Il creatore di Wing Commander valuta l’uso di Kickstarter per il suo nuovo space sim

L’arma simbolo della cavalleria d’acciaio

Si dice che la katana sia l’anima del samurai e questo è probabilmente il motivo per cui anche i mecha ne portano una. La chiave di lettura di questa affermazione deve partire dal presupposto che la spada giapponese sia prima di tutto un concetto immateriale, lo strumento che il guerriero utilizza per riconoscere la propria Via; non certo unicamente, o principalmente, una semplice arma.
Il più rappresentativo degli oggetti giapponesi è rimasto sostanzialmente invariato per una buona parte dell’ultimo millennio. Lama adatta a colpire di taglio da cavallo, perenne memento delle origini nomadiche del popolo di Yamato. Forgiata ad oltre 800 gradi secondo un procedimento segreto e leggendario, costituita da numerosi strati di acciaio più o meno carbonifero, incredibilmente durevole ed affilata. Veniva portata nel fodero con la lama rivolta verso l’alto, sempre pronta ad una rapida e letale estrazione. Non era un’arma che si prestasse a duelli di lunga durata: il Bushidō ha sempre codificato scontri rapidi e definitivi, non la sopravvivenza grazie ad espedienti protettivi come l’usbergo, l’elmo o lo scudo. Eppure, un samurai in equipaggiamento completo indossa armature impressionanti, spettacolari copricapi cornuti, alati, sormontati da castelli, draghi, mostri. Indossa maschere demoniache, porta armi sproporzionate e gigantesche… Si potrebbe quasi dire che nel momento in cui il kami (dio) della guerra si risvegliava al suono dei tamburi taikō la sua furia ed il suo spirito combattivo dessero forma materiale a schiere di creature terrificanti ed inumane, in grado di mettere in fuga un nemico impressionabile senza bisogno di combattere una sola battaglia.
Un mecha d’altra parte, secondo il significato ormai internazionale del termine, è un possente robot guerriero, generalmente giapponese. Può essere di origini mistiche o tecnologiche, disporre di risorse supereroistiche o militarmente credibili, talvolta è quasi indistruttibile e qualche altra in poco tempo finisce persino le munizioni, ma una cosa è certa: è un moderno samurai in armatura ed in ultima analisi ha sempre una sua katana, qualunque siano le caratteristiche e l’aspetto di quest’ultima.

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Wii Review: Metroid: Other M

La caratteristica dominante nonchè maggiormente significativa di almeno tre dei più importanti franchise Nintendo potrebbe dirsi l’immediatezza situazionale: al protagonista, che sia un idraulico o un pokèmon trainer, viene contrapposto il suo rivale chiaramente allineato con il concetto di Male; il mondo mostrato risponde ad una serie di regole e leggi fisiche tanto immaginarie quanto assolutamente coerenti; attraverso una serie di fantasiose o bizzarre peripezie si giunge sempre ad un’obiettivo chiaro e condivisibile. Tuttavia, come spesso capita, esistono eccezioni che non solo confermano queste linee guida generali, ma finiscono per arricchirle di significative implicazioni.
La più importante mente creativa della casa di Kyōto a voler provare qualcosa di contestualmente diverso da quanto appena delineato è stata quella di Makoto Kano, autore già in precedenza del bizzarro platform game Kid Icarus.
Nel 1986 si arriva così alla prima iterazione delle avventure di Samus Aran, la più abile e pericolosa cacciatrice di taglie della galassia, completamente racchiusa in una tuta spaziale aliena – solo completando il gioco con particolare rapidità si poteva infatti scoprire la vera identità della protagonista, non senza rimanere sorpresi di aver interpretato fino ad allora una delle prime eroine di sesso femminile nella storia dei videogames.
Grazie alla nuova unione tra le meccaniche platform di Super Mario Bros. e l’esplorazione di The Legend of Zelda, il grande pubblico conobbe allora qualcosa di molto vicino al concetto attuale di action adventure… nonchè di molto lontano dal gaming più rappresentativo di quegli anni. Oggi, l’industria dei videogames deve molto a quel riuscito esperimento, che a buon merito sembra ricrearsi, anno dopo anno, sotto nomi e generalità radicalmente differenti, la più famosa delle quali potrebbe dirsi un importante sotto-filone della longeva serie di action game Castlevania, iniziato con l’eccezionale Symphony of the Night, ormai ribattezzato in via ufficiosa come nientemeno che capostipite dei Metroidvania.
La stessa Nintendo, grazie all’acquisizione del brillante developer Retro Studios, ha avuto modo di riproporre a partire dal 2002 una serie di giochi di azione in prima persona, collettivamente noti come Metroid Prime,  nei quali Samus è ritornata, più in forma che mai, a vagare per cupi e credibili ambienti alieni, alla costante ricerca delle parti mancanti del suo poliedrico, perennemente incompleto equipaggiamento.
Probabilmente ormai occupata a tempo pieno con line-up di lancio dell’atteso Nintendo 3DS, la casa produttrice ha deciso per questo seguito di concedere ancora una volta libertà interpretativa alle terze parti: questa volta a schierare l’eroina Samus è il Team Ninja, la divisione di Tecmo creatrice tra le altre cose del reboot di un’altro classico dell’epoca 8-bit, l’adrenalinico Ninja Gaiden. Tuttavia costoro, privi da ormai due anni del geniale director Tomonobu Itagaki, hanno deciso di ignorare ogni convenzione su Samus Aran creata negli ultimi anni, dissolvendo sistematicamente ogni mistero intorno ad una delle personalità più silenziose ed enigmatiche dell’immaginario videoludico contemporaneo. Metroid: Other M è un gioco che demistifica, stravolge ed ignora alcuni dei suoi più insigni predecessori, ricostruendone il contesto a beneficio di un pubblico prettamente giapponese. Ma questo non basta a privarlo di un notevole, estremamente solido senso della Storia…

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