Paracadutisti 1944: il vecchio trucco della moto estratta dal cilindro del prestigiatore

Mentre il grosso della forze statunitensi sbarcavano sulle spiagge Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword, anche loro avrebbero dovuto preparare il campo per l’invasione. Il cielo sopra la città di Arnhem era attraversato da strisce di fuoco, zigzaganti in mezzo alle nuvole di fumo prodotte dai colpi d’artiglieria e le colonne frutto di una lunga mattinata di bombardamenti in quel fatale 6 giugno di guerra senza quartiere. Il rombo continuativo nel tempo dei Flakpanzer, cannoni motorizzati tedeschi, faceva a gara col motore del bombardiere Lancaster assegnato a trasportare sopra l’obiettivo la sesta squadra della 1° Divisione aviotrasportata britannica. Incaricata, assieme ai loro commilitoni, di catturare gli obiettivi strategici a nord dell’insediamento fortemente militarizzato. Scendendo lentamente sotto l’ombrello tondo del paracadute, il sergente Williams si guardò attorno, identificando le forme riconoscibili dei suoi compagni e soprattutto, le capsule CLE con all’interno l’equipaggiamento più pesante. Oggetti oblunghi dalla lunghezza approssimativa di 1,7 metri ed un diametro di 40 cm, migliorati in occasione dell’operazione Market Garden con l’aggiunta di un dispositivo fumogeno di colore rosso, affinché i membri umani dell’assalto aviotrasportato potessero affrettarsi a raggiungerli una volta a terra, evitando di dover affrontare i tedeschi armati solamente dei rispettivi mitra compatti Sten. Anche perché il loro peso di fino a 159 Kg, sensibilmente superiore a quello dei soldati, faceva si che spesso fossero separati da loro durante la discesa, e dovessero venire rintracciati in una dolorosa e rischiosissima corsa contro il tempo. Un’improvvisa raffica di vento, tuttavia, rischiava in quel momento di fare anche peggio di così; Williams vide con i suoi stessi occhi, Ronald e Kenneth venire allontanati via verso il punto d’incontro, laddove lui stesso veniva spinto in direzione delle postazioni nemiche. Svelte forme grigie si assembravano sotto di lui, nel sottobosco. Ebbe appena il tempo di riconoscere le uniformi del kampfgruppe incaricato di difendere le postazioni militari, quando un breve attimo di terrore si trasformò in rassegnazione: appena a terra… Avrebbe gettato le armi e si sarebbe arreso. Quali altre possibilità gli rimanevano, ahimé? Con il progressivo avvicinarsi delle cime degli alberi, tuttavia, riconobbe l’inconfondibile rumore di un cilindro che rompeva i rami sotto di lui. Possibile che… Matematicamente, c’erano esattamente 4 possibilità su 10 che si trattasse di QUELLA cosa! Eppure Williams preparò il coltello, per tagliare appena possibile le corde del paracadute. Avrebbe tentato la sorte, fino all’ultimo minuto di quella dannata guerra.
“Achtung, STOP! Gib auf!” Le grida rimbombavano tra i tronchi, mentre apriva lo sportello della capsula adagiatosi a lato. E con occhi increduli, scorse tutto quello che aveva sempre desiderato: una ruota, quindi un’altra e in mezzo un semplice apparato motorizzato. Con un lieve grugnito, il sergente fece rotolare fuori gli appena 32 Kg del piccolo veicolo, affrettandosi a tirare su il manubrio e bloccarlo grazie all’apposito paletto a molla. I primi colpi d’avvertimento stavano venendo sparati in aria, ma Williams non se ne curò eccessivamente. A quel punto, era un uomo con una speranza: in pochi attimi, fu facile estendere la sella in posizione di guida, evitando di mettersi a cavalcioni dello strano oggetto, poiché ben sapeva che l’unico modo per farlo partire era a spinta! Fortunatamente, innanzi a se si presentava una piccola radura. Con quattro, cinque, sei passi, la Welbike era avviata. Soltanto pochi secondi, ora… Mentre i tedeschi convergevano verso la fonte dell’improvviso rumore, Williams rilasciò la frizione, balzando in avanti verso quella che riteneva essere la posizione dei suoi alleati. Il tutto per tutto: chi cade è perduto. “WROOOM, grazie mille, colonnello Dolphin!”

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Rolls Royce e il volo elettrico: l’obiettivo questa volta è la velocità

Chiaramente individuabile a qualche decina di metri alla mia destra, la formazione a V delle anatre migratrici disegna un chiaro simbolo nell’azzurro cielo poco fuori la città di Londra. Con un tocco lieve della barra di controllo, avvicino quindi le mie ali a quel pennuto assembramento di creature, affrettandomi a scattare qualche foto con il cellulare, nella chiara consapevolezza che la silenziosità del mio velivolo avrebbe impedito loro di spaventarsi. Osservando il rapido avvicinamento della velocità di stallo, quindi, spingo innanzi la manopola dell’accelerazione, lanciandomi in una ripida picchiata verso il suolo. Niente indugi prima della prossima fermata, Parigi all’altro lato della Manica: il grande numero con la percentuale sul mio cruscotto ha infatti già iniziato a segnare 99.
Molti dei più importanti traguardi sportivi e tecnologici sono il frutto innegabile di una particolare tipologia di attività umana. E quante occasioni sarebbero andate perse, se non avessimo avuto a guidarci, come la luce di un’astro nascente, la finalità di primeggiare secondo le regole arbitrarie che ci siamo autoimposti sulla base di convenzioni variabilmente acquisite? Ovvero in altri termini, la naturale pulsione al gioco, che a tal punto si ritrova in ogni essere dotato di uno scheletro, un cervello e articolazioni in grado di riuscire a garantire un qualche tipo di mobilità innata. Così tutti i tipi di mammiferi, e così pure i gli uccelli, sebbene sia comprensibilmente complesso riuscire a identificare che cosa guidi i loro comportamenti, tanto risultano diversi da noi. Ma c’è una particolare aspirazione che riesce ad accomunarci, per vie totalmente opposte, come esseri pensanti e coscienti di questo pianeta; sto parlando, come avrete potenzialmente già intuito, del volo. E se ogni forma di competizione è (neanche tanto) in fondo il frutto di un divertimento, molto di quello che ambiamo in tale ambito lieve può essere direttamente ricondotto all’opera ed il lascito immanente di Jacques Schneider, il finanziere francese ed aviatore fin dall’epoca delle mongolfiere, che nel 1912 annunciò la prima edizione del trofeo destinato a portare il suo nome, per chi avesse trionfato in una gara di velocità concepita per stimolare l’avanzamento prestazionale degli aerei concepiti per l’aviazione civile. Ma che avrebbe invece finito per aprire la strada a molti dei modelli di caccia destinati a far scintille per tutto il corso della seconda guerra mondiale. Vedi il caso del suo ultimo vincitore nel 1931, quel Supermarine S.6B da cui sarebbe stato tratto l’unico aeroplano in grado di difendere le coste inglesi dalla temibile Luftwaffe, il maneggevole ed appropriatamente armato Supermarine Spitfire.
Concluso l’oscuro secolo del Novecento e raggiunto il primo quinto dei cento anni a seguire, non è più altrettanto facile trovare margini evidenti di miglioramento. Con l’efficienza raggiunta dalla maggior parte degli aerei e la ripresa dell’annuale coppa a partire dal 1981, in un contesto mirato questa volta più che altro alla premiazione delle abilità dei piloti, ben pochi spazi sembrano restare a disposizione di chi volesse raggiungere nuove vette del volo a a motore. A meno che non si voglia spostare la propria attenzione ad un diverso aspetto di tale ambito, quello mirato non più ad andare più veloci, alti e lontani, bensì ridurre il “costo” inerente speso per riuscire a farlo, inteso come l’erosione entropica del patrimonio “x” a disposizione del nostro boccheggiante pianeta. Già: volare ad emissioni zero, un apparente contraddizione in termini se si considera come, a differenza dello spazio ingegneristico dei veicoli a quattro ruote, questo specifico approccio alla motorizzazione non fu mai davvero preso in considerazione, fatta eccezione per alcuni pionieristici esperimenti, fino almeno all’inizio degli anni 2000. Questo per il peso e l’ingombro inevitabili, come parte di qualsiasi batteria o serie di esse sufficientemente capienti, da riuscire a sviluppare l’energia necessaria a far librare un velivolo per più di pochi minuti. Almeno, fino all’epoca recente ed ancor più nel caso del nuovo dimostratore tecnologico fuoriuscito da un’officina inglese, l’aereo messo assieme dal noto produttore di motori ed automobili Rolls Royce per infrangere ogni record di velocità ed autonomia nel campo degli aerei totalmente elettrici ad emissioni zero. Raggiungendo, si spera, gli stessi 547 Km/h (340 mph) che furono scritti a lettere di fuoco nella storia dall’impresa di Supermarine tanti anni a questa parte. E comunque vada, alla fine, non è difficile capire quanto riuscirà a risultare interessante…

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2021: un crollo improvviso minaccia il forte marittimo di Enrico VIII

Una scena particolarmente spiacevole quella che si sarebbe presentata di fronte agli occhi dei primi visitatori della giornata, durante cui sarebbe sopraggiunta l’inevitabile chiusura dell’edificio, le guide dell’associazione Amici del Castello di Hurst e gli addetti della commissione British Heritage, incaricati di ispezionare lo stato dei fatti successivamente alla lunga tempesta verificatosi nel corso della notte dello scorso 26 febbraio 2021. Il giorno in cui l’antico edificio, capace di resistere alle mire espansionistiche di Francia e Sacro Romano Impero, le guerre rivoluzionaria e napoleonica, nonché i grandi conflitti mondiali del ‘900, si era infine arreso al più inesorabile degli avversari: il semplice trascorrere del tempo, coadiuvato dai corsi e ricorsi delle maree, pioggia, neve e grandi ondate, capaci di erodere un poco alla volta la stessa terra e ghiaia sopra cui poggiano le sue fondamenta risalenti al Rinascimento. Nient’altro che quel Hurst Spit, striscia a forma di mezzaluna dalle origini naturali ma collocata strategicamente all’ingresso della grande insenatura nota come Soylent posta a ridosso dell’isola di Wight, che avrebbe potuto concedere a un’ipotetica forza di spedizione navale un passaggio privo di ostacoli fino alle importanti città portuali di Portsmouth e Southampton. Stiamo parlando, in altri termini, di una delle principali porte dell’Inghilterra meridionale, ponendo le basi della costruzione di un bastione destinato a sorgere, tra tutte le epoche possibili, durante il regno di un sovrano dalla vita familiare particolarmente turbolenta.
Era dunque il 23 maggio del 1533 quando il re Enrico VIII d’Inghilterra ottenne dall’arcivescovo di Canterbury l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona, che si era dimostrata incapace di concedergli un figlio maschio, scatenando una serie di eventi che avrebbero portato al più grande scisma religioso della sua epoca, non prima di mettere l’intero paese diplomaticamente sotto assedio. Non ci volle molto infatti perché Carlo V, nipote dell’ex-regina, cogliesse l’occasione per inviare una serie di minacce all’indirizzo delle isole settentrionali, cogliendo anche l’occasione per allearsi con l’antico nemico francese in preparazione di un’imminente possibile invasione. Nel 1539 quindi il re Tudor, che si era nel frattempo già risposato altre due volte, proclamò un editto utile come deterrente di guerra, chiamato device (strumento) per la fortificazione del Soylent mediante la costruzione di quattro fortezze: Calshot, Cowes Est ed Ovest e al centro di tutto questo, la possente batteria difensiva di Hurst, destinata a raggiungere il completamento dopo tre anni di lavoro nel 1544. Il cosiddetto “castello” aveva tuttavia un’aspetto sensibilmente diverso nel XVI secolo rispetto a quello dei nostri giorni, presentandosi come poco più di una bassa e larga torre, con tre bastioni attorno e 26 pezzi d’artiglieria di varie dimensioni, tra cui saker, culverine, semi-cannoni e bocche di fuoco navali. Il forte si rivelò prevedibilmente molto costoso da gestire, con un capitano, il suo vice, 12 artiglieri, 9 soldati ed un addetto al trasporto delle munizioni, diventando inoltre superfluo alla stipula di una pace duratura con la Francia nel 1558, dando inizio al più lungo periodo di pace tra le due nazioni a memoria d’uomo. Iniziò, quindi, il lungo periodo di declino inframezzato da restauri ed ampliamenti, in questo luogo che la storia semplicemente non poteva accettare di lasciare al suo destino…

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L’antica soluzione agricola del villaggio con l’aspetto di una foglia

Guardate questa foto aerea della piacevole cittadina polacca di Sułoszowa, nella contea polacca di Cracovia, le cui case si susseguono lungo il sentiero della strada Olkuska come altrettanti pezzi del Monopoli, ciascuna l’espressione di un particolare nucleo familiare, con le proprie idee in materia di decorazione dei cortili, colore della facciata, dimensione e numero delle finestre. E la stessa distintiva inclinazione, per quanto possibile, a servirsi di una porta sul retro usata per accedere a un cortile, per così dire… Particolare. Lungo esattamente un furlong (201 metri) e largo una catena (20 metri) nella stretta e incuneata losanga multicolore che prende il nome di selion, in qualità di appezzamento basico all’interno di una specifica suddivisione dei terreni. Quella nata attorno al XIV secolo in Europa e che oggi continua in certi luoghi a sopravvivere grazie all’eredità diretta delle famiglie, soprattutto nel territorio del Regno Unito e presso l’area oggetto della cosiddetta Ostsiedlung, ovvero il processo di colonizzazione da parte dei tedeschi delle zone oltre i confini orientali della loro nazione.
Di certo, questo è il sogno di ogni abitatore del moderno contesto urbano è sempre stato quello di riuscire a lavorare “vicino casa”, eliminando in questo modo le costose e spesso problematiche trasferte in macchina, con traffico dell’ora di punta, lavori stradali ed altre odiate amenità inerenti. Ma senza il compromesso del mestiere svolto a distanza tra le mura domestiche, luogo spesso troppo angusto, e personale, per riempirlo con l’ingombro dei doveri imposti dalla propria dura quotidianità professionale. Per questo siamo soliti sognare, dai nostri appartamenti senza nessun tipo d’orto né giardino, l’ideale vita del possidente terriero, che tramite la divisione tra “dentro” e “fuori” è in grado di determinare il suo destino interamente tra i confini del concetto abitativo di fattoria. Ciò detto e anche prendendo in considerazioni simili premesse, fatta eccezione per chi ha ricevuto il compito di amministrare un territorio solitario, è comunque difficile riuscire a disporre di un’assoluta unità topografica tra casa e campi coltivati, soprattutto quando si fa parte di una specifica comunità agreste, dove nondimeno occorre muoversi con il trattore ad ogni sopraggiungere dell’alba. Una problematica senz’altro esacerbata in epoca del Medioevo, quando l’uso dell’aratro e del cavallo risultavano inscindibili, motivando la necessità continua di spingere l’equino fino allo specifico appezzamento, costituente l’obiettivo di giornata per il contadino e la sua intera famiglia. Considerate, a tal proposito, la problematica di un qualsivoglia signore del feudo, che non possedendo direttamente alcunché, deve semplicemente amministrare i territori del suo sovrano, dandoli in gestione ai sottoposti che a loro volta precorrevano il concetto di proletariato nullatenente, fatta eccezione per la proprietà degli attrezzi e la capacità di usarli. Ecco dunque il più comune approccio del sistema dei “tre campi”: grano, cereali e legumi, ciascuno frutto di uno specifico sistema di conoscenze, progressivamente ereditato da una particolare linea familiare di codesti utili, ma poco adattabili servi della gleba. Perché non togliere semplicemente, si giunse a chiedersi attraverso i secoli, ogni tipo di confine o recinzione tra i diversi settori? E delimitarli, già che siamo a questo punto, in modo lungo e lineare, risparmiando per quanto possibile a colui che guida il vomere, con la sua carente maneggevolezza, le necessarie quattro curve ai margini del suo rettangolo assegnato. Sto parlando, per usare una metafora, della testina meccanica di una grossa stampante ad aghi umana….

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