Il fiordo di Vejle, nuovo polo dell’architettura danese

Sta facendo il giro del mondo la notizia che ad inizio gennaio finalmente, dopo oltre 14 anni di attesa, uno dei complessi di appartamenti più distintivi di tutta l’Europa ha raggiunto lo stato di completamento, con l’effettiva messa in opera degli ulteriori tre edifici facenti parte della sua forma ad onda. Bølgen, o per usare il suo nome anglofono e concettualmente equivalente The Wave, potrà quindi costituire un’ulteriore attrattiva della piccola città di Vejle (pronuncia [ˈvɑjlə]) nel fiordo che porta lo stesso appellativo, punto più estremo della penisola dello Jutland, in Danimarca. Ma questo non è certo tutto per quanto riguarda anche soltanto l’immediato, considerato come la scorsa estate, a circa 200 metri distanza nell’acqua limpida della baia, ha potuto vantare il raggiungimento di un simile traguardo anche la più importante opera dell’artista di Copenaghen Olafur Eliasson, sostanzialmente indistinguibile da un castello direttamente fuoriuscito dal regno delle fiabe. Ma qui non siamo a Narnia o nel Regno di Mezzo, bensì nel capoluogo un tempo noto come “Manchester del Nord Europa”, per l’alto numero di telai meccanici presenti tra i suoi confini durante tutto il corso della Rivoluzione Industriale, successivamente smontati e sostituiti da una fiorente industria moderna del design, l’arte del vivere e i servizi amministrativi dedicati all’intera popolazione regionale. Per un centro abitato di oltre 54.000 abitanti che, nonostante la solida economia, dovette mettere temporaneamente in pausa l’apporto più significativo e movimentato al proprio Skyline dopo averne completato appena di due quinti, a causa della recessione globale iniziata nel 2009. Il che potrebbe costituire, nei fatti, una significativa ragione di rammarico, visto come l’architetto stesso dietro al progetto Bølgen, il famoso Henning Larsen, è purtroppo venuto a mancare all’età di 87 anni nel 2013, mancando in questo modo l’opportunità di vedere ultimata la più interessante opera della sua maturità professionale. Ma non di ricevere svariati premi in funzione di essa, già largamente meritati in corso d’opera, tra cui quello di “appartamento dell’anno” concesso dalla rivista di architettura Byggeri, ABB LEAF Award per l’innovazione e il prestigioso Civil Trust Award della città di Vejle nel 2013.
Il concetto stesso alla base del complesso The Wave in effetti, è direttamente riconducibile a un’encomiabile visione mirata a proporre l’integrazione tra il mondo artificiale e la natura, con un dichiarato riferimento nella fattispecie alle colline frastagliate che circondano l’entroterra cittadino, creando il dislivello alla base dell’antica efficienza rinomata dei suoi mulini. Una caratteristica altamente significativa in un paese dove l’elevazione media sul livello del mare è di appena 34 metri (praticamente, piatto come una tavola) così come appassionante risulta essere, per ovvie ragioni, l’associazione dei cinque pressoché identici edifici con il lungomare antistante, entro il quale gli viene permesso di riflettersi creando un’immagine memorabile quanto un logo; e non a caso, proprio una versione stilizzata di questa forma sembrerebbe essere stata adottata come segno di riconoscimento dalla compagnia Bertel Nielsen A/S, diretta committente di queste atipiche mura. Ma per comprendere a pieno l’evidente crescita di valore di questo intero vicinato, sarà opportuno a questo punto avvicinarsi anche alla succitata struttura cilindrica situata al termine dell’Onda, un qualcosa di ancor più avveniristico e strano nella sua concezione ideale di partenza…

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La Tokyo imprevedibile delle ragazze di Harajuku

Decora Girls
Shigoto, shigoto; nakama, nakama. Devi lavorare, ganbare! Impegnarti, onorare i tuoi insegnanti, la famiglia, i genitori. Dal momento in cui una bambina, o un bambino giapponese giungono alla scuola media, spesso si attiva un meccanismo, fatto di aspettative sociali, convenzioni, lo stesso stile di vita imposto dalla collettività, che mira a condurre queste piccole persone lungo una strada attentamente definita, come quella di un moderno samurai. Non per niente, coloro che falliscono gli esami di ammissione e devono studiare in proprio, vengono chiamati in via informale rōnin, alla stregua dei guerrieri itineranti dell’epoca medievale e pre-moderna, che rimasti senza un clan, dovevano vagare per il paese come gli spiriti dei trapassati, soffrendo quotidianamente la fame, la solitudine, la mancanza di una posizione chiara. E ripensando alla più celebre vicenda collegata nell’immaginario collettivo alla questione qui citata, sarebbe difficile non citare ciò che fecero, prima dell’ultima battaglia, i Sette Samurai di Kurosawa: prima di rischiare la propria vita per difendere un villaggio, occorre aver dipinto una bandiera! Sulla quale, sei cerchietti ed un triangolo, perché Kikuchiyo, dopo tutto, rimaneva un contadino. Ma la costituzione del gruppo supera i confini imposti dalla società. Perché permette, all’individuo, di trovare validato il suo pensiero, in un qualsivoglia modo che la grande società non può, o non vuole fare. Naturalmente, perché avvenga un’integrazione pari a quella dei compagni che annientarono i briganti del riso, è vantaggioso cancellare totalmente le reciproche distinzioni, di carattere e/o predisposizioni. E quale miglior modo, per farlo, che indossare un’uniforme?
Il Giappone, che ama la moda giovanile almeno quanto gli altri paesi del primo mondo, in cui tale forma d’espressione è per lo meno possibile in potenza, l’ha sempre fatto in modo trasversale, obliquo e fuori dagli schemi. Ciò perché, come sappiamo da infiniti manga, anime & intrattenimenti interattivi, non importa che frequenti un istituto pubblico o privato: se sei un uomo, dovrai vestire con la giacca militare e i pantaloni neri, in uno stile mai cambiato fin dall’epoca della riforma Meiji. Se invece sei una donna, ancora meglio, c’è già pronta per te la gonna quadri alle ginocchia, la camicia bianca, il soprabito alla marinara. E non scordarti il cravattino! Seifuku (制服) questo è il nome. Si tratta di un punto d’orgoglio, non un obbligo. O così, del resto, ci viene fatto credere con enfasi e completa convinzione. Tu sei quello che vesti, ed in funzione di quello che sei, diventi forti. Ciò è letteralmente la premessa, ad esempio, della recente quanto rinomata serie di Hiroyuki Imaishi, Kill la Kill. In cui i diversi club di un apocalittico liceo futuro, a seconda del vestiario intriso di un potere misterioso, acquisivano poteri oltre l’umano. Nel Giappone tangibile del sushi e sashimono, naturalmente, questo non succede. Ma il senso d’identità, rafforzato nello spirito samuraico del vestire, resta un punto fermo a cui si appoggia il metodo delle generazioni.
Una questione tanto efficacemente messa in mostra nel presente video del canale Refinery29, in cui la conduttrice Asha Leo viaggia fino a un polo fondamentale del mondo del vestire tokyoita, il celeberrimo quartiere di Harajuku. Dove incontra, a fargli da Virgilio, la giovane stilista e condottiera Kurebayashi, che l’introduce al mondo variopinto ed improbabile del Decora. Uno stile ultra-moderno, evolutosi in questi anni a partire da un trend degli ultimi anni ’90, che consisteva nel connotare un abbigliamento relativamente sobrio con una ricca collezione di accessori, fermagli, borse, pupazzetti e così via. Che grazie all’applicazione reiterata è diventato infine, come spesso capita, qualcosa di davvero estremo.

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