Il ponte che rischiò di precipitare nel Tamigi il giorno stesso della sua inaugurazione

Canzoni come armi, note più potenti di una catapulta: “Il ponte di Londra è stato distrutto. L’oro è vinto, a noi la gloria. Gli scudi rombano, le trombe squillano. La Valchiria celebra questo trionfo. Le frecce cantano, le armature tintinnano; Odino ha condotto il nostro Olaf alla vittoria!” Olaf il Secondo, s’intende, distruttore vichingo di questa città poco dopo l’anno Mille, che secondo alcuni potrebbe essere stato l’originale protagonista della più adorabile filastrocca su un disastro infrastrutturale, famosa tra i bambini di mezzo mondo. Molti anni prima che venisse, presumibilmente, dedicata all’ignota My Fair Lady (La…Regina? La Vergine Maria? Una personificazione del fiume Lea?). Ed è cosa buona e giusta che nella storia pregressa dell’ingegneria, severi cartelli siano stati eretti presso i più elevati e fragili attraversamenti fluviali: “Divieto categorico di marciare, accesso interdetto alle bande musicali”. Poiché nulla è più terribile che un principio spontaneo di risonanza; ripetuto e rafforzato progressivamente, fino al raggiungimento della catarsi.
Era il volgere del millennio successivo, dunque, quando lo stesso tipo di disastro stava per ripetersi, ed all’umanità in attesa venne ricordato per vie indirette la maniera in cui nessun moderno materiali, tecnica simulativa informatizzata o avanzato accorgimento tecnologico potessero effettivamente risultare sufficienti a sovvertire i rischi resi impliciti dalla natura. Il giorno: 10 giugno dell’anno 2000, quando l’ultima ed ennesima meraviglia della città di Londra venne aperta per la prima volta al pubblico, senza ricorrere al passaggio obbligato di un solenne Atto del Parlamento. Ma col benestare e il beneplacito di Elisabetta II, che aveva dato la sua ufficiale benedizione a quell’ineccepibile, elegante striscia sospesa tra cielo ed acqua, qualche ora prima che un quantità stimata di 90.000 persone si affrettassero ad attraversarla, in una folla (e follia) gremita che non pareva avesse una fine. Sto parlando, se non fosse ancora chiaro, del pedonale Millennium Bridge opera dell’archistar e designer locale Norman Foster, già autore di moderni patrimoni dell’umanità come il Viadotto di Millau e la Hearst Tower di New York, nonché disegnatore in epoca più recente dell’improbabile cerchio californiano dell’Apple Park, a Cupertino. Il cui nome certamente tutt’altro che originale (si stima che almeno una dozzina di strutture omonime di rilievo siano state inaugurate nel corso di quegli anni fatidici sul calendario) non poteva certo corrispondere allo stile realizzativo, in realtà elegante al punto da sembrare, secondo le parole usate nella stessa proposta in fase di appalto, una “lama di luce” sospesa in modo quasi mistico tra le sponde corrispondenti al museo Tate Modern e la grande piazza sovrastata dalla cupola della Cattedrale di San Paul, con appena un paio di piloni di sostegno e lunghi cavi in posizione ingegnosamente ribassata, usati per tenere sollevati i suoi 325 metri d’estensione mantenendo al massimo la visibilità del notevole panorama. Ciò che tutti ben sappiamo, tuttavia, è che andare contro la convenzione implica un certo livello di pericolo inerente. E qualche volta, basta un passo falso sulla strada della storia, per sfiorare l’epica e indimenticabile realizzazione di un disastro.
Era un giorno di sole accecante, quello, in grado d’attirare vaste fasce di popolazione interessata e curiosi. Al punto che si stima che verso la metà del pomeriggio, fino a 5.000 persone giunsero a trovarsi contemporaneamente sopra la notevole struttura costruita secondo i migliori metodi dalla ditta ingegneristica Arup. E fu allora che i supervisori incaricati, iniziarono a notare qualcosa di assolutamente terrificante. Poiché la gremita moltitudine, senza quasi rendersene conto, oscillava ritmicamente al suono di una musica del tutto immaginaria. Mentre il ponte stesso, sotto i loro piedi danzanti, pareva udire e seguire le stesse note! Così tremando in modo progressivamente più notevole, pareva avvicinarsi all’ora del suo totale e irrimediabile annientamento. Con fretta innegabilmente giustificata, il sito venne quindi sgomberato e chiuso al pubblico fino a data da destinarsi. Era nato, in quel preciso attimo e per molti secoli a venire, il mito londinese del Wibbly-wobbly Bridge.

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Niente porte né pareti, per la scuola sostenibile costruita col bambù di Bali

Fluida e non del tutto prevedibile, risulta essere la strada che conduce alla grandiosità nella creazione degli ambienti architettonici con uno scopo estremamente definito. Così alto e ponderoso, sormontato da una letterale foresta d’antenne, pieno di finestre… Sono qualità di tipo prettamente urbano, che figurano alla base di una lunga ed ampiamente coltivata scuola di pensiero. Ma fuori luogo esse possono apparire, come treni, strade, piste di decollo nel bel mezzo della giungla balinese. Dove la realizzazione di una certa misura spirituale, nell’umana progressione dei giorni, può essere considerata il fondamento e la chiave stessa di un diverso tipo di realizzazione spirituale, personale, pubblica e privata. Della fondamentale tipologia impiegata, in un’ampia gamma di contesti, come base dell’insegnamento stesso, ovvero sfondo di un’educazione delle prossime generazioni che non sia del tutto conforme, a linee guida provenienti dalla parte della solida della montagna. Bensì fluida ed implicitamente scorrevole, alla maniera di un grande fiume che può essere deviato all’occorrenza. Uno studio di materie forse non così diverse sulla base delle aspettative, ma filtrata dalla situazione stessa in cui vengono impartite, o dettate per osmosi, ad un’intero gruppo d’individui che potrebbero anche diventare “i leader di domani”. Frase inflazionata, forse. Che abbiamo già sentito un alto numero di volte. Eppure sembra possedere, quando pronunciata dall’ex disegnatore di gioielli canadese John Hardy e sua moglie e collega Cynthia, un qualche tipo di significato segreto ed ulteriore, soprattutto nelle multiple interviste condotte entro i confini del complesso architettonico che si ha finito per configurarsi come lascito alle prossime generazioni più importante e significativo della loro esistenza. Sto parlando della Green School, ovviamente, prestigiosa (e costosa) istituzione scolastica privata presso una delle isole più culturalmente rilevanti e caratteristiche dell’Indonesia, con studenti multiculturali, un corpo docenti multiculturale ed il più notevole campus d’edifici, costruiti secondo linee guida che s’integrano perfettamente con un particolare modo di vedere l’esistenza passata, il tempo che stiamo vivendo ed un probabile futuro del mondo. Tutti rigorosamente, interamente e senza eccezione, grazie a un materiale che idealmente simboleggia l’Asia nella mente collettiva delle persone: il bambù stesso, erba più alta ed omni-pervasiva del pianeta Terra.
Per un effetto finale che compare la centro di ogni materiale comunicativo dell’azienda (perché dopo e nonostante tutto, pur sempre di questo si tratta) a partire dal “Cuore” stesso, il nome dato all’edificio centrale costruito al centro della cittadella nata a partire dal 2008, con forma tanto caratteristica e riconoscibile, persino tra i molti costrutti adiacenti, da essere successivamente diventato il logo stesso dell’intera Green School (Scuola Verde) idealmente il prototipo di quello che dovrebbe diventare un nuovo (o ritrovato) tipo e metodologia d’arricchimento pedagogico per le prossime generazioni, frutto di un particolare metodo, ma soprattutto il fondamentale rispetto per l’ambiente che potrebbe, idealmente, conservare intatto il poco che ci resta delle risorse imprescindibili necessarie a preservare l’attuale stato delle cose. Così che permane molto poco, d’industriale ed impersonale, nel complessivo aspetto delle molte aule disseminate sul vasto terreno acquistato dalla coppia, ciascuna essenzialmente una struttura indipendente, costituita da poche aree chiuse con pannelli rimuovibili, ma soprattutto vaste aree aperte alla densa giungla che si spinge fin sopra i vialetti costruiti rigorosamente in pietra locale, così come localmente sono stati prelevati i molti fusti incrociati e sovrapposti di Dendrocalamus Asper, la specie di bambù gigante alta fino a 20-30 metri, utilizzata come principale materia prima del progetto decennale. Ancor più resistente del cemento e parità di dimensioni, e proprio per questo adattabile alla costruzione di alcuni degli edifici in legno più estesi del mondo, tra cui la nuova ed incredibile palestra denominata The Arc, costruita come un vero e proprio padiglione dalle aguzze punte simili a cime di cipressi, ma interconnesse da una versione ultra-perfezionata del tradizionale metodo per costruzione dei tetti con foglie di canna da zucchero e palma, alang alang, che si adatta facilmente all’estensione e funzionalità di una quasi-cattedrale. Ove vige la regola di un’espressione personale ragionevolmente libera, poiché questo è il fondamento stesso, nonché ultima finalità, di una così moderna e prestigiosa istituzione…

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La lumaca di ferro che poteva vivere soltanto sul ciglio dei vulcani sommersi

Più un consiglio che un modo di dire, poiché implica coordinazione tra le cause e gli effetti dell’esistenza. Una sorta di equilibrio che perpetra la propria continuità nel tempo, attraverso l’arzigogolata evoluzione del quotidiano: “Sei quello che mangi” Eravamo soliti dire. E per alcuni, ciò giungeva ad implicare un modus operandi capace di caratterizzare la vita stessa. Ma non è per niente facile, raggiungere l’equilibrio imprescindibile della più perfetta nutrizione, a meno di essere un eremita incline a lunghi stati di digiuno, fino a raggiungere l’agognata separazione dello spirito dal corpo prossimo al deperimento. Né uno stato in grado di durare particolarmente a lungo. A meno di poter fare affidamento, nella naturale progressione degli eventi, a milioni di minuscoli, operosi aiutanti. Comunità intenzionate a sopravvivere all’interno di un involucro sicuro, come può esserlo soltanto l’impenetrabile scorza della pelle… Umana? Non midi-clorian, né naniti tecnologici, bensì “puri” e semplicissimi batteri, del tipo che convivono col nostro ecosistema interiore, collaborando ed assistendo per quanto possibile le imprescindibili funzioni della digestione. Poiché “straniero” non significa per forza “nemico” ed è immaginabile in teoria quel tipo di creatura che potrebbe sopravvivere soltanto dell’aiuto di una simile genìa invisibile, senza il bisogno d’introdurre nessun tipo di sostanza energetica e/o nutrizionale proveniente dall’esterno. L’avete immaginata? Ben fatto. O forse no, perché difficilmente potrà essere comparsa all’interno della vostra mente, l’insolita e misteriosa sagoma del gasteropode dal piede a scaglie, scientificamente detto Chrysomallon squamiferum, un animale celebre proprio per il suo aspetto marcatamente alieno, in aggiunta alle caratteristiche notevoli del suo metabolismo. Essere individuato per la prima volta nell’aprile del 2001 durante una spedizione sottomarina a controllo remoto presso la sorgente idrotermale di Kairei, situata a 2400 metri di profondità sulla dorsale mediana dell’Oceano Indiano, e che sarebbe stata avvistata un gran totale di ulteriori 5 volte nel periodo di altrettanti anni a venire, in vari luoghi dello stesso vasto corpo acquatico del pianeta Terra. Che risulterebbe superficialmente simile a una comune lumaca di superficie, se non fosse per la presenza nella parte inferiore del suo corpo, rigorosamente non coperta dal guscio, di uno strato estremamente spesso di scleriti sovrapposte simili a pezzi di pietra, che in un universo di tipo fantastico saremmo stati pronti ad attribuire al corpo di un vero e proprio drago degli abissi dimenticati del mondo. E sono rigide, inflessibili come una vera e propria armatura, questi speciali scudi integrati in quella che in effetti diventa non più un semplice divoratore di alghe, detriti o altri rimasugli del suo specifico ambiente d’appartenenza, bensì un carro armato dell’ampiezza di 3,5-4 cm, impervio a qualsivoglia tentazione o necessità del mondo. Chi può desiderare, dopo tutto, quello che neppure esiste?
Questo perché la lumaca dei vulcani, come potremmo anche decidere di metterci a chiamarla, in assenza di fonti di cibo vegetariane risulta dotata di una ghiandola esofagea ipertrofica, molte volte più grande di quelle possedute dagli appartenenti alla stessa appiccicosa famiglia, ove risiede una significativa moltitudine di gammaproteobatteri, dei microrganismi capaci di trarre sostentamento dall’ossidazione dello zolfo. I quali tranquillamente sopravvivono e si riproducono, mentre la loro ospite tende a fagocitarne una quantità del tutto ragionevole, perfettamente sufficiente a trarne il necessario sostentamento. Una vera e propria relazione simbiotica, dunque, di un tipo molto raro nell’intero regno animale, e che permette a un organismo complesso, e non predatorio, come la lumaca di sopravvivere a profondità dove qualsivoglia tipo di vegetazione può costituire solamente un sogno irrealizzabile e distante. Semplificando notevolmente la sua vita eppure forse non abbastanza, vista la quantità di precauzioni che si è dimostrato richiedere il suo tragitto evolutivo, affinché potesse dare continuità alla propria specie dalla storia pregressa più che mai incerta…

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L’eccezionale realizzazione del primo carro armato in legno di quercia vietnamita

E poi, tra le più interessanti implicazioni delle tecniche di marketing virale post-moderno, figura questa: il classico momento in cui una grande compagnia multinazionale, nell’interesse di far meglio conoscere ciò che vende, contatta uno dei numerosi e notevoli artisti del Web. Per commissionare alla sua agenda, dietro il pagamento di una somma rigorosamente segreta, un suo personale contributo, spesso fantastico ed inimitabile, alla redditizia leggenda di quel franchise. È un capovolgimento di fattori di quel mondo, in cui ogni creazione viene raggiunta tramite crismi e linee guida dettate da un comitato, che il direttore creativo controlla soltanto in parte, dovendo rispondere alle direttive dei suoi manager, i superiori e gli azionisti della compagnia. Così il vero metodo di chi è pronto a sovvertire ogni legittima aspettativa, resta solo quella di chi ha il compito, sebbene temporaneo, di lavorare in pubblicità. Una notevole scoperta, capace di condurre a significative soddisfazioni, anche da parte del famoso carpentiere vietnamita Trương Văn Đạo, già famoso per il suo canale di larga fama ND – Woodworking Art in cui realizza, a partire dall’anno scorso, una vasta quantità di oggetti e supercars guidabili in scala ridotta 1 a 3, frutto del più fine modus operandi fatto di pazienza, attenzione per i dettagli, straordinaria perizia nell’impiego dei suoi strumenti. Doti che potrebbero anche cambiare, all’interno di un particolare universo parallelo, le sorti stesse di un conflitto armato tra due nazioni… Ed ecco a voi la prova.
La vegetazione si agita nel vento. Le nuvole corrono veloci. La gente per le strade di Bac Ninh, cittadina di 247.000 abitanti nella parte settentrionale della penisola indocinese, si ferma per qualche saliente attimo e scruta in quella memorabile direzione; mentre i pensieri corrono indietro, ai ricordi dei propri genitori e nonni del conflitto più recente e significativo della loro storia pregressa, durante cui armamenti francesi e statunitensi giunsero a diventare una visione drammaticamente comune tra le strade del paese dei draghi. Mezzi come il Panhard EBR, Engin Blindé de Reconnaissance, uno dei più iconici mezzi europei da ricognizione con armamento pesante della seconda metà del secolo scorso. Ripreso direttamente dalla sua fedele riproduzione introdotta soltanto 3 anni fa all’interno del sempre popolare ed ormai antico videogioco di combattimento strategico World of Tanks, capace di mantenere focalizzata l’attenzione di un pubblico di appassionati per un periodo di ormai ben 10 anni. Una singolare scelta, dopo tutto, nel vasto e celebre catalogo di un titolo focalizzato principalmente sugli anni della seconda guerra mondiale, assai probabilmente motivata, almeno in parte, dal tipo di risorse e materiali a disposizione dell’autore ed unico personaggio di questo singolare show. Che vedono protagonista, come al solito, oltre al telaio e motore recuperati da un furgone della Mitsubishi, la più fedele scocca realizzabile interamente in legno di quercia finemente lavorato ad intaglio, come una letterale scultura semovente, direttamente proveniente dalla più elegante scuola tradizionale di carpenteria vietnamita. Antico e moderno, dunque, uniti ad una delle più imprescindibili passioni dell’umanità (qualsiasi sia il mondo o l’universo d’appartenenza): farsi la guerra tramite l’applicazione di sistemi tecnologici che siano splendidi e riconoscibili, ancor prima che semplicemente letali. Visione prontamente ed appropriatamente sdrammatizzata, nell’intento dietro questa commissione realizzata su richiesta, grazie alla solita funzione dimostrata dai video prodotti dall’artista: far divertire, tramite partecipazione diretta, il suo simpatico e giovane figlio, imprescindibilmente invitato a prendere parte al collaudo del veicolo con evidente e comprensibile sorriso, mentre gusta lietamente l’ultimo residuo di un lecca-lecca, simbolo di spensieratezza totalmente all’opposto di qualsiasi conflitto armato in quanto tale…

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