre pronto ad intervenire per far fronte a contusioni, graffi sanguinanti, l’occasionale micro, oppure macro-frattura. Detto questo, veniamo a noi.
O per meglio dire a loro, gli atleti italiani che hanno gloriosamente partecipato alla recente edizione della Battle of Nations 2016, tenutasi durante la prima metà del mese di maggio a Praga, benché sia chiaro che l’evento si sposta ogni anno tra i diversi paesi dell’Est Europa ed in un caso anche in Francia, senza mai restare legato alle tradizioni e modalità di uno specifico territorio. Risultando dunque tanto più internazionale e significativo. La nostra delegazione di 36 guerrieri e guerriere (si, c’è anche la categoria femminile), capeggiata da Antonio De Zio del club di rievocazione di Livorno “La Vergine di Ferro” era tra i più numerosi ai banchi di partenza, con delegazioni e distaccamenti preparate in modo specifico per quasi tutte le categorie: il duello 1vs1, lo scontro 5vs5 e la grande rissa 21vs21. Mancavamo, purtroppo o meno male, unicamente di un partecipante per la categoria degli scontri individuali con le armi lunghe, tra i più pericolosi implementi bellici impiegati nel corso dello sfaccettato evento.

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Scacchista di strada si trova sfidato da un grande campione

Chessmaster

Non sono esattamente veri e propri truffatori. Né sarebbe giusto definirli tutti quanti egualmente disonesti, benché l’imbroglio occasionale, dopo tutto, faccia parte di quel repertorio che caratterizza il loro stile. Ma non ci sono dubbi sul fatto che le schiere dei caratteristici giocatori di scacchi dei parchi newyorkesi, nonché di altre metropoli statunitensi, non stiano seduti lì esattamente per cambiare aria. Bensì, col chiaro e non sempre dichiarato intento di vincere ad ogni costo, dando prova della propria abilità e poi sopratutto guadagnando, un passante dopo l’altro (se si tratta di turisti, ancora meglio) quei 5-10 dollari di media che scommettono a partita, arrivando alla fine della giornata con un gruzzolo tutt’altro che insignificante. Questo perché sono…Forti, per lo meno, nello specifico contesto operativo, e parlano bene la lingua della strada, con il suo ricco repertorio di insulti, distrazioni, non sequitur mirati a sbilanciare l’avversario. E puntano sui grandi numeri. La singola sconfitta occasionale, per loro, non è poi tanto importante. A meno che non sia talmente spettacolare, per impostazione, e totalizzante, per il modo in cui si manifesta, da cambiare totalmente il tono di una prevedibile giornata. O come in questo caso, tarda sera.
La scena si svolge a Washington Square Park, un parco da 9,74 acri sito a Manhattan, famoso per l’arco di trionfo neoclassico che costituisce il suo ingresso, dedicato alle vittorie dell’omonimo generale della guerra di indipendenza americana, ed alcune statue su piedistallo, tra cui quella dedicata a Garibaldi. Il primo dei protagonisti, per inferenza, l’abbiamo già descritto: è un istrionico hustler, come li chiamano da queste parti, ovvero letteralmente, un “traffichino/trafficone” (sia chiaro che sono le vere definizioni del dizionario) termini comunemente condivisi anche con chi fa il gioco delle tre carte, oppure scommette il proprio denaro sulla prototipica partita di biliardo, freccette o similari… Tutte attività verso le quali ormai persino noi, dall’altro lato dell’Atlantico, guardiamo con un certo grado di sospetto, principalmente in funzione delle innumerevoli scene didascaliche inserite all’interno di serie tv e film, in cui il tizio-di-turno finge di perdere, poi schianta l’avversario. Ma gli scacchi, sono tutta un’altra storia, giusto? Per poter praticare con efficacia un tale nobile gioco, vuole lo stereotipo, occorre essere persone di una certa cultura. E soprattutto, rispettarne le caratteristiche ed il senso ultimo: giammai, un praticante dell’antica arte, oserebbe spostare i pezzi del proprio avversario… A meno di trovarsi, dal suo punto di vista, totalmente privo di alternative. Un’esperienza che proprio costui aveva la sensazione di stare per sperimentare, nel momento stesso in cui l’uomo calvo in giacca di pelle, con al seguito un intero entourage e anche un paio di telecamere, si è seduto lì al suo tavolo, e con piglio sicuro ha iniziato a fargli un paio di domande di circostanza. Nonostante questo, trovandosi sfidato: “Spingi!” Fece all’indirizzo del pulsante sul suo timer: “Spingi e poi parliamo.”
Perché naturalmente, il tipo di scacchi che si gioca nei parchi pubblici non è quello delle gran partite di torneo, oppure degli incontri tra vecchi amici o parenti, ma della tipologia comunemente detta “blitz” o “speed chess” in cui ciascuno dei due giocatori dispone esattamente di 5 minuti per portare a termine l’interezza delle proprie mosse; in cui esaurire il tempo è una condizione di sconfitta, al pari del classico e definitivo scacco matto. Le capacità che diventano fondamentali per prevalere, a questo punto, diventano la rapidità nel prendere decisioni, la concentrazione e il sangue freddo in ogni circostanza. Inclusa quella, generalmente molto desiderabile per lo hustler, del formarsi spontaneo di un capannello di persone che passavano di lì, sempre fin troppo pronte a commentare o fare strani versi, insinuando il dubbio che conduce all’incertezza. Non che questo potesse succedere nel corso della partita specifica, nel corso della quale l’individuo inizia subito a lamentarsi: “Ma non guardi neanche la scacchiera?! Gente, questo qui non guarda neanche la scacchiera!” Ovvio, ah ah. Tu ancora non sai che Maurice Ashley, il primo gran maestro afroamericano della storia, scegliendo spontaneamente di lasciarti il vantaggio del bianco, non stava facendo un gesto meramente simbolico. Ma ben presto, lo capirai…Le prime battute della partita sono insolite: lo scacchista del parco sceglie un’apertura relativamente poco comune, quella polacca o di Sokolsky, che consiste nel muovere di due il pedone della linea B, mirando a controllare un solo lato del campo di battaglia. Una tecnica ormai raramente usata nel gioco professionistico, che tuttavia può risultare utile nello stupire un avversario impreparato o incerto, del tipo che comunemente si trova ad affrontare costui, a seguito dei lazzi e richiami lanciati all’indirizzo dei passanti. Di contro, Ashley posiziona subito entrambi i cavalli verso il centro, lanciando una sfida molto difficile da ignorare. Nelle mosse immediatamente successive, la situazione inizia a scaldarsi, mentre avviene la prima chiara irregolarità.

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