Luoghi ameni in terre graziate dallo splendido astro illuminante della natura: prati verdi, mare limpido, uno spazio dove coltivare le proprie aspirazioni e vivere lontano da pendenti situazioni o tirannie dello stato. Molti navigarono al di là di quell’estesa barriera, definita geograficamente Oceano Atlantico, con l’aspettativa destinata ad essere implicitamente soddisfatta, di trovare un nuovo inizio, lasciandosi alle spalle dolorose implicazioni e aspettative societarie persistenti. Tra di loro Daniel Holland, un discendente dei primi abitanti dell’estrema frontiera di Jamestown, che attorno all’anno 1600 acquistò dallo sceriffo dell’ancora esistente contea del Dorchester, nello stato del Maryland, un terreno edificabile dalle notevoli caratteristiche paesaggistiche. Tra tutte quelle, decisamente significativa, di trovarsi nel bezzo di una baia riparata e fertile, quella generata dall’estuario più grande degli Stati Unit al termine del fiume Susquehanna. Non fu certo l’unico, del resto, né il più famoso a trasferirsi tra le acque di Chesapeake, ma nel giro degli anni, e secoli a venire, sarebbe stato tra i fondatori di un insediamento in questi luoghi ad acquisire il maggior seguito di abitanti. Presso l’isola immediatamente battezzata col suo nome, di un estensione originariamente pari a 0,65 Km quadrati, dove iniziò ben presto a formarsi una piccola comunità di pescatori, coltivatori e watermen, ovvero le figure professionali di traghettatori che ruotavano attorno al trasporto di merci, passeggeri e schiavi tra i diversi insediamenti della regione. Quegli stessi schiavi provenienti dall’Africa che in anni successivi, grazie alle competenze pratiche importate dalla loro vita precedente, avrebbero riconquistato la libertà contribuendo a fare di questi arcipelaghi una terra capace di mantenersi con le proprie limitate risorse. Fino al boom demografico esploso approssimativamente attorno al 1910, quando la popolazione complessiva di Holland Island aveva raggiunto i 360 residenti, guadagnandosi anche una chiesa, negozi, una clinica medica, un centro municipale ed una scuola con due insegnanti. Disponendo anche di una sua propria squadra di baseball, che era solita spostarsi via mare per giocare in trasferta nelle isole vicine. Una vera e propria piccola flotta d’imbarcazioni da pesca tradizionali della baia, tra cui schooners, bugeyes e skipjack, trovavano l’approdo sui suoi moli, traendo un valido profitto dalle acque pescose e la raccolta delle ostriche dai fondali. La vita era pacifica e benevola, in altri termini, non fosse stato per un piccolo dettaglio: la maniera in cui le spiagge diventavano sempre più piccole e la riva inumidita dalla risacca, progressivamente più vicina. Entro il 1910, almeno un terzo dell’isola aveva inesorabilmente finito per inabissarsi con ragioni tutt’altro che palesi, permettendo ai flutti di raggiungere le mura esterne delle case più vicine alla riva. Tanto che in alcune memorie della gente del posto, è riportato l’imprescindibile punto di non ritorno di un’abitante: “Quando mi accorsi di poter gettare l’acqua dei piatti che avevo lavato fuori dalla finestra e direttamente nell’oceano, capii che era giunto il momento di trasferirci.” Fu l’inizio di un vero e proprio esodo annunciato, con tutto il tempo di smontare, asse per asse, le abitazioni in gran parte prefabbricate che gli abitanti avevano precedentemente ordinato sui cataloghi della Sears. Possenti chiatte, provenienti fin dalla vicina città di Baltimora, ne portarono via due alla volta, finché sull’isola rimasero soltanto i possedimenti architettonici di chi non aveva le risorse finanziarie, o la pazienza di trarle in salvo. Dopo un breve interregno di parziale abbandono, quindi, iniziò il degrado…
Stati Uniti
Gamberi nella risaia, il periodico motore dell’economia Cajun
Rossi, esteriormente distintivi e molto spesso croccanti: niente risulta rappresentativo dello spirito natalizio nella parte meridionale degli Stati Uniti più che un piatto di mudbugs, i cosiddetti “insetti del fango”. Più comunemente riconducibili, secondo schemi di classificazione meno regionali, al concetto universale di gamberi di palude. Di fiume. Di lago. Di ogni ammasso d’acqua anche soltanto vagamente umido perfettamente funzionale ad uno scopo; quello d’offrire un luogo abitativo e campo riproduttivo per l’esecuzione delle fasi propedeutiche ad un ciclo vitale ben collaudato, che consiste di nascita, crescita e riproduzione… Riproduzione senza limiti né considerazioni per le risorse o lo spazio effettivamente a disposizione. Un approccio all’esistenza che caratterizza tutte le specie appartenenti al genere Procambarus, ma particolarmente quelle due varietà riconducibili alle categorie P. clarkii e P. zonangulus (il gambero “bianco”) ormai da tempo instradate in un settore gastronomico particolarmente rappresentativo di un intera discendenza etnica e per antonomasia, la popolazione che ne condivide l’ambiente. Quei Cajun o eredi delle genti francesi d’Acadia, la regione canadese soggetta a purga etnica e religiosa nei confronti degli Ugonotti nel XVIII secolo, costretti dagli Inglesi a rifugiarsi nell’estremo meridione delle 13 colonie. Gli attuali stati della Louisiana e parte del Texas orientale, dove lungi dal perdersi d’animo e non potendo farne a meno, i sopravvissuti del difficile periodo storico iniziarono a individuare i lati positivi delle nuove terre d’adozione. Tra cui il clima mite, ed il particolare componente della loro dieta, ricco di minerali e povero di grassi, oggi alla base di una pletora di ricette locali ed almeno un’importante tradizione conviviale. Il celebrato Crawfish boil, momento in cui tutti i membri di una famiglia allargata, un vicinato o un’intera comunità rurale si riuniscono per festeggiare tra ottobre e novembre, ascoltando musica Cajun, danzando e conversando amabilmente, mentre letterali migliaia di piccole creature innocenti vengono bollite all’interno di grandi recipienti e in seguito, servite a tavola idealmente all’interno di una tradizionale piroga rappresentativa degli antichi metodi e mestieri di qui. L’ideale e irrinunciabile coronamento, in altri termini, di una filiera industriale ben precisa, ogni anno responsabile di un guadagno stimato di 300 milioni di dollari e responsabile di circa 1.600 posti di lavoro, derivante dai moderni metodi di coltivazione intensiva di questi crostacei, un tempo raccolti in modo assai più laborioso e meno efficiente in territori liberi e incontaminati. Dal che deriva la legittima domanda di come, esattamente, sia possibile adibire interi bacini idrici del tutto artificiale all’allevamento di una classe di creature che si riproduce estensivamente soltanto una volta l’anno, stabilendo una singola stagione di raccolto e processazione determinata in base ai rapidi ritmi di crescita con cui la natura le ha sapute caratterizzare. Un mistero per il quale ci viene in aiuto la ben nota tecnica del mondo agricolo della rotazione dei raccolti, soltanto incanalata al fine di permettere il passaggio reiterato da un particolare cereale all’animale simbolo dei decapodi mangiati da queste parti. Tramite una tecnica molto precisa, al punto da essere il principale oggetto di una lunga serie di guide operative pubblicate dallo SRAC, l’Ente dell’Acquacultura Meridionale Statunitense…
La più grande e la più piccola dimora nella galassia d’isole tra Stati Uniti e l’Ontario
Con il drenaggio del Mare di Champlain, una vasta massa d’acqua salmastra situata nell’odierna zona centrale del Canada, un lungo e profondo fiume venne scavato dalla forza dell’erosione per 3.058 chilometri, fino all’intero stato americano del Michigan e quello di New York. Circa 12.000 anni dopo, a seguito della guerra dei sette anni combattuta tra francesi ed inglesi (1756-1763) venne ritenuto equo disegnare un’importante linea di demarcazione in corrispondenza di questo corso d’acqua, nel frattempo ri-battezzato con il nome di St. Lawrence (rispetto alla pletora di complicate sillabe impiegate dalle diverse tribù dei nativi). Il che avrebbe portato, in un caso estremamente raro nella storia delle cartine geografiche, alla suddivisione più o meno equa di un’intero arcipelago d’isole. Quelle che emergevano, a intervalli ineguali, lungo il flusso delle acque defluite dalla regione dei Grandi Laghi, tramite il collegamento diretto ai margini dell’Ontario. Talmente tante, e così diversificate per ampiezza, usabilità e condizioni, da aver portato al nome di Thousand Isles (Mille Isole) assieme alla necessità di un codice ben preciso. Secondo cui determinate caratteristiche dovrebbero condizionare l’elevazione di una terra emersa a qualcosa di più di un semplice “scoglio” o “pietra”: la capacità di restare al di sopra del livello delle acque per l’intero anno ed una solidità sufficiente a supportare un minimo di due alberi. Obiettivi largamente superati dalla più grande di tutte, l’isola di Wellesley, con un resort metodista, l’hotel omonimo, tre campi da golf, un porticciolo, due parchi ed una celebre gelateria. Benché nel quadro generale offerto dal panorama locale, non sia sempre o necessariamente tale promontorio a rimanere maggiormente impresso, una prerogativa maggiormente attribuibile ad uno qualsiasi dei numerosi castelli, magioni e ad avite dimore costruite sopra spazi simili lungo l’estendersi del grande flusso fluviale. Già, perché caratteristica di questo luogo necessariamente in bilico tra due nazioni, fu all’inizio del secolo scorso quella di aver costituito un rifugio per i ricchi industriali ed uomini d’affari delle metropoli limitrofe, che qui costruirono facendo sfogo della loro spropositata ricchezza. Personaggi come George Boldt, all’epoca general manager della catena d’accoglienza Waltdorf Astoria, che dopo aver trascorso sette estati memorabili nella casa di famiglia sull’isola di Hart, pensò d’investire cifre copiose nel suo significativo ampliamento, fino alla creazione di un qualcosa di assolutamente spettacolare. 15 milioni di dollari, per essere più precisi, trasformati nei 6 piani del castello destinato a ricevere in eredità il suo nome, benché fosse stato concepito originariamente come un pegno dell’amore del suo committente per la moglie, Louise Kehrer Boldt. Che morì improvvisamente e inaspettatamente quattro anni dopo l’inizio dei lavori, nel 1904, portando il devoto consorte ad abbandonare il luogo della loro serena convivenza futura, già finemente ornato con numerose sculture di cuori ed altre romantiche decorazioni. Lasciandolo in balia per 73 anni d’intemperie, vandali ed incurie, finché nel 1977 l’autorità locale del Thousand Isles Bridge non l’acquistò dai suoi eredi per la cifra simbolica di un dollaro, iniziando le laboriose opere di restauro. Che ne avrebbero fatto, inevitabilmente, una delle principali attrazioni turistiche della regione, oltre ad un sito preferito da innumerevoli coppie per le foto dei loro matrimoni…
Le molte risorse inaspettate del Crusader, ultimo aereo che andava a caccia coi suoi cannoni
Si tratta di una storia ripetuta più volte nei trascorsi dell’aviazione americana, con un particolare senso di umiltà e reverenza nei confronti della possibilità di diventarne il prossimo protagonista. Come una sorta di monito, verso l’evenienza di commettere lo stesso errore per riuscire, auspicabilmente, a raccontarlo. Eppure nonostante ciò, illustrativa di un certo senso di giustificata fiducia, nei confronti dell’ingegneria applicata alla progettazione di un aeroplano eccellente. Affidabile e capace di cavarsela in svariate situazioni limite, come le svariate volte durante la guerra del Vietnam in cui un Vought F-8 Crusader ebbe modo di tornare alla base nonostante i danni riportati in combattimento. Oppure tutte quelle, ancor più deleterie, in cui il pilota di turno saltò a piè pari una delle voci che potremmo giudicare come Fondamentali nel novero della sua checklist di decollo. Qualcosa di assolutamente tangente, come “girare la manopola che controlla l’abbassamento delle ali”, ma soltanto al completamento delle suo tragitto tra i viali della base o sull’angusto ponte di una portaerei. E dopo tutto, come biasimarlo? Si tratta di un passaggio da compiere all’ultimo momento ed a tutti è capitato di distrarsi almeno una volta nello svolgimento delle proprie mansioni professionali. D’altra parte, sarebbe assolutamente lecito aspettarsi di andare incontro a conseguenze particolarmente deleterie in siffatte circostanze, non potendo far altro che eiettarsi con il seggiolino e una breve preghiera di poter assistere all’alba di un altro giorno. Se non che in almeno due casi celebri e documentati, il primo presso l’aeroporto di Capodichino a Napoli, ed il secondo nel campo di volo a Miramar, San Diego, gli eventi collegati a questo aereo ebbero modo di prendere una piega totalmente all’opposto. Col protagonista della vicenda non soltanto in grado di decollare agevolmente, nonostante la significativa riduzione della sua portanza ma persino manovrare (con qualche difficoltà) fino all’allineamento per il ritorno sulla pista. Ed appoggiare il carrello di un aereo sano e salvo nuovamente sul terreno, ringraziando lungamente la benevolenza degli Dei del cielo.
Ridondanza delle facoltà è per questo la parola d’ordine, nella particolare configurazione aerodinamica del velivolo notoriamente soprannominato come the last gunfighter, per il suo impiego ideale nell’intercettazione di nemici ad alta quota facendo uso primariamente dei cannoni automatici di bordo, quattro potenti Colt Mk 12 da 20 mm di calibro. Montati ai lati della fusoliera lunga ben 17 metri, ovvero abbastanza perché un atterraggio di tipo convenzionale rischiasse di urtare il suolo col motore situato nella parte posteriore, un singolo Pratt & Whitney J-57-P-12, poi sostituito con il più potente J-57-P-20. Ragione valida per l’inclusione tra le sue caratteristiche di un’originale accorgimento, consistente nella cosiddetta ala ad assetto variabile: un dispositivo idraulico capace di sollevarla ruotandola di esattamente 7 gradi. Abbastanza da aumentare la capacità di stare in aria a bassa velocità, ma anche e soprattutto massimizzare la visibilità per il pilota permettendo di tenere la cabina orientata verso il terreno. Non certo l’unica, né maggiormente degna di nota, tra le doti di questo bolide d’acciaio dal notevole successo operativo…