Ordini di grandezza dalla magnitudine assolutamente fuori scala, spinti avanti dalla forza residua di un evento di proporzioni bibliche, qualunque sia la mano che ha contribuito a dargli seguito nel mondo materiale: tutto questo, e molto altro, è la Via Lattea ove la nostra casa alberga, proiettata oltre le tenebre del vasto spazio siderale. Ma osservandone la logica da lontano, come l’uomo ha fatto grazie a deduzioni frutto del metodo scientifico ormai da multipli decenni, è la sua forma che denuncia il senso e il metodo del movimento. Geometria meccanicamente ricorrente, forma che è la base stessa del sistema della natura, la forma matematica, tipica nell’universo e tutto il resto, della Spirale. Un aspetto che è la risultanza e al tempo stesso la ragione, dell’enorme rotazione eterna, a causa della quale non esiste alcuna stella che si possa dire realmente “fissa”. Bensì al limite soggetta a movimenti molto, molto lenti. E in certi casi ben più di quello! Poiché più spostiamo la nostra attenzione verso il centro della tempesta di materia più vasta e interminabile che le cognizioni umane siano mai riuscite a comprendere, tanto maggiormente dobbiamo lasciare indietro le nostre idee fisiche o psichiche di cosa, esattamente, possa essere un agglomerato incandescente d’idrogeno, elio e metalli pesanti. Verso “stelle” come le oltre 100 di classe OB e Wolf-Rayet, situate tutte quante entro un parsec cubico dal perno della ruota, assieme a 10 milioni d’altre al cui confronto il nostro vicinato periferico non può che apparire placido, scuro e in generale noioso. E a dominare un tale regno, l’oggetto più impressionante ed inesplicabile del nostro modello basato su regole di tipo (più o meno?) Newtoniano: il buco nero supermassiccio Sagittarius A, dalla massa di 22 milioni di chilometri, probabile residuo di un’esplosione tra le 50 e le 100 volte più potente di quella di una normale supernova. Tutto quello che sappiamo o riteniamo di sapere in merito, tuttavia, non è altro che la fonte di rilevamenti effettuati tramite strumenti come i radiotelescopi, la cui precisione non può che essere soggetta a progressivi gradi di perfezionamento. Ecco dunque, nel 2008, il satellite che raggiunge l’orbita bassa terrestre noto come osservatorio spaziale per raggi gamma Fermi o GLAST, creato e messo in opera dalla NASA con lo scopo di aprire nuove finestre della conoscenza in merito a tematiche tanto remote e complesse, il cui destino sarebbe stato quello di trasformare per sempre l’idea che abbiamo del nostro stesso posto riservato in mezzo alle radure cosmiche dell’esistenza. Grazie all’isolamento, in mezzo alle particelle d’energia tra 20 MeV e 300 GeV captate dallo strumento tecnologico di bordo LAT (Large Area Telescope) di un qualcosa che nessuno avrebbe mai, precedentemente, immaginato di notare: due strutture globulari rispettivamente sopra e sotto il disco della galassia, capaci di estendersi per uno spazio di 25 milioni di anni. La cui effettiva natura ha lungamente messo in crisi ogni tentativo d’interpretazione scientifica almeno finché, lo scorso 14 maggio, non è stato pubblicato il nuovo modello di studio frutto delle simulazioni in laboratorio dall’astrofisico Fulai Guo ed il suo assistente Ruiyu Zhang, un primo tentativo di comprendere cosa, esattamente, possano essere le bolle di Fermi…
studi
Cosa rende tanto rapidi levrieri e ghepardi?
Nell’intero spettro del possibile tecnologico, riesco ad immaginare impieghi maggiormente inutili di una telecamera ad alta frequenza di cattura delle immagini… Che incapsulare, ridurre e in qualche modo tentare di comprendere, uno dei più significativi misteri della biologia quadrupede: per quale improbabile ragione, pur avendo dimensioni, muscolatura e approcci simili dal punto di vista motorio, il più veloce degli animali terrestri si sposta a un ritmo quasi doppio rispetto a quello del suo maggior rivale? Sto parlando, per intenderci, dell’Acinonyx jubatus o più semplicemente ghepardo, messo a confronto con quella che doveva essere la versione artificiale ed in funzione di ciò, addomesticata, della stessa idea di partenza. Ovvero il greyhound alias levriero da corsa, bestia da appena 63 Km/h di velocità contro i 112 del succitato felino rivale. In una discrepanza che ha portato alla stesura, nel 2012, di uno studio scientifico da parte del Royal Veterinary College di Londra, ad opera di Penny E. Hudson, Sandra A. Corr e Alan M. Wilson, in cui le rispettive caratteristiche kinematiche della specie africana e dell’antica razza canina sono state attentamente confrontate, progettando d’utilizzare lo strumento della ripresa al rallentatore e piastre a pressione per determinare, attraverso vari tentativi, quante volte in percentuale i levrieri potessero raggiungere e sconfiggere gli avversari. Numero destinato a corrispondere, non troppo sorprendentemente, al 100% delle volte nonostante le cifre offerte dalla convenzione, per il semplice e sottostimato fatto che il tre esemplari di ghepardo prelevati presso lo ZSL Whipsnade Zoo di Dunstable, tutti in ottima salute, mancavano nondimeno della fondamentale motivazione a competere, diversamente dai cani, secondo i limiti più estremi concessi dal proprio fisico eccezionale. Cionondimeno, l’approccio esplicativo dei tre scienziati assieme ad uno stile d’analisi piuttosto chiaro (l’articolo è reperibile online a questo indirizzo) avrebbero collaborato nel porre le basi per questo successivo video prodotto dal canale inglese BBC Earth, nel quale le effettive nuove idee venivano tradotte in immagini e spiegate in termini perfettamente comprensibili ai non iniziati. Cominciando dal più classico degli spunti d’analisi, un video di repertorio in cui il predatore a macchie della savana viene mostrato, immagine perfetta della grazia ed efficienza predatrici, mentre si sposta a gran velocità tra l’erba splendida di un qualche territorio ragionevolmente incontaminato. Laddove il greyhound, notevolmente più facile da gestire, viene effettivamente trasportato presso quello che sembrerebbe essere un piccolo aeroporto, proprio al fine di comprendere & dimostrare, finalmente, il suo segreto. Le telecamere puntate, dunque, il pubblico trattiene il fiato nell’attesa di scoprire la verità…
Scoperti vermi dalla tripla identità sessuale nell’arsenico del Mono Lake
Arido, immoto, privo di vita: non è certo questa una serie d’aggettivi che possano essere attribuiti al più bacino idrico endoreico (privo di emissari) della parte settentrionale della California, non troppo distante dal Nevada, dove torri ultramondane di contorto tufo si specchiano nelle acque lievemente increspate dal vento secco proveniente dall’entroterra degli Stati Uniti, mentre enormi stormi d’uccelli migratori calano a più riprese, per cercare un pasto particolarmente nutriente. Nonostante neanche un solo pesce, da un periodo di almeno 10.000 anni, abbia nuotato sotto la sua superficie, in forza di una quantità di sale così elevata da portare il valore del pH tra 9 e 12, fino ad una condizione basica talmente estrema da impedire lo sviluppo di organismi di tipo convenzionale. Il che, d’altra parte, non ha fatto altro che rimuovere dall’equazione ecologica qualsivoglia possibile rivale di quelle creature che, invece, hanno trovato il modo di sfruttare tale situazione a proprio vantaggio. Primo tra tutti il gamberetto Artemia monica, qui presente in quantità superiore al trilione di esemplari, così come la mosca Ephydra hians, le cui gustose larve si nutrono di un ricco letto d’alghe verdi, prima di spiccare il volo, non smettendo ad ogni modo di tornare a immergersi sfruttando la propria capacità di trascinarsi dietro una bollicina d’aria. Gustose perché mangiate, sin dall’alba dei tempi, dai volatili locali oltre alla popolazione indigena dei Kucadikadi, il cui nome in lingua algonchina significa per l’appunto “Mangiatori della Pupa di Mosca del Lago Salato” Ma è nel regno delle cose ancor più minute, come spesso capita in simili ambienti, che la situazione inizia a farsi decisamente interessante: con colonie del batterio endemico Spirochaeta americana, dotato di un flagello estremamente atipico, che gli permette di nuotare con un movimento a spirale. O il suo simile GFAJ-1 (fam. Halomonadaceae) scoperto nel 2010 dalla scienziata della NASA Felisa Wolfe-Simon e ritenuto capace, per qualche tempo e prima che arrivasse la smentita in laboratorio, di generare le copiose quantità di arsenico rilevate in determinate zone del lago, come parte inscindibile del proprio DNA.
Ciò che non era mai stato trovato, tuttavia, in un così interessante luogo era l’essere che più di ogni altro, caratterizza e connota il concetto stesso di vita sulla Terra: che non è l’essere umano, e neanche la formica, bensì l’intera genìa di piccoli vermi cilindrici appartenenti al Phylum Nematoda, la cui onnipresenza sia come parassiti che esseri indipendenti è stata confermata ricoprire ogni singolo ambiente, naturale o artificiale, pianta, animale o essere umano del nostro pianeta. E sarebbe stato ragionevole affermare: perché non si era ancora fatto in modo di cercarlo nella maniera/luogo giusto, come oggi riconfermato dall’ultima ricerca dei due recenti PhD della Caltech assunti dal laboratorio Sternberg Pei-Yin Shih e James Siho Lee, pubblicata verso la fine del mese di settembre, capace d’incrementare ulteriormente la stima che abbiamo nei confronti della capacità di adattamento e plasticità ecologica di queste quasi-onnipresenti creature. Oltre a presentarne una quantità di 9 specie tra cui alcune, inserite solo temporaneamente nel recente genere Auanema (sotto-classe Rhabditia) dotate della caratteristica riproduttiva piuttosto rara in natura di presentare un sistema trioico, ovvero dotato di tre possibili sessi: maschile, femminile ed ermafrodita. Un vantaggio dalle significative implicazioni evolutive…
Gli occhi sub-glaciali della creatura vertebrata più vecchia al mondo
Essere o non essere per 512 anni, questo è il problema. Pochi sono gli ordini della tassonomia animale cui abbiamo l’abitudine di attribuire uno stereotipo più radicato e almeno in apparenza, eternamente riconfermato, di quello del temuto pescecane. Squaliformes, esseri del tutto privi di mistero: predatori famelici, straordinariamente rapidi e percettivi, capaci d’inseguire il segno di una preda per parecchie centinaia di metri, prima di raggiungerla e serrare l’arma gastronomica delle ganasce incorporate nello scheletro cartilagineo che sostiene un simile organismo. Sempre attivi, sempre attenti, del tutto impossibilitati a fermarsi e ragionare, anche soltanto per un attimo, sui ruoli reciproci e i profondi significati dell’universo. Come il fatto, largamente noto, che “La stella che arde al triplo della magnitudine, sopravviverà per un terzo del tempo” e allora come potremmo mai tentare di spiegare, o comprendere nella realtà dei fatti, l’esistenza di uno squalo ancor più antico dell’Amleto shakespeariano? Una creatura, tanto per venire al punto, che non è un ricordo né un reperto sotto formalina, né tanto meno un fossile all’interno di un museo, poiché nessun vetro riuscirebbe a contenere il suo bisogno di percorrere profondità dimenticate. Vivo & vegeto, ancorché piuttosto stagionato, coi sui cinque secoli (si stima) di esistenza prolungata sotto i ghiacci di questo Pianeta.
Che i Somniosus microcephalus anche detti squali della Groenlandia benché attestati nell’interno Atlantico settentrionale vivessero svariati secoli, l’avevamo del resto sempre saputo. Proprio in funzione della propensione di tali pesci a continuare a crescere nel corso della propria intera vita, riuscendo a raggiungere talvolta dimensioni eccezionali di oltre 7 metri per una tonnellata e mezzo di peso; qualcosa di parecchio sconvolgente da rinvenire, in tutti gli accidentali casi in cui queste creature schive appartenenti al mondo degli abissi più remoti venivano accidentalmente catturate nelle reti dei pescatori. Ciò detto resta chiaro che negli ultimi anni, grazie al progredire della scienza, sia stato compiuto il passo ulteriore, con un percorso iniziato grazie allo studio del 2016 del biologo marino dell’Università di Copenaghen Julius Nielsen, autore di un approccio decisamente innovativo alla problematica datazione accurata di un creatura tanto difficile da catturare e priva di ossa in senso tradizionale, che potessero venire sottoposto alla classica analisi di datazione al carbonio 14. Ecco dunque, l’idea! Andare a rintracciare il fondamentale isotopo, prodotto in modo accelerato a seguito dei test nucleari effettuati dalla società moderna, esattamente dove nessuno aveva mai pensato di cercarlo prima: nelle pallide profondità degli occhi. Organi lattiginosi e quasi inutili, per simile creature, abituate ad affidarsi a un senso dell’olfatto straordinariamente sviluppato. Quando non del tutto privi di funzionalità residue, a seguito dell’aggressione, secolare, di spiacevoli vermi abissali…