Lepidottero cangiante che galleggia tra le onde di salmastre contingenze; quale albero ha ospitato la tua camera del cambiamento? Quale aroma, di stupenda infiorescenza, accompagnava le tue giornate in guisa di brucante essere peloso e variopinto, quasi totalmente ricoperto di peluria urticante? Bruco che percorre le distese della verdeggiante nutrizione. Bruco ovvero l’ottimo vampiro delle piante, anche quando di piante, tutto attorno, non parrebbe sopravviverne nessuna. Fin dove quei tozzi pseudopodi ti hanno trasportato, tra il fragore delle macchine al servizio dell’industria concepita dall’umanità insapore. Cotto in mezzo ad una pasta resa fluida e malleabile, grazie al calore di una stella che non possiede alcun nome. Ma brucia, arde ininterrottamente, finché l’addetto all’altro lato della macchina non grida: “Fermi, fermi tutti. Un insetto è entrato nell’imbuto!” parte esplicita […Potrebbe rovinare il parison.] Parte implicita. Ma che cos’è, in parole povere, l’oggetto da cui prende il nome tale iconico passaggio intermedio di un certo tipo di processazione dei materiali… Un lungo tubo, essenzialmente, ma anche largo, a ben vedere, per lo meno nell’accattivante sequenza alla testa dell’articolo che state leggendo. Il tipo di breve video, tra il ricco novero di Internet, che ha cominciato negli ultimi tempi a fare la sua comparsa nei canali Instagram o TikTok, accompagnato da un roboante ritmo musicale da discoteca. La via d’accesso, se vogliamo, all’effimera attenzione della gente, per un tempo abbastanza lungo da apprezzare l’ingannevolmente semplice serie di passaggi e l’oggetto finale che ne consegue: ad esempio uno scintillante, giallissimo, idrodinamico kayak. Del tipo pronto a solcare le onde, ogni qualvolta l’orologio settimanale dei giorni raggiunge l’ora metaforica del week-end. Parrebbe quasi un’arcana manovra in grado di plasmare la materia, ma non lo è. Poiché siamo dinnanzi, direi che è giunta l’ora di rivelarlo, all’avanzata e vetusta tecnica dell’ormai quasi secolare stampaggio per soffiaggio, sebbene la sua applicazione in campo nautico paia essere alquanto recente. Per lo meno, dal modo in cui taluni dei protagonisti delle varie dimostrazioni online agiscono apparentemente sorpresi dal peso del natante ultimato, lasciandolo cadere rovinosamente sul rigido suolo dell’opificio. Dopo tutto, come ben sapete, questo tipo di termoplastica è “praticamente indistruttibile” una volta che ha raggiunto la temperatura ambiente. E a patto che non sia coinvolta dalle fiamme vive come avviene in certi gravi casi ad un tutt’altro altro tipo di scafi letteralmente imbevuti di petrolio. Ma navi cisterna qui non prendono di certo forma, bensì piuttosto la versione navigabile del sostanziale approccio figlio di un bisogno molto rappresentativo dei tempi contemporanei: avere la cosa subito, perfettamente conforme, essenzialmente pronta all’uso fatta eccezione per il bisogno di tagliarne delicatamente i contorni inesatti. Soltanto per gettare la materia di troppo nuovamente nel magico calderone. Da cui possa, quasi subito, ridiventare un parison.
plastica
Lo strano approccio all’apicoltura dell’alveare di plastica in bottiglia
Se un albero ronza nella foresta, ma nessuno riesce a sentirlo, produce lo stesso del miele? Se al tronco è stato avvitato un asse, attaccato al quale campeggia una certa quantità di giare trasparenti, le piccole ospiti all’interno riusciranno a lavorare altrettanto bene? Domande difficili nel particolare contesto partico di appartenenza, di un mestiere antico e proprio questo instradato lungo un preciso sentiero, deviare dal quale comporta fatica, sudore, disapprovazione. E sguardi severi da parte di sedicenti “esperti”, come quelli attirati dall’avvocato russo Max Egorov, alias Advoko MAKES. Costruttore appassionato di strutture boschive, nel tempo libero un celebrato maker di Internet nonché, per sua stessa ammissione, nulla più che un apicoltore dilettante. Ma c’è una funzione utile che trova terreno fertile nell’opera di chi non possiede preconcetti o ingombranti nozioni di seconda mano, pur essendo sufficientemente sicuro di se da voler offrire istruzioni per la messa in atto collettiva di una nuova idea. Con luci ed ombre, senz’alcun dubbio, ma è pur sempre questo il problema di qualsivoglia tipologia di attività umana, incluso il rapporto reciprocamente vantaggioso tra grossi mammiferi sapienti e gremiti assembramenti d’insetti eusociali: le api. Un paradosso esse stesse, poiché non è facile contestualizzare il concetto di multiple menti ed altrettanti corpi intrecciati all’interno di un singolo spazio ed in questo raccolte, nel perseguire congiunte lo stesso obiettivo di massima, che vorrebbe condurle ad imperitura prosperità. Sulla via del quale, il miele non è che un prodotto collaterale, tuttavia sufficiente a ridefinire il destino stesso dell’alveare e la sua collocazione precisa nella società. Come una sorta di “arredo” costoso e complesso da gestire, tra le più preziose proprietà di chi pratichi tale arte, e non soltanto a causa di quello che c’è all’interno. Ed è proprio questo, per l’appunto, il problema menzionato da Egorov in apertura, relativo al costo d’ingresso non propriamente accessibile di quel mestiere, che lui colloca arbitrariamente (e in maniera oggettivamente esagerata) attorno alla cifra dei 10.000 euro. “E se io vi dicessi che c’è un modo più semplice? Potenzialmente migliore, ma anche e soprattutto condizionato da un costo eccezionalmente ridotto. A tutti gli effetti, alla portata di chicchessia…” Quello mostrato e descritto negli oltre 30 minuti di un video già dimostratosi capace di accumulare oltre 10 milioni di visualizzazioni, oltre a un significativo numero di abbonati al canale Patreon dell’autore. Consistente in parole povere nell’adattamento di una serie di giare di plastica, del tipo comunemente impiegato per i distributori di acqua potabile, al fine di ospitare le piccole costruttrici della città di cera, e tutta la loro dolce ricchezza ambrata secondo modalità non profondamente dissimili di quello che potremmo convenzionalmente descrivere come alveare a forma di tronco. Ma con una modularità e soprattutto, praticità d’implementazione, che sembrano esulare dallo stratificato e complesso mondo dell’apicoltura umana…
Cuoco della plastica dimostra il metodo per preparare il pesce Lego
Ottimo salmone. È norvegese? No, viene dalla Svezia. Magnifica costruzione, mobilia degna di assoluta ammirazione. È Ikea? Non proprio; poiché giunge da una congiunzione di polimeri, la mera risultanza chimica di una trasformazione del petrolio. Si tratta di plastica, non legno rimpastato e perforato al fine di facilitare l’utilizzo di perni e bulloni. Questo qui è un tipo di materiali che… Congiungono la loro stessa essenza. Grazie all’utilizzo di un brevetto che proviene dalla storia moderna del Nord Europa: leg godt era quel motto (“gioca bene”) da cui venne a materializzarsi il marchio che è la base dell’idea. Finché al concludersi di un lungo giorno di lavoro al ristorante di famiglia, andando a letto ancora prima di aver preparato la cena, non comparve innanzi a me il sinuoso verme parlatore. Abitante della mente dalla pelle molto spessa, per il peso dei pensieri che provengono dalla terra del subconscio e delle meraviglie: “Hai mai pensato quanto sarebbe semplice” egli mi disse “Se nella terra della plastica, mangiassimo soltanto quella… Traendo nutrimento dai legami chimici del mondo! E rimuovendo dal continuo ciclo metabolico della natura, cose indistruttibili, il pericolo della materia che non può essere ridotta agli elementi di partenza. Non senza l’uso di avanzate tecniche di riciclo. E digestione?” Già, il lavoro dello stomaco. Operoso organo del tutto privo di occhi, bocca o fiumi utili a evitare la tracimazione, il cui impiego ideale viene spesso subordinato alla cupidigia di riuscire a ingurgitare il più elevato numero di calorie. Tanto da esser giunti ormai da tempo a metabolizzare l’ardua conclusione, in base a cui ogni cosa può diventare parte del nostro metabolismo; previo impiego del giusto livello di disciplina, ovvero l’utilizzo di tecniche adeguate tra le mura di una vera cucina.
Questo è il senso e la tematica, del progetto qui rappresentato in tanti gesti colorati e inquadrature frutto di un’impegno significativo. Non per niente, il nome dell’autore coreano del canale in oggetto si configura come “I Like Home” (“Mi piace casa”) interiezione di partenza, nonché dichiarazione d’intenti, pienamente indispensabile per applicarsi nel complesso compito di fare qualche migliaio di fotografie. Una dopo l’altra, un centinaio dopo l’altro, da inserire prontamente nel computer della propria professione creativa. Affinché mandate in rapida sequenza, possano creare l’illusione del movimento. Ecco una tecnica che negli anni si è trovata a trarre grande beneficio dall’impiego della tecnologia più sofisticata. Ma che costituisce anche, per sua implicita natura, uno dei pilastri fondativi del contesto stesso di cinematografia umana. Trovando, non per niente, alcuni esempi significativi agli albori stessi di quest’arte nelle pellicole di Segundo de Chomón, Émile Cohl ed Alexander Shiryaev. Personaggi dei primi del Novecento, che d’altronde non avrebbero tardato a comprendere il lavoro del collega asiatico, con qualche dubbio residuo sull’effettiva finalità dichiarata. Questo in quanto la preparazione del tonno-Lego in questione, per quanto desumibile dal titolo stesso, si presenterebbe come esempio di ASMR (Autonomous sensory meridian response) che sarebbe poi la produzione aurale di una serie di sussurri e suoni scricchiolanti destinati, nell’idea dei propri produttori, a stimolare un senso di coinvolgimento fisiologico della persona posta metaforicamente all’altro capo del registratore. Notevole, nevvero? Ma la vera qualità che qui troviamo pienamente realizzata, volendo essere oggettivi, è proprio quella delle animazioni realizzate mediante il sistema dello stop-motion, tanto irreali da poter trovare posto anche in una mega-produzione hollywoodiana. Il che ci porta all’inevitabile domanda… Di chi sia costui, e da dove proviene? Quali sono esattamente, i suoi obiettivi? In molti hanno raggiunto un tal consenso che vorrebbe definirlo una figura largamente misteriosa, come un giustiziere della notte tra miliardi di suoi simili, fautori della nuova ondata del fantastico che viene, come il suo pesce, dall’oceano delle profondità digitali. Eppure non è del tutto impossibile, pensare di riuscire ad attribuirgli un nome…
Progettista berlinese tenta di produrre il più portatile kayak di sempre
C’è del significativo potere, in una simile parola. In un contesto dove le proporzioni della logica determinano lo schema della convenienza, accompagnato da praticità e semplificazione, diventa il culmine del senso tecnologico e la necessità percepita di fare quello che si vuole, quando si vuole, in assenza di residui compromessi: portabilità. Dei computer, tablet, videocamere, sistemi audio e d’intrattenimento, videogiochi. Mentre il mondo fisico dei trasporti, gradualmente, si adegua? Biciclette pieghevoli. Hoverboard da mettere in borsa. Persino zaini a razzo alimentati col nitrogeno, utili a fluttuare sopra i sogni delle circostanze ultra-gravitazionali. Mentre molto stranamente, non erano molti a essere pronti, prima dell’ultima decade, a concepire un metodo quasi-tascabile per navigare sopra l’onde delle umide località peri-urbane. Grazie all’antica tecnica dei piegatori della carta giapponese, l’arte nota al mondo con il termine composito 折り紙 (origami). Avete presente, per dire, la Venezia tedesca? Una definizione che talvolta sfugge agli altri abitanti d’Europa, benché sia nei fatti riferita a niente meno che Berlino, ove al convergere del fiume Sprea con vari splendidi canali, tra cui quello di Charlottenburg, Berlin-Spandau e Westhafen, viene a crearsi quella pittoresca convergenza che da in molti l’istantaneo desiderio d’esplorare. Il che non sarebbe stato un grandissimo problema per Daniel Schult, l’ultimo giovane di queste parti a tuffarsi nella grande avventura di un progetto imprenditoriale finanziato coi soldi “di Internet”, non fosse stato per la sua casuale preferenza verso gli spostamenti veicolari grazie all’energia dei muscoli, ovvero in altri termini, la rinuncia alle diaboliche tentazioni dell’automobile, per assumere il virtuoso ruolo del ciclista. Agile, silenzioso, rapido verso i suoi scopi nella vita… Tranne quello, s’intende, d’imbarcarsi nel secondo umido elemento, data l’inerente problematica di come, precisamente, trasportare un qualsivoglia tipo d’imbarcazione fino agli alti argini di quel bisogno personale. Perché neppure gli inuit, inventori dell’imbarcazione personale più maneggevole nell’intero scenario delle popolazioni amerindie, erano soliti trasportare i propri mezzi per lunghi tragitti di terra, come potremmo definire quelli dell’odierno ambiente urbano ricoperto da impietoso asfalto. Ecco qui l’idea, come diretta conseguenza, di rivolgersi a quel segmento di mercato nato all’inizio del 2013 come alternativa ai comunque ponderosi kayak gonfiabili, per la barca in polipropilene pieghevole capace di trasformarsi, al termine dell’utilizzo, in una compatta borsa sollevabile con un singola mano. Ma le mani, come sappiamo molto bene, non sono libere mentre si guida una normale bicicletta. Ecco dunque spiegato, in poche parole, il suo ulteriore margine di miglioramento…