L’approccio alla trasformazione zuccherina del dorato nettare di palma

L’architettura concettuale del destino manifesto è una sofisticata questione storica dell’epoca del colonialismo, secondo cui una sorta di diritto superiore o divino avrebbe riservato l’imprescindibile competenza dei nuovi territori americani alle genti provenienti dall’Europa, anche o soprattutto a discapito delle popolazioni native. Una soluzione a suo modo e con diversi nomi sempre sullo sfondo durante l’intera prima parte dell’Era Moderna, nella maggior parte delle circostanze diplomatiche, esplorative e d’intercambio commerciale tra l’uomo occidentale e coloro che egli avrebbe incontrato sul sentiero d’Oriente. Ma le cognizioni relative alla presunta superiorità di certi metodi, al di sopra di ogni altro, ha permesso alle moltitudini di continuare ad ingannarsi per incalcolabili generazioni. Fino all’acquisizione di luoghi comuni, effettivamente e totalmente arbitrari, spesso addirittura controproducenti nell’ottenimento di un’Età dell’Oro funzionale e continuativa nel tempo. Vedi l’idea fondamentalmente errata, o comunque priva di biologico fondamento, che lo zucchero semolato creato a partire dal saccarosio potesse rappresentare un’essenziale componente della dieta umana, quanto meno dal punto di vista gastronomico ed in base al mero fatto che “potesse” e perciò “dovesse” costituire un elemento naturale perché proveniente, in maniera largamente imprescindibile, dalle piante. Laddove già a partire dal Vicino Oriente, attraverso il contesto geografico della Turchia e l’intera penisola arabica, ma soprattutto verso il lato opposto dell’Eurasia e nel Sud-Est di questo vasto continente, l’ottenimento del primo dei cinque sapori è stato perseguito a partire da un approccio concettualmente ben distinto, capace di garantire un risultato forse meno intenso, ma effettivamente più connesso all’innato fabbisogno biologico del nostro corpo. Chiunque fosse d’altra parte incline ad attribuire alla creazione dello zucchero di palma una storia particolarmente lunga ed elaborata, sarebbe assai probabilmente destinato a ritrovarsi in errore. Laddove il tipico albero simbolo dei paesi tropicali, soprattutto nella sua accezione proveniente dall’India, non può certamente essere instradato nella produzione necessaria per l’ottenimento di tale ingrediente, senza prima veder sacrificata la sua capacità di produrre il cocco dopo oltre 20 anni dalla prima emersione di un tenero virgulto, lasciando intendere una capacità di pianificazione a lungo termine difficile da implementare all’interno di una società pre-industriale. E che sarebbe ancora oggi assai difficile da giustificare, se non fosse per le caratteristiche notevolmente singolari del prodotto risultante, da tempo diventato un ingrediente impossibile da sostituire nella cucina di molti paesi. Luoghi come l’Indonesia, dove viene chiamato gula jawa o gula merah (letteralmente: zucchero rosso) provenendo dalla processazione della linfa della palma di aren (Arenga pinnata) con le sue lunghe barbe di piccoli frutti smeraldini. Ma è paradossalmente con diretto riferimento al prodotto simile del gula melaka di matrice malese, ciò a cui spesso tendiamo ad indicare con la qualifica rilevante, vista la sua ampia diffusione internazionale all’interno di canali di distribuzione dall’elevato livello di pregio. Proveniente da un processo simile, ma effettuato a partire dalle diverse specie dell’albero di Borassus o palma di Palmyra, un potenziale gigante capace di raggiungere o superare l’altezza considerevole di una trentina di metri…

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L’arte della guerra povera e la lunga storia dell’armatura di carta cinese

Attraversata da occasionali periodi di disordini e divisioni, la storia della Cina antica può essere vista come la ripetizione di fondamentali eventi: primo, l’ordine costituito collassa, per l’effetto di un rapido susseguirsi di disastri naturali, carestie e ribellioni. Secondo, potenti signori locali organizzano una serie di regni che cominciano a farsi apertamente la guerra, grazie all’opera lungamente celebrata di numerosi combattenti ed eroi. Terzo, una dinastia emerge sopra le altre dalle nebbie turbinanti del Caos, accompagnata dal vessillo sotto cui le armate marciano e pongono fine alle altrui ambizioni di usurpare il legittimo potere ereditario. Quarto, tra le alte mura della capitale, gli studiosi operano al fine di legittimare e dare lustro alle pregresse discendenze dei sovrani seduti sopra l’altro scranno del nuovo governo. Ed è in questo momento normalmente, come avvenuto per i Song settentrionali mezzo secolo dopo il nostro anno Mille, che vengono redatte le cronache relative all’Era recentemente conclusa, all’interno di testi come lo Xīn táng shū (新唐书 – Nuovo Libro dei Tang) di 225 articolati volumi. Ma il lungo periodo di pace e prosperità portato a compimento poco prima di quel doloroso cambio di ordine universale, spesse volte, può condurre alla possente e sconfinante fioritura delle arti, mestieri e la ricchezza del costume dei potenti. Tanto che, si narra tra le pagine di tale testo, al termine di quegli anni l’abbigliamento marziale aveva trovato modo di esprimersi attraverso una pluralità di materiali letteralmente inesplorata in qualsiasi altro luogo o periodo del mondo, ivi inclusi legno, lacca, pelli di creature d’ogni tipo. Oltre alla seta e… La carta. Qualcosa d’insolito, senz’altro. Ed altrettanto inutile al di fuori di parate o semplici occasioni mondane, giusto? Intuitivamente, questo sarebbe stato il preciso destino di simili implementi, così come avvenuto in ogni altro luogo al mondo. Se non fosse stato per la figura del visconte Xu Shang, nobile di quinta generazione in buona parte responsabile della pacificazione dai barbari settentrionali dello Hezhong (odierna zona dello Shanxi) nell’858 d.C. alla guida di un corpo di mille uomini altamente addestrati e ben equipaggiati, che sarebbero passati alla storia come l’Armata Bianca. Questo per la loro insolita scelta in materia di protezioni da battaglia, consistente essenzialmente nella stessa candida e piatta sostanza mediante cui era stato redatto lo Xīn táng shū. E c’è qualcosa di profondamente poetico, nell’idea di un’invenzione risalente al 50 d.C, in base a una leggenda legata alla figura dell’eunuco della corte Han, Cai Lun, impiegata questa volte al fine concreto di proteggere i confini di quello stesso paese, ad oltre 10 secoli di distanza. Benché lungi da essere un’immagine priva di effettivo senso pratico e funzionale, l’armatura di carta possedesse già in linea di principio alcune delle caratteristiche fondamentali dell’odierno kevlar, risultando leggera e flessibile, pur potendo facilmente deviare o assorbire l’energia cinetica di un colpo vibrato di taglio oltre alla maggior parte delle frecce lanciate all’indirizzo del suo portatore. Secondo alcuni, persino eventuali palle dei primi rudimentali archibugi. Essa era inoltre leggera e flessibile come nessun altro materiale poteva aspirare a dimostrarsi, essendo destinata a risultare particolarmente utile nelle campagne successive compiute dai Song, finalizzate al recupero dei territori meridionali che erano stati nel frattempo conquistati di cosiddetti dieci regni. Avendo cura che le protezioni di questa tipologia non scendessero eccessivamente al di sotto della vita dei soldati, finendo per bagnarsi nelle numerose paludi e risaie di quei territori. I vestimenti bellici a base di cellulosa, come potrete facilmente immaginare, resistevano difficilmente all’umidità…

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Osservando la danzante formazione mistica della cavalleria indonesiana

Preparatevi adesso, oh giovani guerrieri! E fatelo lasciando niente al caso. Poiché nel giorno della verità, all’alba della fatidica battaglia, nulla potrà fungere come barriera tra voi e lo Hyang, il Grande Spirito delle forze della natura, guidato dal volere degli antenati. Quell’entità superna che ci osserva e giudica, instradando il corso del destino in base ai nostri meriti e presupposti di probità. E quale futuro, potrebbe mai aspettarci? Che raccolti dai nostri campi? Se al volgere di tal frangente, la vostra esecuzione fosse impropria e l’ultima realizzazione dei passaggi necessari, in qualche modo, incompleta. Di sicuro, le acque dell’oceano si solleverebbero a per ricoprirci. Le ceneri della montagna, scenderebbero a costituire l’inviolabile coperchio di una bara silente. Cavalcate dunque con estrema sicurezza, incontro all’alba di un nuovo giorno. Vibrate i vostri colpi con la frusta vicendevoli ed all’indirizzo del cielo stesso! Poiché questo è il senso, e il nesso, e il giusto dell’ancestrale pratica del Kuda Lumping.
Ovvero un atteggiamento comprensibile per gli abitanti di una grande isola, come quella di Java, dove l’entità dei disastri naturali è stata spesso in grado di lasciare strascichi importanti, causando vittime tra la popolazione senza nessun tipo di pregiudizio. Così la gente dei villaggi, come i ricchi proprietari dei latifondi, ed allo stesso modo soldati, politici, amministratori. Persino il re in persona. Tutti quanti egualmente impossibilitati a sottrarsi alle conseguenze del proprio destino, inteso non come una legge karmica dell’universo, bensì il capriccio stesso di entità preposte a sovrintendere il presente ed il futuro dell’umanità stessa. Per cui non è di certo sorprendente, nel quadro generale delle cose, ritrovare spazio in questa società coerente per antiche danze o pratiche spirituali di varia natura, nonostante l’implicita avversione del monoteismo islamico preponderante, o le severe repressioni di periodi affini al totalitarismo come la dittatura di Soharto durata tra il 1966 e il ’98. Attività facenti parte del tessuto stesso della società locale, al punto da trovare spazio non soltanto nelle feste o ricorrenze del calendario, ma come parte inscindibile di cerimonie, riti di passaggio o addirittura, perché no, puro e semplice intrattenimento, nello stile di una sorta di circo itinerante. Uno dove gli animali trovano collocazione, in un certo senso, sebbene non nel modo che saremmo forse incline ad aspettarci prima d’iniziare ad approfondire. Poiché proprio questo riesce ad essere, in effetti, il testuale significato di Kuda Lumping: “Cavallo Piatto” con riferimento a un tipo di giocattolo tradizionale delle isole, consistente di una sagoma equina costruita con le fibre di rattan o un intreccio fatto con le canne di bambù, ragionevolmente in grado di restituire l’impressione che i suoi possessori siano in groppa al più fedele dei quadrupedi, purché lo si faccia volteggiare con il giusto grado di perizia ed esperienza pregressa. Che di certo non mancano ai celebrati praticanti dell’eponima disciplina, particolarmente associata alla parte occidentale di Java e del Borneo laddove il termine preferito verso la parte centrale del paese si trova riassunto semplicemente nella locuzione (Kuda) Kepang. Con riferimento meno specifico ad un ampio repertorio di performance drammatiche, musicali e teatrali, tendenzialmente culminanti nella stessa topica apoteosi finale. Sto parlando, chiaramente, del momento in cui i suggestivi cavallerizzi “diventano” a tutti gli effetti parte dell’animale stesso, perdendo ogni collegamento con il mondo fisico. Ed iniziando a compiere miracoli che mai nessuno, in circostanze d’altro tipo, si sarebbe potuto aspettare da loro…

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Lo spirito selvaggio dell’asino che vive sul tetto del mondo

In una narrazione in prima persona del suo viaggio verso la capitale Lhasa, che lo portò ad attraversare le sperdute regioni montuose circostanti monastero di Kumdun, Thubten Jigme Norbu scrisse: “Vedemmo gli asini selvatici o kiang aggregati in gruppi tra le 10 e 50 femmine, ciascuno capeggiato da uno stallone. Animali alti, nobili e scattanti, mi colpirono in modo particolare per la bellezza della loro colorazione, caratterizzata da una linea nera situata al centro della schiena. Questi branchi seguirono incuriositi la nostra carovana. Talvolta si avvicinavano e tendevano a circondarla, senza mai avvicinarsi tuttavia in modo eccessivo.” E potrebbe sembrare strana la maniera in cui il fratello maggiore del Dalai Lama, che negli anni ’50 aveva circa una quindicina d’anni, possa essere rimasto così profondamente colpito da una presenza numericamente piuttosto diffusa, parte inscindibile del patrimonio faunistico del suo paese. Ma la realtà è che simili equini, strettamente imparentati l’onagro o hemione, più comunemente detto l’asino asiatico, possiedono degli specifici adattamenti evolutivi tali da permettergli di vivere in ambienti particolarmente inospitali tra i 2.700 e i 5.400 metri, dove la temperatura può tranquillamente scendere al di sotto dei 25 gradi durante i mesi invernali. Il che ha richiesto, per la loro sopravvivenza, lo sviluppo non soltanto di un’ottima capacità d’isolamento termico ma anche tratti genetici idonei alla respirazione di aria con basse quantità di ossigeno, oltre ad una flora intestinale capace di digerire pressoché qualsiasi forma di resiliente e formidabile forma di vita vegetale. Tutto ciò in associazione ad una forma fisica eccellente, la corporatura massiccia ed un altezza più simile a quella di un cavallo dalle dimensioni medio-piccole pari a 140 cm, con zoccoli perfetti per spostarsi su irte pendici montane o arrampicarsi sulle rocce come una sorta d’imponente creatura caprina. Tale da permettere a quello che la scienza definisce Equus kiang, in effetti, una significativa capacità di resistenza nei confronti della caccia condotta attraverso i secoli da plurime generazioni delle genti locali, che non riuscirono mai davvero ad addomesticarlo. Nonostante l’areale significativamente ampio che ne vede tre sottospecie talvolta riconosciute, l’E. k. kiang occidentale, l’E. k. polyodon e l’E. k. holdereri orientale, diffuso fino ai bassipiani della regione dello Xinjiang, dove prospera all’interno di bacini fluviali costituendo aggregazioni di fino ad un migliaio di esemplari. Gruppi di animali tutt’altro che permanenti, bensì fluidi e inclini a frequenti scambi dei loro membri costitutivi, con il probabile obiettivo di scongiurare la consanguineità. Mentre particolari analisi biologiche, di contro, hanno suggerito la possibilità che tale suddivisione sia effettivamente superata, trattandosi di un mero cline o variazione graduale tra le tre forme, possibilmente esse stesse una singola sottospecie dell’asino asiatico propriamente detto (E. hemionus) a sua volta differenziatosi dalla versione africana dello stesso animale attorno ai 4.0, 4,5 milioni di anni fa. Nel momento stesso in cui iniziò a fare la sua probabile comparsa la zebra, con cui condivide in parte la forma del muso convesso e la corporazione fisica, per non parlare dell’indole territoriale mostrata dai maschi solitari, che porta questi equini ad aggredire con una certa enfasi qualunque essere indesiderato che tendono a incontrare sul proprio cammino. Una comprensibile ed inevitabile applicazione pratia, se vogliamo, delle spietate leggi di sopravvivenza…

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