L’implacabile potenza del motore alto quanto un palazzo di quattro piani

Tra le diverse teorie relative all’estinzione dei dinosauri, una delle più accreditate attribuisce parte significativa dell’evento a una variazione della composizione atmosferica del nostro pianeta. Il che significa che col trascorrere degli Eoni, il progressivo aumento della quantità di esseri animali sulla Terra senza che avvenisse lo stesso in ambito vegetale avrebbe portato gradualmente a una rarefazione dell’ossigeno fino a uno stato paragonabile a quello attuale. Condizione del tutto insufficiente, nella semplice realtà dei fatti, a rispondere alle necessità respiratorie di una creatura (non acquatica) dalle dimensioni superiori a quelle di un elefante. La situazione immediatamente cambia quando d’altra parte, l’immissione della quantità d’aria avviene tramite l’apporto di un diverso approccio, quello indotto dagli umani grazie all’utilizzo della tecnica finalizzata alla risoluzione di un bisogno: trasportare cose, Altrove. Così che al trascorrere del tempo, invece che diventare più piccole, le cose tendono a ingrandirsi in funzione dei mutamenti delle condizioni vigenti, come l’aumento di efficienza, affidabilità e la divisione dei compiti necessaria a poter fare a meno dello standard Panamax, necessario per poter attraversare le strette condotte del più strategico canale mai costruito dall’uomo. Prima figlia per lo meno in termini di preminenza, di quest’era senza Panama risulta esser stata, d’altra parte, proprio quella Emma Mærsk da 397 metri col nome della moglie del magnate a capo dell’azienda relativa, varata nel 2006 e sospinta innanzi, verso nuove vette del trasporto dei container, grazie ad uno dei traguardi più avanzati mai raggiunti dalla meccanica dei trasporti: il Wärtsilä 14RT-flex96C a due tempi spesso soprannominato, in particolari ambienti del vasto Web, “motore più grande e più potente al mondo”. I cui numeri, banalmente posti l’uno di seguito all’altro, risultano abbastanza da far girare la testa a chicchessia: altezza 14 metri, lunghezza 27 (con disposizione lineare dei cilindri) peso 2.300 tonnellate, 300 delle quali per il solo albero motore. Cilindrata complessiva di 25.000 litri e una potenza di 109.000 cavalli, ovvero l’equivalente di 73 Bugatti Chiron. Il tutto alimentato da un consumo orario di 6.280 litri di carburante diesel l’ora, in realtà molto inferiore a quanto si potrebbe pensare, grazie all’eccezionale efficienza termica del 50% circa, nei fatti fino a tre volte superiore a quella di un moderno motore automobilistico o ferroviario. Questo perché il suo funzionamento, nei fatti, avviene al ritmo notevolmente inferiore di appena un centinaio di giri al minuto, rispecchiando nei fatti l’ideale di quelle creature colossali, risalenti ad altre epoche o momenti del continuum, le cui movenze dovevano necessariamente rispondere alla legge del cubo quadrato; il che significa, nell’esempio da noi utilizzato, che il volume dei muscoli non può crescere alla stessa rapidità del resto del corpo, benché ciò sembri applicarsi in modo meno pregno al campo dei motori. I quali includono, per semplice necessità inerente, i grandi spazi vuoti dei cilindri, permettendo nei fatti ad un qualcosa di veder la sua potenza incrementata in modo esponenziale, mentre non aumentano di pari passo, il peso e le dimensioni. Fino all’ottenimento di un qualcosa di talmente ineccepibile, così impressionante, che nemmeno la natura avrebbe mai potuto pensare di arrivare a conclusioni in qualche modo paragonabili o equivalenti…

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La nave approdata sui fondali del Baltico cinque secoli fa

Comunque vadano le cose, non avrete mai ragione di arrivare a chiamarmi “un relitto”. Poiché quando giungerà il mio momento, io non affonderò. Non finirò sugli scogli, non verrò colpita dal fuoco dei cannoni nemici e nessuna secca traditrice potrà erodere bruscamente l’integrità del mio scafo. Bensì ritenendo, finalmente, di aver fatto abbastanza, e per la prima volta indifferente ai desideri dell’equipaggio, io sceglierò di sostare tra l’onde. E una volta trovato il coraggio, e la totale assenza di rimorsi, necessari a porre fine alla mia esistenza, inizierò a DIRIGERMI verso il basso. Lasciando scomparire gli assi fino alle alte murate, quindi il poderoso castello di poppa e infine gli alberi e le vele, che tanti porti avevano visitato. Mentre i gelidi flussi abissali porranno fine agli sforzi, il pensiero e i miei desideri di nave. Ma del tutto indigesto dovrà risultare, il mio legno e il sartiame di queste corde, per innumerevoli generazioni di granchi, vermi, batteri e altri microrganismi…
Difficile risulta immaginare l’attimo della fine, se non in siffatto modo, per quella che ad oggi ha trovato il nome altamente significativo di Okänt Skepp (ovvero in svedese: Nave Sconosciuta) grazie all’opera d’inizio settimana del Dr. Rodrigo Pacheco-Ruiz con il suo intero team d’archeologi degli abissi, instradati sul giusto sentiero da un vecchio rilevamento sonar della SMA (Swedish Maritime Administration) durante una serie di controlli di routine delle acque del Baltico. E dico questo perché, osservando un simile oggetto, risulta estremamente difficile comprendere cosa, nei fatti, possa averne provocato l’inabissamento. Di una nave perfettamente integra in ogni sua parte, compresa la struttura principale, la scialuppa di servizio, alcuni cannoni girevoli e l’argano a forza muscolare, usato per avvolgere funi e riportare l’ancora sul ponte, ogni qualvolta se ne fosse dovuta presentare la necessità. Un qualcosa che difficilmente potrebbe capitare di nuovo, ora che, ad oltre 500 anni di distanza, ogni singolo membro del suo equipaggio sarà defunto da svariate generazioni, indipendentemente dal suo destino in occasione dello strano, direi quasi inspiegabile naufragio. Non che manchino, chiaramente, ulteriori margini d’approfondimento: siamo del resto di fronte al singolo relitto maggiormente integro ritrovato a distanza di così tanti anni, al punto che alcuni potrebbero sospettarne la discesa al di sotto della superficie marittima non più di qualche settimana, o al massimo mese fa. Nave che sembrerebbe risalire, almeno in via preliminare, all’epoca delle grandi scoperte (in attesa di datazione al carbonio 14) ovvero attorno al XV-inizio XVI secolo, prima dei galeoni e le grandi navi di linea che avrebbero dominato, in epoca pre-moderna, i vasti mari del Nord. Con una struttura complessiva di 18 metri, essenzialmente paragonabile a quella coéva della Santa Maria, nave ammiraglia della spedizione di Cristoforo Colombo verso le dorate spiagge del Nuovo Mondo. La cui lontana sorella destinata a una fine tanto più ingloriosa potrebbe offrirci, almeno in linea di principio, nuove intriganti finestre d’osservazione verso l’effettiva natura della navigazione in quegli anni…

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L’inquietante albero che sanguina come una persona

Difficile immaginare un’esperienza peggiore di trovarsi a fare una serena passeggiata nell’oscura selva degli Inferi quando la propria guida tramite intercessione Divina, in realtà un ex-poeta romano di una certa fama, vi dice con tono enfatico: “Perché non provi adesso a spezzare il rametto di questo arbusto contorto e straziato dalle arpie?” Il che dovrebbe, ragionevolmente parlando, suscitare in voi un certo senso di sospetto. Considerato il contesto, l’indole goliardica del soggetto e così via dicendo. Ma per amor di questa Commedia, diciamo che accettate di farlo; grosso errore! Perché allora sentirete un grido riecheggiare nella penombra chtonia; mentre linfa vitale vermiglia inizierà a colare dal moncone legnoso; e l’anima tormentata di quel defunto, trasformato in un vegetale per punizione del suo stesso suicidio vi chiederà con voce tremante: “Per quale ragione mi fai questo? Pier della Vigna non ha forse già sofferto… Abbastanza?”
Per lo meno, in quel particolare contesto storico/letterario. Poiché vi sono cose che la tecnologia migliora. Ed altre invece che ne vengono, per così dire, enfatizzate. Ovvero portate agli estremi: vedi l’esempio della classica sega elettrica a nastro. Usando la quale un ignoto boscaiolo deve pur aver fatto nel corso degli anni la sua shockante conoscenza del genus Corymbia, un tipo di albero della gomma di tipologia kino, strettamente imparentato con gli eucalipti, che possiede una caratteristica molto particolare. Quella linfa simile al sangue in grado di scaturire dalle sue ferite, ricoprendole e coagulandosi per protezione esattamente come succede agli esseri del regno animale. In merito a cui verrebbe da chiedere nell’impressionante frangente, rivolgendosi a Madre Natura stessa: “C’era davvero bisogno di farla… Rossa?”
Mani insanguinate. Scarpe insanguinate. Il volto contorto dal senso di colpa e lo stesso strumento a motore di taglio, macchiato senza apparente speranza di ritornare quello che era. Con quell’albero dannato che, alquanto incredibilmente, sembra emanare il torturato flusso a getti successivi, quasi fossero causati dal battito di un cuore nascosto. Vedere per credere, uno dei tanti video reperibili online. Ora io non saprei quale sia l’origine precisa di un tale fenomeno (benché si possa ipotizzare essere connesso alla viscosità della resina e l’accumulo di pressione in prossimità della corteccia esterna) ma non mi sorprenderebbe affatto se, nella storia pregressa della foresteria australiana siano effettivamente esistiti dei letterali obiettori di coscienza, disposti a fare il proprio lavoro in qualsiasi occasione, tranne quando relativo a un albero di questa disperata genìa. La storia c’insegna, del resto, come arbusti dalle caratteristiche molto simili furono sempre associati a un concetto mitologico di estrema rilevanza: quello del sangue dei draghi, di cui si riteneva che fossero la forma ormai defunta e incapace di nuocere, benché ancora dotata di un certo raziocinio inerente. Da lì all’esperienza di Dante, e prima di lui lo stesso pio Enea nell’opera più famosa del suo anfitrione Virgilio, ai danni del trasfigurato principe Polidoro di Troia, il passo è (relativamente) breve…

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La condanna nascosta nel seme dell’avocado

In principio era l’uovo. Il globo legnoso, sospeso dal ramo, ricoperto non una bensì DUE volte: dalla scorza verde, bitorzoluta, tipicamente associata al concetto di “pera alligatore”. E al di sotto di quella, una polpa dolciastra e relativamente insapore, ricca di grassi, proteine, potassio, folati e vitamine. Nella visione prototipica del Paradiso Terrestre, possono esserci molti tipi di frutti proibiti: il primo, è quello che dona la conoscenza. Mentre gli altri, donano la prosperità temporanea. Già, ma a che prezzo? Questo mi chiedo, mentre il rombo del motore alimentato con grasso animale mi spinge innanzi lungo il grande vuoto delle Terre Desolate, la balestra appoggiata sul cassone del pickup, con il mirino puntato verso il puntino nero al centro dell’orizzonte. “Corpo di mille balene delle sabbie, Lucy, è il cartello dei Caballeros! Ci hanno…Trovati.” La mia compagna di fuga preme a quel punto sull’acceleratore, mentre un grido disarticolato di rabbia emerge quasi spontaneamente dalla sua laringe, le mani saldamente posizionate sul volante in corna di cervo, un prezioso residuato del secondo Millennio. “Lo sapevo! Mira bene, stavolta!” Getto uno sguardo al sacco dei grossi semi geneticamente modificati per crescere sulla scorza acida delle Pianure Dimenticate, ultima speranza di un’intera comunità ribelle, mentre osservo i veicoli dei nostri inseguitori moltiplicarsi; allora incocco il terzultimo dei nostri dardi esplosivi. Ho appena il tempo di abbassare sugli occhi il visore termico, e…
Nelle visioni fantasmagoriche di un mondo oramai derelitto, dove ogni litro residuo d’acqua è prezioso e la biodiversità un lontano ricordo di epoche più popolate, è custodito l’orribile sospetto della società moderna. L’abbiamo vista oltre mille volte, al cinema, in televisione, nei romanzi e nei videogiochi: un mondo in cui la legge cessa di avere qualsiasi significato, essendo stata sovrascritta dalle mere esigenze quotidiane della difficile sopravvivenza. Nient’altro che dune a perdita d’occhio, e il sogno perduto di un tempo in cui l’abbondanza era la regola, piuttosto che l’eccezione. Il momento presente, guidato dal desiderio di una cosa, sopra qualsiasi altra: il profitto, anche nel campo largamente necessario dell’agricoltura. Forse proprio questo 2018 ormai prossimo alla conclusione, verrà iscritto negli annali del mondo come l’anno in cui l’opinione pubblica si è accorta del pericolo costituito da una risorsa alimentare non sostenibile, se diventata eccessivamente diffusa e popolare, grazie alla campagna globale contro la produzione dell’olio di palma. Eppure, nonostante la cognizione vagamente diffusa sui danni causati al clima dallo sfruttamento intensivo dei semi di tale pianta, è impossibile sfuggire al sospetto che l’unica ragione per cui è nata l’ostilità collettiva sia da ricercarsi dalla cognizione (non sempre corretta o informata) che tale sostanza costituisca un pericolo per la nostra salute. Mentre altri frutti della terra, più salutari, nascondono un pericolo se vogliamo persino più grande. Quello della soddisfazione completa dei singoli, a danno delle generazioni future. Persea americana è il frutto, originario della valle di Tehuacan in Messico, che popola infinite storie di Instagram, video di cucina su YouTube e altri indirizzi social del variegato popolo internettiano. Consigliato dai dietologi, nella giusta quantità, e particolarmente amato dalle neo-culture vegetariane, poiché contiene un apporto di nutrienti validi a sostituire la natura inerentemente crudele dell’esistenza umana. Fotografato un milione o più volte, come esempio commestibile di probità. Eppure in questo preciso momento, intere popolazioni soffrono per l’avocado, muoiono, vengono sfruttate. Territori un tempo fertili languono senza vita, fino all’ultima goccia sparita, col solo obiettivo di far crescere quello che in determinati ambienti viene considerato “oro verde”. Più prezioso, e redditizio, della marijuana. E mille volte più pericoloso, sul lungo termine, per il benessere della specie umana.
Il problema principale di questo frutto, definito originariamente dagli aztechi āhuacatl ovvero “il testicolo” (perché cresce a coppie ed ha una forma anatomicamente corretta) è la sua capacità di crescere pressoché ovunque. Purché sia presente un clima di tipo tropicale o Mediterraneo, e vengano fornite le cure adeguate da parte dei suoi coltivatori. Il che è potrebbe sembrare un controsenso, considerando che stiamo parlando di una pianta lasciata indietro dal corso dell’evoluzione, la cui stessa propagazione naturale è impossibile almeno a partire dalla fine del Pleistocene (11.700 anni fa) con l’estinzione della megafauna americana. Creature come i bradipi di terra, lunghi fino a 6 metri, tra le poche creature in grado di fagocitare serenamente in un sol boccone la pera cruciale, il cui nocciolo sovradimensionato aveva una massa comparabile a quella di mandarino. E pensate che allora, il rapporto tra materia commestibile e un tale “osso centrale”, per di più tossico nei confronti di molte specie animali moderne, era persino meno vantaggioso che adesso, in mancanza dei molti secoli di selezione operata dall’uomo. Gli storici dell’alimentazione ritengono dunque che successivamente a quel momento, il frutto abbia continuato a rinascere principalmente grazie alla nostra mano, fatta eccezione per l’intervento raro del giaguaro, unico animale abbastanza grosso nel suo areale da far passare un simile seme all’interno del proprio apparato digerente. Questo non è stato, per lunghi secoli, un significativo problema: l’America meridionale e centrale, dopo tutto, è uno dei luoghi più umidi del pianeta, le cui foreste pluviali sostengono e rinnovano le nostre risorse d’ossigeno planetarie. Ma con l’arrivo della globalizzazione, altre comunità si sono candidate per coltivare il desiderabile e prezioso frutto, impiegando una parte considerevole del proprio fluido più prezioso: l’acqua, sinonimo stesso della vita. Il che ci porta, per così dire, al nocciolo della questione…

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