La realtà ridefinita dentro a un fiume di neutrini

Nova Experiment

C’è un che di profondamente socratico nella scienza della Fisica Quantistica, che nelle alterne circostanze sembra rivolgersi all’uomo non tanto per chiarire i suoi dubbi, quanto per aggiungerne degli altri, sempre più pressanti ed irraggiungibili. Perché “Sapere di non sapere” è un’importante base per elaborare dei dati di natura totalmente nuova. Ma talvolta, è innegabile, sarebbe bello poter mettere il coperchio sulla pentola della realtà. È una questione complessa. Dalle molte sfaccettature. Non è facile trovare un modo di disfare l’universo, ovvero guardare tra le fibre della sua tela, ed acquisire la realtà pulviscolare di quello che costituisce il nostro suolo, l’aria che respiriamo, il colore rosso e il canto degli uccelli mattutini. Con la progressiva acquisizione del metodo scientifico, perfezionato attraverso i secoli da Leonardo, quindi Galileo ed Immanuel Kant (ma ce ne furono parecchi altro) si andò progressivamente incontro alla questione di cosa determinasse, in effetti, l’incredibile continuità della materia, che in ogni frangente o circostanza era apparentemente instradata verso un certo tipo di reazioni, comportamenti e prevedibili trasformazioni. Il concetto di “atomo”, sia chiaro, non è certo immaginato per la prima volta nel Rinascimento, né tanto meno verso l’epoca moderna. Già alcuni filosofi greci ed indiani, nel mondo antico, avevano elaborato la teoria che al mondo permanesse un qualche cosa d’indivisibile e di sacro, che permeava ogni risvolto dell’onnipresente materia. Ma uno studio effettivo e sperimentale della questione non sarebbe stato reso pubblico fino al 1805, con la pubblicazione delle teorie del fisico inglese John Dalton, che per primo dimostrò come la scienza nuova della chimica consistesse, fondamentalmente, del far incontrare artificialmente tali mattoncini, generando dei composti nuovi. Finché nel 1939, lavorando su progetti totalmente indipendenti, Lise Meitner e Hans Bethe dimostrarono rispettivamente la fissione e la fusione dell’atomo, provando inconfutabilmente che qualcosa di più piccolo poteva esistere. Il cui effetto sulla nostra vita quotidiana poteva essere nient’altro che utilissimo (in campo energetico) o devastante (come arma di guerra). Ed è a questo, in definitiva, che serve la scienza pura della fisica teorica. Non tanto per risolvere questioni immediate, come la medicina o il calcolo analitico, quanto avvicinarsi il più possibile a un qualcosa di sfuggente. Per giungere infine, una volta ogni duecento, ad una suprema rivelazione, in grado di creare e distruggere allo stesso tempo. È una colossale responsabilità. Che sta ricadendo in questi ultimi mesi proprio lì, sul celebre laboratorio Fermilab fuori Chicago, nonché la sua speciale controparte in quest’epica missione, il “rivelatore distante” del NOvA, presso Ash River, in Minnesota. Una distanza complessiva di 810 Km, che normalmente renderebbe poco pratico l’interscambio tra il personale delle due installazioni, ma che in questo caso diventa invece una questione basilare: ciò perché l’oggetto dello studio collettivo, che ci crediate o meno, percorre l’intera distanza nel giro di 2,7 millisecondi, passando per di più attraverso il duro suolo degli Stati Uniti. Proprio così! Non c’è nessun tunnel sotterraneo, condotto, tubazione (anche perché la costruzione di simili implementi, è probabile, avrebbe avuto un costo largamente fuori budget) per il semplice fatto che assolutamente nulla, a questo mondo, ha la capacità di rallentare un neutrino.
Da quando ho iniziato a scrivere, dozzine, centinaia di queste particelle hanno attraversato l’aria tra me e il monitor, lasciandosi dietro una scia invisibile ma significativa. Ed altrettante hanno attraversato il mio corpo, come anche il vostro di lettori, senza per fortuna alcun effetto sulle cellule dell’organismo. Ma questo era sostanzialmente inevitabile: gli esseri umani, come tutti gli altri del pianeta Terra, si sono evoluti per trarre la propria forza, in via diretta o indiretta, da una stella “fissa” come il Sole. Che da miliardi di secoli bombarda il cielo di luce, di calore e di un sacco d’altre cose che prendiamo in considerazione assai più raramente. L’esistenza del neutrino fu dedotta per la prima volta da Wolfgang Pauli nel 1930, per spiegare l’effetto del decadimento delle particelle radioattive. Ma la sua esistenza sarebbe stata provata solamente nel 1956, grazie agli esperimenti di Cowan e Reines condotti all’interno del reattore a fissione di Savannah River. Essi avevano, sostanzialmente, trovato un modo per conoscere l’inconoscibile, toccare l’intangibile. Attraverso la risorsa scientifica, fondamentale e duratura, di un rivelatore. L’idea di base è la seguente: siamo qui riuniti, quest’oggi, a parlare di un qualcosa di così veloce e piccolo, nonché “privo di carica” (non per niente è un neutr-ino) da essere impossibile da catturare. Eppure, si sa, una tale cosa non può fare a meno di transitare. Un qualche effetto sulla materia circostante, avrà dovuto pur averlo, giusto? Si. E per dimostrarlo, c’era un solo modo: costruire un grande serbatoio di liquido altamente reattivo, che venendo attraversato dalle particelle, liberasse un insignificante ed ultra-momentaneo lampo di luce, a sua volta raccolto e registrato da specifici fotorecettori ad alte prestazioni. Così fu provata l’esistenza del neutrino. E con tale metodo, in una vasta serie di esperimenti successivi concentrati all’incirca tra il 1960 e ’90, né fu pure confermata l’emissione da parte della nostra stella, che come dicevamo poco sopra, non è mai stata parca di un simile rigurgito subatomico sugli abitanti inconsapevoli di questa Terra. Ed è a partir da questo, come da prassi attesa, che la fisica quantistica ci mise lo zampino. Connotando la nuova certezza con l’ennesimo, pressante dubbio, ovvero: perché, se il calcolo matematico ci diceva che il flusso stellare doveva avere una certa frequenza ed intensità, i neutrini rivelati erano invece in quantità notevolmente inferiore? CHI stava rubando tutti i nostri preziosissimi neutrini?

Leggi tutto

Il cannone che avrebbe distrutto il mondo

Nuclear Artillery

Alle 5:45 del 23 maggio 1944, la zona rurale oltre la spiaggia di Anzio rimbombò del concerto apocalittico di 1.500 bocche da fuoco, che contemporaneamente iniziavano lo sbarramento contro le postazioni tedesche dei comandanti Kesselring e Mackensen. Erano passati ben cinque mesi da quando si era deciso per l’attacco anfibio, dopo innumerevoli tentativi fallimentari da parte degli Alleati di sfondare sull’imprendibile Linea Gotica degli Appenini. Con forze inglesi, americane e canadesi, che avendo sbarcato da 374 navi, approdavano nel tratto di mare tra Nettuno e Torre Astura, rinominato per l’occasione Peter Beach ed X-Ray Beach. Il loro obiettivo: catturare in breve tempo l’obiettivo strategico della città di Roma. Giungeva così al suo culmine l’operazione Shingle, concepita da Winston Churchill mentre si trovava degente a Marrakech per i sintomi residui di una polmonite. Fu un momento di svolta nella guerra, ma anche la prova generale di un qualcosa di ancor più grande. Già l’alto comando statunitense infatti, su più livelli della sua area strategica ed amministrativa, era intento a definire le basi di quello che sarebbe diventato di lì a poco il fatale, tragico D-Day. Ma i metodi di una volta, erano spariti da tempo. Già s’intuiva nell’aria quel punto chiave, all’epoca tutt’altro che prevedibile, per cui la complessiva potenza di fuoco di una nazione, ivi incluse le divisioni di fanteria, i carri armati, i cannoni e l’aviazione, poteva giungere a scaricare una tale quantità di munizioni sul nemico da renderne l’avanzata sostanzialmente impossibile. Ed in quel caso, a più riprese, così fu. Nella prima giornata di quel drammatico scontro, la Prima Divisione Corazzata dei “Vecchi Ironsides” giunse a perdere 955 uomini, il numero più alto di vittime subite nel corso di un tempo tanto breve nell’intera storia del secondo conflitto mondiale. Mentre i tedeschi combattevano strenuamente e, nonostante il numero minore di forze in campo (circa 140.000 soldati inclusi due battaglioni italiani, contro 150.000 uomini fortemente determinati) rispondevano al fuoco con enfasi ampiamente comprensibile. La loro forza, come già avvenuto in precedenti frangenti dello spietato conflitto, era la qualità di determinate soluzioni tecnologiche. Come scoprirono ben presto gli aspiranti liberatori della penisola, che furono a più riprese colpiti fin nelle più remote retrovie, da un tipo di cannone sostanzialmente ignoto ai loro comandanti: si trattava di un mostro da 218 tonnellate, con una canna lunga 21 metri, che poteva sparare fino a 64 Km di distanza. Il Krupp K5, un’arma talmente grande che poteva essere spostata soltanto mediante le ferrovie, e che prima di sparare richiedeva l’edificazione di una speciale piattaforma girevole, definita Vögele. Una volta portata in posizione, tuttavia, diventava sostanzialmente inavvicinabile. Simili strumenti bellici, purché mantenuti nascosti alle incursioni aeree, potevano scaricare un volume di fuoco sul nemico niente meno che terrificante: fino a 15 colpi l’ora. Si calcola che nel 1944, sui fronti in cui furono schierati anche soltanto un paio di simili implementi, la quantità delle vittime fatte dell’artiglieria in determinate divisioni si aggirasse attorno all’83% del totale. Le truppe alleate li avevano soprannominati Whistling Willie, per il rumore che facevano i loro proiettili da 255 Kg mentre piombavano con la furia di una grandine infernale. E ad Anzio, guarda caso, ce n’erano due, che dopo ogni operazione di lancio si ritiravano nei tunnel ferroviari circostanti alle zone della battaglia, risultando sostanzialmente invisibili al fuoco di risposta. I nomi erano Robert e Leopold, nel paese di costruzione, ma passarono alla storia con l’appellativo datogli dal loro nemico, ovvero rispettivamente, Anzio Annie ed Anzio Express. Questo perché ad oggi, le due armi in questione si trovano a Fort Lee negli Stati Uniti, all’interno del museo dell’esercito della Virginia, dove furono portati in tutta fretta al termine delle operazioni belliche in Italia. La ragione, riuscite ad immaginarla? Costruirne una versione che fosse ancor più pericolosa. Il primo vero cannone nucleare.
La battaglia di Anzio non fu il successo strategico che si era sperato. Dopo i molti mesi di combattimento, tutto quello che gli alleati riuscirono ad ottenere fu una situazione di stallo, mentre i combattimenti sulla Linea Gotica continuavano indisturbati e con gravi perdite da parte di entrambi gli schieramenti. La liberazione delle cartine d’Europa dalla ragnatela delle fortificazioni tedesche avrebbe dovuto attendere ancora qualche tempo. Tuttavia, nel frattempo, attraverso l’intero anno successivo, l’inasprimento del conflitto nel Pacifico avrebbe portato al progressivo disfacimento della macchina bellica giapponese, fino allo spietato cataclisma finale. Due intere città, cancellate dalla faccia della Terra, in nome del bisogno di dimostrare…Qualcosa. E i vecchi “nemici dei nostri nemici” che all’improvviso venivano riqualificati come un rischio per la sicurezza della collettività. Un pericolo, per usare la terminologia dell’epoca, che non poteva che definirsi profondamente rosso.

Leggi tutto

Artista nostalgico fa muovere fotografie degli anni ’20 e ’30

The Old New World

Nel nuovo video dell’animatore russo trentaseienne Alexey Zakharov, anche noto come Seccovan, c’è un inizio molto particolare: una manciata di foto scattate durante tutta la prima metà del XX secolo vengono sollevate da una qualche forza invisibile, e attentamente depositate all’interno di quello che può soltanto essere definito un album steampunk. Ma come fa, potreste chiedervi a questo punto, un semplice libretto rilegato per dagherrotipi, ad essere effettivamente conforme a quel canone letterario che nacque all’inizio degli anni ’80, nel quale l’estetica di certi romanzi vittoriani, per non parlare della loro ambientazione cronologica e tanto spesso londinese, si mescola alla fantascienza più sfrenata in un tripudio di anacronistico divertissement? Bé… Il segreto è sopratutto nella copertina. In questo caso fittizia e creata rigorosamente al computer, ma con soluzioni grafiche che mirano a ricordare l’aspetto del metallo ribattuto, quindi ricoperto d’insensate valvole, ingranaggi, borchie dall’utilità improbabile ed addirittura un piccolo grammofono, incluso per impreziosire l’esperienza aurale di chiunque scelga di sfogliare un simile oggetto misterioso. E poi, naturalmente, un contatore meccanico con la data, come dall’esempio di un’importane precursore contestuale di questo genere, la macchina al centro romanzo La macchina del tempo di H.G. Wells (1895) in cui l’intraprendente scienziato Senza Nome, protagonista dell’intera vicenda, finiva per tornare da un futuro distopico ed alquanto derelitto. Mentre ai nostri tempi più che mai legati ad un contesto realistico e vicino, uno strumento in grado di spostarsi lungo l’asse dei mesi e degli anni, non può che trovarsi al servizio di uno scopo ben più nobile e per certi versi, affascinante: conoscere direttamente l’epoca dei nostri antenati. Con lo scopo di comprendere come siamo giunti fino a questo punto e, se possibile, non fare i loro stessi errori. Ma questo che si trova innanzi a noi, persino nella finzione del creativo che l’ha disegnato, è soltanto un piccolo marchingegno. Di quelli in cui difficilmente potrebbe entrare una cavia inviata nel senato di Roma per assistere alle Idi di Marzo, o uno scimpanzé destinato a seguire Napoleone durante il suo sfortunato attacco a Hougoumont. Tutto quello che può fare, è alterare chimicamente o in modo quantistico le microparticelle che costituiscono le immagini portate alla nostra attenzione. Per riportare a tutti gli effetti, le figure, gli scenari, le inquadrature, all’epoca dei nostri nonni, quando furono materialmente impresse su pellicola. Ed è una visione…Estremamente affascinante.
Tutto ebbe inizio, ha raccontato Zakharov al Daily Mail, circa un annetto fa, quando l’artista ebbe modo di conoscere più approfonditamente il blog fotografico Shorpy, intitolato a un minatore dell’Alabama deceduto in uno sfortunato incidente del 1928, all’interno del quale uno o più autori anonimi inseriscono innumerevoli foto dell’epoca moderna americana, molto spesso restaurate per le nuove generazioni. In quel caso, lui ne aveva scelta una da animare con la tecnica del projection mapping, che consiste nel ritagliarne virtualmente i singoli elementi per creare un vago effetto tridimensionale, riuscendo a creare un qualcosa che subito trovò meraviglioso. Così decise che prima o poi, o comunque non appena avesse trovato il tempo, da quel punto di partenza avrebbe dato origine ad un intero Progetto, completo in ogni sua parte e pronto a prendere d’assalto la fantasia del vasto web. Che è stato finalmente rilasciato al pubblico soltanto due settimane fa, col titolo altamente suggestivo e vagamente citazionistico di The Old New World (Il vecchio nuovo mondo). Per il quale, a tale tecnica informatizzata sono state sottoposte oltre una decina di fotografie delle prime due decadi del secolo scorso, scattate nei contesti più diversi tra le città di New York, Washington D.C, Boston, Detroit e niente meno che Wilmerding, Pennsylvania, cittadina famosa più che altro per un’importante compagnia produttrice di freni ferroviari, la Westinghouse Air Brake Company. Ma oltre che fornire spessore a queste immagini, l’autore ha scelto di fare il passo ulteriore nel suo fantastico viaggio nel tempo: gli ha ridato, letteralmente, la vita…

Leggi tutto

L’insidioso nascondiglio della tartaruga azzannatrice

Treasure Turtle

Ci sono tesori di tutti i tipi: preziosi o significativi, materiali o filosofici, archeologici, situazionali. Ma il potenziale ritrovamento più meritevole di tutti, da un lato all’altro dell’Atlantico, resta pur sempre l’amicizia. Ed è innegabile che Beau Ouimette, escursionista della Virginia Occidentale, un simile dato sia giunto a comprenderlo davvero molto bene. Altrimenti non si spiegherebbe questo suo video relativamente sottovalutato nel quale, invece di tuffarsi col metal detector come suo solito nelle paludi o i fiumi più generosi degli interi Stati Uniti, s’intrattiene in un diverso tipo di ricerca. Con ben stretto fra le mani un comune retino da pesca di alluminio, che tuttavia lui ha rovesciato in senso contrario a quello d’utilizzo, con la finalità di sfruttarne l’impugnatura a mò di tipico bastone da passeggio. E tasta e spingi, tocca e premi, tutto questo per trovare…Funghi? No, l’altra cosa. Un suo personale esemplare di Chelydridae, quel tipo di tartarughe che esistono soltanto nel continente americano, e sono comunemente identificate dallo specifico termine onomatopeico che vuole sottintendere l’amputazione delle dita: snap, snap, snapping turtle. Quale miglior presupposto, per andare a caccia di Pokémon nella foresta!
O per meglio dire, ai suoi margini più estremi, visto come ci troviamo in un punto imprecisato (deformazione professionale dell’autore) dello stato con capitale Charleston, in cui un ruscello particolarmente torbido si estende fuori dagli alberi e nel bel mezzo di un pascolo per mucche, tranquillo e alquanto paludoso. E qualche bovino lancia il suo muggito d’accoglienza, mentre l’uomo a volte noto come Acquachigger inizia a intavolare il suo discorso d’occasione. C’è una finalità nobile di fondo, appare molto chiaro: il suo messaggio più enfaticamente ripetuto, ben due, tre, quattro volte è di non prendere la tartaruga per la coda. Mai e poi mai, esclama! Nonostante quello che avete visto in Tv. E qui cita il personaggio di Turtleman, protagonista televisivo dell’omonimo reality trasmesso in Italia da DMAX, che per la prima volta venne notato grazie ad un segmento in cui faceva proprio questo. Mentre sollevare simili creature in malo modo, ci spiega il qui presente narratore, sarebbe fondamentalmente come farlo con i cani. Molto spiacevole, per l’animale. E forse anche per noi… Il che inaugura un lungo discorso, sui meriti e i fraintendimenti relativi a queste creature dalla stazza considerevole eppure molto abili a nascondersi, fatto in grado di causare significative problematiche agli allevatori del suo ambiente naturale. “Si, non sono poi così aggressive. Se disturbate, normalmente si allontanano e corrono a infilarsi sotto il fango più accogliente.” Ci spiega. “Ma territoriali.” E di sicuro, se gli capita un piede o zoccolo davanti agli occhi, non ci pensano due volte prima di serrare il loro becco affilatissimo sul nemico percepito, nel tentativo disperato di difendere la loro grossa testa dalle scaglie dure. Per non parlare, dunque, dei neuroni.
Completata la descrizione generica dell’animale, comincia la parte dello show per così dire fattiva, in cui Ouimette si mette a percorrere il ruscello alla ricerca di segni rivelatori. Per prima cosa, puntualmente, ci viene mostrata l’impronta della belva: una zampetta artigliata, dall’aspetto vagamente sovrannaturale e licantropico, suggestiva di una stazza comparabile a quella di un pastore tedesco. Poco più avanti, invece, trova il segno della coda, che venendo trascinata dietro il corpo principale, ha lasciato un’evidente esse sulla terra friabile dell’acquitrino. A questo punto, il primo falso positivo: un dosso preminente in prossimità della riva, dalla forma suggestivamente simile a quella di un guscio. Ma un rapido inserimento del retino, tutto attorno al luogo presumibilmente interessato dalla placida presenza, non può che smentire l’agognato ritrovamento. La dura caccia, quindi, deve proseguire…

Leggi tutto