La maestosa struttura a pali incrociati del David L. Lawrence Convention Center si rifletteva nelle acque del fiume Allegheny, mentre la luce limpida di un pomeriggio del luglio 2006 penetrava dalle sue vetrate. Dall’interno della sala al piano terra, la platea gremita divideva la sua attenzione, tra il magnifico scorcio dei palazzi di Pittsburgh, perfettamente visibili attraverso l’enorme vetro temperato, e il tavolo portato per l’occasione sul palco. Dietro il tavolo c’era un battitore d’asta, la cui cantilena nello stile tipico statunitense risuonava come una nenia per far addormentare i bambini: “Qui abbiamo una maglietta di Hank Aaron, risalente a quando giocava negli Atlanta Braves nel 1973… tra i primi giocatori neri della Major League… Media di battuta .305; numero di fuoricampo: 755… Base d’asta 5.000 dollari… 6.000… chi offre di più? Non troverete niente di simile, altrove… 6.500 dal signore in fondo…. chi offre 7.000?” E così via fino ai 13.000. L’interesse era palpabile, così come quello per i lotti successivi. Si trattava, dopo tutto, di uno dei più importanti eventi per i cimeli del baseball a memoria d’uomo, con la partecipazione di molti importanti collezionisti privati. E le commissioni della Hunt Auctions, fissate sul “solo” 15% per i pezzi di maggior valore, erano tra le più convenienti del settore una volta considerata l’importanza storica degli oggetti da prendere in considerazione. Passarono cappelli, guantoni, scarpe, bandiere. Ma per l’elite del pubblico in sala, niente di tutto questo aveva davvero importanza. Loro erano lì soltanto per il pezzo forte. D’un tratto, il maxi-schermo dietro il palco si accese, illuminandosi con l’immagine torreggiante di un volto. L’espressione bonaria e quasi umile, le sopracciglia folte, un copricapo con il logo dei New York Yankees. Un brusìo agitato percorse il pubblico, come un’onda di marea. Il battitore si voltò di lato, con espressione compunta: “Signori. Il più grande giocatore della storia: Babe Ruth. Che nel 1933, riuscì a battere un famoso home run nella partita annuale delle All Star presso il Chicago Comiskey Park. Per anni, quella palla è stata creduta perduta alle cronache del mondo. Ma essa era effettivamente in possesso di Earl Brown, il cui figlio, oggi, ha deciso di metterla in vendita per noi. Un addetto coi guanti bianchi entrò dal fondo dal fondo della scena. Tra le sue mani, una teca di plexiglass con all’interno il meraviglioso sferoide bianco. “Allora… La base d’asta è di 350.000 dollari. Chi offre di più? Nessuno offre…400.000? Al signore lì dietro…500.000 per te col cappello… 600.000…Qualcuno vuole arrivare a 700.000?”
La gente ama i palloni da Basket. E quelli da calcio, occasionalmente, vengono custoditi gelosamente nelle grandi sale di un club. Qualche volta, un dischetto da hockey finisce tra i tesori di famiglia, dopo aver impattato, generalmente con conseguenze nefaste, contro la testa di un povero spettatore malcapitato. Ma in nessuno sport di squadra, non importa quanto popolare nel suo paese di provenienza, vige lo stesso feticismo della palla del baseball, considerata una vera concentrazione estrema di tutto quello che c’è di splendido, sacro e mitico in questo vecchio sport. Come un piccolo, tangibile buco nero. E non si tratta di un fattore soltanto culturale: se pensate alle pigskin ovoidali del football, probabilmente il principale sport americano, non troverete mai prezzi simili in alcuna asta, non importa quanto prestigiosa e pubblicizzata. Le ragioni sono molteplici, prima fra tutte la frequenza con cui queste palle entrano in commercio a seguito di un’importante partita. In un gioco in cui lo scopo ultimo risulta essere, in effetti, spedire la palla tra il pubblico (incassando immediatamente tutti i punti dei giocatori che si trovino su qualsivoglia base) il siparietto degli astanti che si precipitano per accaparrarsi l’agognato oggetto è spesso considerata parte integrante dello spettacolo, in grado di monopolizzare le telecamere tra un lancio e l’altro. Esiste una particolare etichetta, e casi in cui si dovrebbe lasciare la precedenza ad altri, ad esempio se ci si dovesse trovare un bambino davanti, violando le quali si può facilmente andare incontro alla gogna mediatica e la derisione di tutti, inclusi i propri amici e parenti. E dopo la partita, l’usanza vuole che il giocatore autore dell’home run conceda l’autografo sulla palla, o alternativamente, se la rivuole indietro per la sua collezione, la scambi con qualcosa di valore più pari o maggiore, come la propria mazza, anch’essa autografata. Sapete quante palle vengono impiegate nel corso di una partita media di baseball? Svariate dozzine, con un tetto di 50 o 60. Naturalmente, non tutte finiscono nel pubblico: data l’estrema forza con cui esse vengono colpite, affinché si possano mantenere le specifiche regolamentari, uno di questi oggetti ha un’aspettativa di vita di circa 5 o 6 battute, dopo di che dovrà essere immediatamente sostituito. Il che ha dato origine, negli anni, ad un’industria se possibile ancor più fiorente di quella degli altri sport, con singoli stabilimenti, in Messico, Asia e Sudamerica che arrivano a produrre fino a 10.000-15.000 sfere in un giorno, dai diversi prezzi a seconda della qualità dei materiali. Tutti sempre di rigorosa provenienza statunitense. Ci mancherebbe altro!
Stati Uniti
L’attrazione turistica di un sito di smaltimento nucleare
L’ombra della collina, grigia ed incolore, incombeva dalla finestra dell’edificio, disegnando una forma riconoscibile sul pavimento dall’aspetto vagamente marmorizzato. “La cella di contenimento di Weldon Spring è sicura al 100%” recitava a chiare lettere il cartello esplicativo posto al centro del piccolo museo: “Ogni agente contaminante è stato accuratamente raccolto e posizionato all’interno dell’area definita, quindi 100.000 yarde cubiche di pietra, detriti, metallo e ghiaia sono state usate per ricoprire l’ammasso di scorie. Persino le tute anti-radiazioni usate dagli agenti di depurazione sono state chiuse all’interno di barili a tenuta stagna, quindi aggiunte alla pila degli oggetti da seppellire.” Il piccolo Timmy, in visita al Museo Interpretativo della piccola cittadina nel Missouri, si guardò attorno alla ricerca di una rassicurante conferma. E fu allora che notò, all’interno di una teca di esposizione, il casco e la palandrana color fluorescente di quella che non poteva esser altro che uno di quegli stessi abiti, preservato affinché lui, a distanza di parecchi anni, potesse avere l’onore di prenderne visione. Al che si fece immediatamente due domande: primo, se davvero ne fosse valsa la pena. E secondo, perché mai, fra tutte le gradevoli attrazioni del Missouri, i suoi insegnanti avessero scelto di portarli proprio lì. Non è questa, come forse potrebbe sembrare, la scena di un film distopico sulle catastrofi o una sezione liberamente visitabile dei videogiochi della serie Bioshock, bensì un luogo reale creato a partire dall’incuria e l’urgenza percepita da parte un governo, dapprima spinto dalle esigenze di una grande guerra. E poi quelle di restare competitivo, durante la frenetica corsa agli armamenti che ebbe inizio il giorno stesso degli accordi finali.
Siamo in un luogo che ha conosciuto, negli anni, parecchi veleni: dapprima quelli prodotti dall’impianto della WS Ordnance Works, principale produttore di esplosivi sul territorio nel corso del secondo conflitto mondiale, quindi le acque tossiche prodotte da niente meno che il progetto Manhattan, lo sforzo nazionale per la produzione della prima bomba atomica, il cui effettivo e drammatico utilizzo, alle spese di due intere città giapponesi, conosciamo fin troppo bene. A partire dalla metà degli anni ’50, sempre qui venne collocata la WS Uranium Feed Materials Plant, chiamata talvolta con l’eufemismo “Impianto chimico” presso cui veniva trasportato uno stadio intermedio di lavorazione del più diffuso ed omonimo materiale radioattivo, affinché esso potesse venire processato nella forma di una polvere giallognola nota come yellow cake. Ogni singolo edificio, naturalmente, conteneva generose quantità di amianto, considerato all’epoca imprescindibile per le sue capacità ignifughe e d’isolamento. E i trasformatori elettrici, oltre agli impianti meccanici, erano riempiti di miscele PCB (Policlorobifenili) composti organici dalle presunte capacità cancerogene e lesive per l’organismo umano. Fu attorno a quel periodo che il complesso prese il nome popolare di Città Meccanica, per gli strani suoni che sembrava emettere a ogni ora del giorno e della notte. Ben presto, nell’area iniziarono a circolare voci di gestioni improprie del rischio, con fuoriuscite di liquido contaminato, esplosioni di polvere sottile di triossido d’uranio e pozze di smaltimento insufficienti a contenere l’intera quantità del materiale. Inoltre, gli abitanti locali iniziarono a notare la presenza di rane stranamente gobbute, sottoposte a mutazioni genetiche niente meno che orripilanti. Il governo degli Stati Uniti, che aveva potuto contare sul sacrificio più o meno cosciente e l’operato produttivo di chi lavorava da decadi in questi luoghi, pensò allora di riconvertire ulteriormente l’impianto: con il protrarsi della guerra del Vietnam, successivamente alla chiusura dell’impianto chimico avvenuta nel 1966, si pensò di riaprirlo per mettersi a produrre ingenti quantità dell’Agente Arancio, il temuto ed efficacissimo erbicida impiegato per disboscare ettari interi della penisola del Sud-Est Asiatico, mentre qualcuno iniziava, timidamente, a far notare il suo alto contenuto di mortifera diossina. Poi per fortuna la guerra finì, oppure l’amministrazione preposta cambiò, oppure un briciolo di coscienza sembrò penetrare nella mente dei politici e degli addetti all’approvvigionamento militare. Così la parola fine venne finalmente scritta col fuoco sul tronco di questo albero malmesso, mentre sotto la spinta delle associazioni civiche ambientaliste, il Congresso decise che dopo tutto, un qualche tipo di intervento si era reso palesemente necessario. Gli anni passarono vertiginosi mentre i casi di cancro e leucemia nell’intera regione continuavano “misteriosamente” ad aumentare (la burocrazia, si sa, ha i suoi tempi e sopratutto, i suoi metodi) finché il 15 ottobre del 1985, un giorno lungamente atteso, il sito di Weldon Spring venne iscritto alle Priorità Nazionali del progetto Superfund, una lista di luoghi contaminati da scorie, per lo più di tipo nucleare, per le quali sarebbero stati messe in atto procedure di contenimento destinate ad essere efficaci per un periodo minimo di 1.000 anni. Il fato di quest’area un tempo verdeggiante, a quel punto, era segnato.
Lo strano volo di un würstel cromato
La figura in giacca e cravatta a lato della pista di decollo principale dell’aeroporto di Van Nuys si voltò verso il suo nutrito entourage di fisici, ingegneri, uomini d’affari e segretari. Nei suoi occhi risplendeva una luce che non si era vista da ormai da svariati anni : “Azcoltatemi, coleghi! Qvesto è il più importante mezzo che abbiamo per portare noztri piloti su Lùna.” Dietro di lui, svettante come un bizzarro e indecente animale, il più strano aereo che molti di loro avessero mai visto: le ali relativamente piccole, con quattro propulsori ad elica dall’aspetto già piuttosto desueto, in quel 1962 durante il quale persino in campo civile si preferiva impiegare i jet. Ma niente sembrava poter smorzare l’entusiasmo di Wernher Von Braun, il direttore del Marshall Space Center dell’Alabama e quindi, per estensione, una delle figure più importanti in quella particolare fase del programma spaziale americano. Personaggio controverso, non soltanto per la sua nazionalità tedesca ed il ruolo nell’invenzione della bomba V2: il progettista dell’unica arma che fosse riuscita a bombardare Londra, prima di essere espatriato negli Stati Uniti, era stato anche un nazista ed un membro delle SS (benché non per scelta) ed informazioni a quel tempo classificate lo ponevano come perfettamente al corrente delle atrocità commesse nel campo di concentramento di Mittelbau-Dora, da cui lui stesso prelevava i lavoratori da mettere all’opera nella sua fabbrica sotterranea di Mittelwerk. Il suo entusiasmo quasi infantile di quel giorno in cui tutto era stato perdonato, tuttavia, sembrava derivare da una parte completamente diversa di lui, l’infantile passione che gli aveva permesso di diventare un amico personale di Walt Disney, e realizzare assieme al grande intrattenitore una serie di documentari sullo sforzo statunitense per primeggiare lassù, nel cosmo conteso col grande nemico russo. La forma bombata dell’impossibile fusoliera d’aereo si stagliò nettamente, per qualche secondo, tra il cielo e la sua testa canuta, sembrando l’aureola della sua assoluta innocenza. Quando d’un tratto, il velivolo raggiunse la posizione designata ed una piccola figura umana iniziò a scendere dalla scaletta mobile già attentamente posta in posizione.
Il pilota, nonché progettista del Pregnant Guppy (Pesciolina Incinta) era John Michael “Jack” Conroy, un agile quarantenne dalla carriera pregressa ad Hollywood, rimasto celebre nei tardi anni ’30 per la sua partecipazione alla serie di film dei cosiddetti Little Tough Guys, un gruppo d’attori “affascinanti e un po’ maledetti” protagonisti del cinema d’intrattenimento di allora. Che successivamente al suo arruolamento durante la seconda guerra mondiale, aveva assunto il ruolo di pilota di una fortezza volante B-17, il che l’aveva posto, nei fatti, a capo di una squadra di nove membri dell’equipaggio. Finché nel 1942, durante una missione, non dovette paracadutarsi in situazione disperata sopra i campi nei pressi della città tedesca di Zelt, venendo preso prigioniero con un braccio e una spalla fratturati. Il che, lungi dal porre fine alla sua carriera, avrebbe piuttosto rafforzato una profonda passione per l’aeronautica, portandolo successivamente alla sua liberazione nel 1945 ad arruolarsi di nuovo nell’USAF, come pilota sperimentatore ed istruttore delle unità di riserva. Nel 1955, quindi, la singolare figura aveva completato il Progetto Boomerang, pilotando un caccia a reazione Sabre da questo stesso aeroporto di Van Nuys fino a New York e ritorno, nel corso di una sola giornata di volo. Un’operazione che stabilì numerosi nuovi record mondiali. Ma adesso, quasi 10 anni dopo, la commissione della NASA era lì per valutare un suo diverso presunto merito o stravagante follia: l’idea che fosse possibile trasportare i componenti dei loro razzi per via aerea, mediante l’impiego del più brutto e sproporzionato mezzo volante nell’intera storia dell’aviazione. L’ex eroe di guerra aveva rischiato molto per giungere a questo: trasformatasi in imprenditore, nel 1960 aveva fondato la compagnia Aero Spacelines, spendendo tutti i risparmi ed ipotecando la sua stessa casa. Un gesto piuttosto azzardato, quando si considera che il suo unico possibile cliente era il governo. E se quest’ultimo avesse rifiutato…
Il nutrito team d’intervento e spegnimento incendi riservato spontaneamente dalla direzione dell’aeroporto, alla semplice vista di una simile mostruosità che tentava di decollare, ricevette l’ordine di tornare a riposo, mentre Conroy, seguìto dal suo giovane copilota Clay Lacy, si avvicinava con lunghe falcate al compunto scienziato tedesco, enfatico promotore del destino intra-solare, e persino marziano, della futura razza umana. Senza che una singola parola fosse pronunciata, i due si strinsero la mano. Il nutrito pubblico, a quel punto, iniziò ad applaudire.
L’oceano di mirtilli che riemerge dalla palude
Molti sono i segni della primavera nella boscosa regione geografica del Wisconsin, confinante con le acque gelide del lago Michigan e quello Superiore: la viola sororia, presente sull’emblema dello stato, sboccia in un tripudio di viola dall’emozionante intensità; il tasso nazionale si risveglia dal letargo, per andare in cerca di lombrichi, radici e frutti, prima di essere di nuovo sufficientemente in forze da tornare lo spietato carnivoro che era; mentre il pettirosso sugli alberi emette il suo canto melodioso, ettolitri di acqua vengono risucchiati dalle torbiere, permettendo a un tesoro di riemergere dal buio cupo delle Ere. Quel tipo di acquitrino, particolarmente tipico del continente nordamericano, in cui freddo e moto lento delle acque cooperano per creare un ambiente acido e limoso, in cui soltanto alcuni batteri e piante possono permettersi prosperare. Il che è fantastico per i contadini, che più di ogni altra cosa, aspirano alla purezza incontaminata delle proprie preziose messi, auspicabilmente impervie alle erbacce e ai bruchi predatori. Che fortuna! Dico questo, perché tra il vasto erbario locale, persiste da tempo immemore un particolare frutto, che non è una bacca nonostante le apparenze, la cui prerogativa principale è proprio il vivere felicemente sotto l’acqua che ristagna per l’intero inverno. È il cranberry (Vaccinium oxycoccos) altrimenti detto, per analogia genetica, mirtillo rosso americano. Oppure “Quella cosa con cui fai la salsa che poi metti nel tacchino degli amati Padri Fondatori” un punto fermo della Festa del Ringraziamento e del Natale, paragonabile per diffusione stagionale ad un’alimento come i nostri panettone o torrone. Il che pone, molto chiaramente, l’ora del raccolto non adesso ma in autunno. Quando finalmente, la mano sapiente del contadino ricoprirà di nuovo l’acquitrino di una rinnovata marea, tale da nascondere le piante per il tempo di qualche lungo minuto. Prima che il passaggio di un trattore, con le sue pale spietate, le separi dal loro dono “spontaneo” per l’intera umanità.
La produzione industriale dei mirtilli su larga scala è un’attività che non appartiene in modo particolare alle nostre terre, e benché la coltivazione della varietà nera (Vaccinium myrtillus) sia attestata, soprattutto sui monti del Centro e del Nord, nell’ora della raccolta ci si limita ad assumere un numero sufficiente di braccia, per coglierli uno ad uno esattamente come fossero dei pomodori. Mentre negli Stati Uniti d’America, luogo d’origine del vermiglio ossicocco, esiste un intero business plurisecolare dedicato a questa pianta, che attraverso numerosi esperimenti e qualche errore, è giunto alla codifica di un chiaro rituale delle stagioni, attraverso cui si ottengono due tipi di prodotto: imperfetto, pronto alla lavorazione (per fare succhi o salsa/marmellata) e perfettamente integro, inscatolato e pronto alla vendita nel reparto ortofrutta del supermercato. Forse contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il più importante mercato dei due è il primo citato, poiché il mirtillo rosso mangiato a morsi ha un gusto piuttosto amaro che definire acquisito, sarebbe riduttivo. Chi lo acquista il più delle volte, vuole in effetti usarlo per fare la marmellata in casa. E a questo punto, perché non eliminare questo oneroso passaggio? Gli eventi, dunque, prendono il seguente corso: per tutto il corso dell’estate le piante, scoperte dallo strato protettivo d’acqua per stimolare la crescita con maggior quantità di luce e ossigeno, vengono mantenute umide e protette dal calore tramite l’impiego di sistemi d’irrigazione a getto. Nel corso di tale periodo, vengono noleggiate delle api al fine di impollinare il maggior numero possibile di nuovi virgulti, che assicureranno la continuazione della redditizia venture per ancora il prossimo anno a venire. Quindi, mentre il tasso torna finalmente satollo nel suo rifugio pedemontano, il contadino trascina le pompe idrovore fino alla torbiera e sposta l’interruttore sulla posizione “immettere”. Al che succedono, in rapida sequenza, due cose: le piante spariscono di nuovo e i loro frutti iniziano ferocemente a galleggiare. Questo perché all’interno del mirtillo maturo c’è uno spazio, attorno ai semi, in cui riesce a penetrare l’aria e resta lì dentro intrappolata. Il che significa che i frutti galleggiano, esattamente come innumerevoli boe di segnalazione. E per quelli più recalcitranti, il passaggio del trattore basterà a fare il resto. A questo punto lo spazio viene recintato con dei galleggianti morbidi in materia plastica, costringendo i mirtilli a raccogliersi attorno alla macchina che molto semplicemente, li raccoglierà.