La vernice che si illumina a comando

Lumilor

La più grande ingiustizia è che la luce, concetto privo di peso e forma per eccellenza, sia perennemente condizionata dall’ingombro delle cose, o gli strumenti, che riescono a crearla sotto ai nostri occhi. Non c’è effetto senza causa e quest’ultima, naturalmente, trae l’origine da un qualche tipo di energia. Che senza spazio non può prosperare. Maggiore è l’intensità del flusso, tanto più grande, normalmente, la cosa che lo genera: accendino, lampadina, caminetto, lampadario, riflettore, incendio, nocciolo radioattivo, astro nascente del mattino, supernova di galassie sterminate, anima del primo motore che ha dato l’inizio all’universo e poi! In una modalità crescente e progressiva, che preclude a noi, falene ingegneristiche, di ricercare l’ideale intensità notturna per qualsiasi situazione. Se voglio guidare in piena notte, so che devo accendere qualcosa. Giacché l’asfalto onnipresente è ormai praticamente un pozzo nero. E lampade o lampioni, alla fine, funzionano soltanto quando ti ritrovi esattamente sotto, poco prima di sparire all’orizzonte.
Però, guarda! C’è un’auto, nello stato dell’Ohio, che non di simili problemi. Si presenta, guarda caso, a guisa di Tesla Model S, l’avveniristica e lussuosa berlina elettrica con batteria al litio da 7000 celle, un pannello touch da 17 pollici nel cruscotto, numerosi processori e maniglie che compaiono magicamente quando si avvicina il proprietario. Qui dotata, ad ulteriore beneficio della sua celebrità internettiana, di una scintilla assai particolare. Il veicolo in questione, soggetto principe del video, è stato infatti trattato dagli addetti della Darkside Scientific con il loro nuovo tipo di vernice, denominato LumiLor. Diverse strisce irregolari percorrono quella fiancata scura. Per metà del tempo, non le vedi. Poi qualcuno sale a bordo e preme un piccolo pulsante per dare inizio alla festa. Si, è una scena memorabile. Immaginate: siete in giro verso tarda sera. Per trovarvi di fronte, in piena carreggiata, l’equivalente a quattro ruote di una moto del film Tron. Neanche la cultura statunitense della personalizzazione after-market, fonte di ogni sorta di surreale meraviglia, aveva mai potuto concepire tali emozionanti intermittenze. È come se qualcuno avesse preso un fulmine, l’avesse congelato. Poi sbriciolato e messo in un impasto, a sostituzione del pigmento minerale di cobalto. E ad un certo punto, stendendolo a destinazione col pennello, si fosse reso conto che le cose cambiano. Mentre i loro effetti sull’oscurità, talvolta, resistono alle alchemiche trasmutazioni. Dando luogo, per usare una singola parola: a (flessibile) elettro-luminescenza. Forse erano (tre) due…

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Porto a spasso il pappagallo con la moto

Macaw Bike 2

Quest’uomo comprende la reale potenzialità dell’orgoglioso e variopinto Ara ararauna, il tipico ornamento di un salotto degli amanti degli uccelli, sopra trespoli monumentali e circondati dallo sterco. Novanta centimetri di lunghezza. Oltre un metro di apertura alare. Eppure, tutto quello che può fare è dire il nome del padrone? Chiedere un bramato e piccolo croccantino? Da sgranocchiare, pian pianino, con quel becco ricurvo in grado di sollevare facilmente una valigia bella piena? Piuttosto che imbarcarla e andare in viaggio, come niente fosse, oltre le regioni del domestico languìre… Per giungere alla fine, sui limiti dell’orizzonte. Tra i pietrosi monti di una campagna del Mediterraneo, a pochi metri dell’asfalto e innanzi ai fari di un veloce motociclo, da cui si ode quel richiamo un po’ insistente: “Halŏ? Halŏ?” Non è un videogioco ma un destino di scoperta. Per segnare il tempo della scena o della scienza: è in fondo questo, uno stupendo esperimento. Che dimostra come, ebbene si, è possibile portarsi in giro il proprio uccello prediletto. Senza l’uso del guinzaglio, né di differenti imbracature. Purché ci s’ingegni per volare, pressapoco come lui.
Siamo presso la spiaggia di Kolimbithres, nel bel mezzo del barbagliante Mar Egeo, presso l’isola di Paros. Tra le Cicladi, probabilmente la migliore. E l’autore del video, nonché proprietario del protagonista, si fa definire su Internet con l’handle Waterskyzone. Un nome che suggerisce una passione importante per lo sci d’acqua, benché qui messa in secondo piano, brevemente, a vantaggio di un indimenticabile giretto su due ruote. In sella assieme a Vito, il pappagallo. La vista di un uccello tropicale come questo, per una volta libero di vagheggiare per l’aere sconfinato, susciterebbe normalmente l’immagine di ombrose foreste presso l’equatore e ricche di alberi con accoglienti cavità. Presso cui nidificare, ben lontani dagli umani. Perché è piuttosto raro, per non dire inaudito, che una simile creatura possa un dì tornare libera, una volta assaporata la comodità del vivere dentro una casa. Di essere serviti e riveriti, come un raro gioiello, privo di altro senso che la propria mirabile esistenza. Le ali, allora, si riducono ad un manto di nebbiosa sussistenza. Mentre l’occhio tondeggiante, attento al minimo dettaglio, scruta occasionalmente oltre i pannelli delle porte a vetro, verso il mare o il mondo assai distante. È questo il nostro stesso fato, oltre a quello delle bestie nella casa, se si perde la voglia di rischiare, mettendo in discussione i quotidiani presupposti.
L’evidenza è un torvo consigliere: può sembrare, raggiungendo la maturità, che portare fuori casa il pappagallo, come fosse un Fido quattrozampe, sia un rischio immeritevole di considerazione. Che certamente, un grosso gatto se lo mangerebbe. O un falco se lo prenderebbe, una faina, una formicaleone lo risucchierebbe. E quanto spesso si odono qui a Roma, i versi dei raminghi che si annidano, sperduti, tra gli alberi di Villa Borghese…Ma sono liberi, per le loro penne, addirittura!

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I motorini mutanti di Jakarta

Extreme Vespa Indonesia

Ma quanto è bello andare in giro, se hai una Vespa Special che… Cantava il bolognese Cremonini sulle soglie del 2000, tracciando la strada verso il trionfo del suo gruppo Lunapop. L’estate che avanza! Ti porto in vacanza! Rossa di fuoco, era la sua beneamata moto, truccata per fare i 90 e quindi rapida “come una freccia”. Fu chiaro fin da subito che nulla, meglio di un tale emblema pluri-generazionale, avrebbe potuto assisterlo nell’ardua missione discografica. Chi non la conosce, del resto? Tutte le Vespe nascono uguali, dai loro nidi, calamite invitanti per lo sguardo dei giovani motociclisti. Fin da subito tuttavia, come gli insetti da cui traggono quel nome, simili due-ruote si adattano all’ambiente circostante. O alla persona. Questa è vera personalizzazione, altro che Harley! In Indonesia, e nelle vicine Filippine, da diversi anni c’è una cultura giovanile del motorino di recupero, modificato fino all’impossibile, senza concessioni per l’estetica convenzionale. Il risultato è straordinario, mostruoso. Anche un po’ italiano. La ragione proviene da lontano, anche dal punto di vista del tempo.
Trionfo del design Piaggio degli anni ’40 nonché icona internazionale, l’invenzione dell’ingegnere aereonautico Corradino D’Ascanio ha percorso le strade più diverse. Dalla Germania al Regno Unito, dalla Russia sovietica fino a Taiwan, passando per l’India, la sua stretta sagoma, che si dice sia stata funzionale al soprannome, si è saldamente impressa nell’immaginario popolare. Così cristallizzata nell’aspetto, pura espressione d’accademia concettuale, la super-moto dei ragazzi è infine giunta nelle sale di un museo, il celebrato MOMA di New York. Non era mai cambiata. Il suo fulmineo potenziale, di mille o più reincarnazioni, si era scatenato solo in parte. Finché non giunse in prossimità di questi colli, non più bolognesi, bensì posti sul confine della capitale indonesiana, l’estesa, caotica Jakarta. A quel punto aveva otto ruote, due sellini, una folle struttura in legno di bambù e all’incirca un migliaio di colori. Ma andiamo con ordine. C’era stato, molto prima, un accordo foriero di più grandi globalizzazioni, tra la compagnia danese East Asiatic Company e la Danmotor di Pulo Gadung, un vasto stabilimento posto su quella stessa isola dei mari d’Oriente. Con licenza di produzione in sub-appalto, l’industria indonesiana avrebbe immesso sul mercato qualche Vespa, giusto per poterne misurare il potenziale commerciale. Così nacque nel 1972, timidamente, la DMVI (Danmotor Vespa Indonesia). Fu però difficile, anzi no, impossibile, resistere a quel fiore profumato della motoristica passione.

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L’eterna lotta tra una pecora e la moto

Bikeram

TeeOCee è il giovane motociclista neozelandese che, percorrendo una tranquilla strada boschiva, si è imbattuto nell’ariete nero più arrabbiato al mondo. Da quel giorno, come in un romanzo d’avventura, è nata la loro faida senza fine: più volte si sono scontrati, per stabilire il predominio su quel territorio essenziale, punto di passaggio strategico fra i diversi attimi di un percorso storico importante. Corna ritorte e motori ruggenti, soffice lana di fronte al duro metallo. Il guardiano quadrupede della foresta, contro l’arrogante essere umano, a bordo del suo spaventoso veicolo a due ruote. Perché, qualcuno potrebbe chiedersi, non scegliere semplicemente di passare altrove? “Questa è casa mia, tengo moglie e figli!” L’animale potrebbe dire: “Beeehasta con questo assordante belato a due cilindri, ragazzino”. Ed è facile da capire, persino da condividere, il suo punto di vista. Ma la situazione va doppiamente analizzata. La convivenza, in questo caso, ha una sua ragion d’essere e un contesto. Le pecore selvatiche del Nuovo, Nuovissimo Mondo, che si compone d’Australia e ancor più Recente Zelanda, non sono in effetti tribù native proprietarie delle isole, cui qualcuno vorrebbe sottrarre un sacro diritto ereditario. No signore, Cristoforo Colombo. Discendono tutte dalla medesima razza Merino, fiore all’occhiello di Castiglia, nonché massima esportazione dell’Europa coloniale. Prima dell’avvento dei frigoriferi, preservare il cibo era un problema. Le navi europee del diciottesimo secolo, che per la gloria di distanti regni esplorarono queste terre, ne scaricarono intere carrettate, un po’ qui e un po’ la, insieme ad altrettante capre, maiali, cani e i sempre temutissimi conigli. Qualcuno, prima o poi, li avrebbe ringraziati (pensavano). Il modo più facile per preservare la carne, a quei tempi, era infatti mantenerla in vita. Così le bestie vennero diffuse, proprio come i microbi americani del comune raffreddore, distruttori di grandi e antiche civiltà. E se soltanto qualcuno avesse chiesto il parere del koala, oggi non saremmo a questo punto. A schivare i cornuti con la moto.

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