L’antenna che riceveva solo ghiande

Acorn Woodpecker

Gli abitanti di Bear Creek, piccolo comune fra i verdeggianti boschi dell’Alabama, avevano un problema. Da qualche tempo, per motivazioni niente affatto chiare, non gli riusciva di navigare su Internet col proprio cellulare. Niente più Google-are i risultati della partita di Football, hockey, etc…Del più recente fine settimana. Difficoltà notevoli nel caricare le foto di amici dell scuola, sul gruppo Facebook e sui vari blog nominativi del paese. La situazione, ecco, si faceva grave. Nei luoghi rurali, raggiunti da un segnale debole, si finisce per trovarsi legati al ripetitore del proprio gestore telefonico con un sottile filo serpeggiante. Ogni albero, palazzo e orso di passaggio costituiscono un ostacolo da superare, aggirare in qualche modo, al fine di raggiungere gli amati spazi virtuali. Porte o finestre della casa diventano le prese d’aria di un respiro sempre più affannoso, in cerca di quell’ossigeno ristoratore, l’enciclopedica via d’accesso per l’inter-mente digitale. E non c’è niente che sia primario a questo mondo, tranne il desiderio. Così, dovunque spuntano le antenne, empi obelischi acciaiosi, ricolmi d’escrescenze fungoidali e gongolanti, estetica devastazione dei paesaggi naturali. Qualcuno, con ottime intenzioni, cerca di mimetizzarle. Le tinge di verde, costruendole affusolate, come fossero cipressi. Non che questo basti ad ingannare l’occhio umano, ricco di discernimento. Chi mai scambierebbe una di quelle.. “Cose” per un vero albero? Soltanto colui che, ingenuamente, l’avrebbe fatto in ogni caso. Proprio perché, dotato dell’intelligenza del bisogno, guarda il contesto e non le forme. Lo sciocco. Il variopinto, l’operoso e caustico picchio delle ghiande americano (Melanerpes formicivorus) ispiratore, col suo insistente verso, del cartoonoso Picchiarello (alias Woody Woodpecker).
Questa è la storia di un tecnico antennista, con il mandato gestionale di una specifica antenna a microonde, che si recò sul posto, richiamato al suo dovere dalle numerose lamentele ricevute. Che salì sopra la sua scala, trovandosi davanti al favoleggiato attrezzo telematico, stranamente inefficace. E lo aprì!

Leggi tutto

Il bruco che squittisce quando disturbato

Usutabiga

Il grido d’imbarazzo della giovane larva di Rhodinia fugax, la falena pelosa del Giappone, risuona del pathos dell’effimero e del senso dell’impermanenza di ogni cosa. Lei era lì, sul suo ramo, quando quella grezza mano umana si stringeva, con presunzione, sul suo splendido didietro. Un altro tipo di bruco, al suo posto, si sarebbe vendicato con propaggini pilifere urticanti. Non lei. Sottoposta alla molestia delle virginali e candide pudenda, come da prerogativa della sua disarmata specie, si è invece limitata a strofinare le mandibole d’insetto tra di loro, producendo un suono non dissimile da quello di un giocattolo per cani, quando masticato. Facile riesce immaginare quanti gufi affamati, cornacchie avide, batraci famelici e altri esseri carnivori, sottoposti a un tale suono tremebondo, siano scappati, nei secoli, letteralmente a due centimetri, oppure quattro di distanza. Probabilmente, nessuno. Gustando l’agognato pasto, al massimo, si saranno chiesti come mai quel bruco, in particolare, squittisse come un topo. Talvolta, ed è questo il caso, gli strumenti di difesa evolutiva finiscono per trasformarsi in semplice prerogativa ornamentale. La Natura funziona come una corsa agli armamenti. Mossa e contromossa, preda e predatore, lascia che ciascuno sviluppi gli strumenti adatti a prosperare, a discapito di altri. E il suono emesso da quel bruco, dal punto di vista della sopravvivenza, oggi ci pare così fine a se stesso. Se non per un fatto, in particolare: quello di renderlo assolutamente adorabile. Tutto considerato, niente affatto un brutto affare! Negli stretti di Shimonoseki c’è una tipologia di granchi, gli heikegani, che secondo una leggenda sarebbero la reincarnazione dei samurai sconfitti di un antico clan. Sul loro ventre, a guardarli, si può scorgere l’immagine di un volto. Si dice che quelli che ne hanno uno più marcato, vivido e somigliante, vengano risparmiati dai pescatori, come forma di rispetto per la Storia. Nell’epoca moderna, affascinare gli uomini può bastare per giungere, tutti interi, al giorno dell’accoppiamento.

Leggi tutto

Il microscopio fatto in casa con l’iPhone

Microphone

Sembra quasi di toccarlo, questo canticchiante, danzante brulichìo. Nel nuovo video di kmyoshino ci viene mostrato un possibile uso alternativo per il nostro cellulare, basato sull’apporto funzionale di una lastra di compensato, due riquadri di plexiglass, qualche bullone, una torcia e una lucetta laser di poco prezzo, sacrificabile all’occorrenza. O per meglio dire, alla SCIENZA. Perché l’obiettivo, come da titolo del post, è quello di creare un microscopio del tutto utile allo scopo, non potentissimo, forse, ma sufficiente per individuare gli ammalianti abitatori del favoloso brodo primordiale, queste amabili amebe, protisti e protozoi, che felicemente nuotano nell’acqua stagnante dei giardini, nei bicchieri lasciati incustoditi e qualche volta anche fra le stesse pieghe di un organismo multicellulare. Come noi, gli umani, per l’appunto. Colonie, città semoventi su due torreggianti gambe, questo siamo. A ben pensarci. E purché si abbia voglia di osservare l’infinitamente piccolo, prosaica controparte della materia filosoficamente pura, di polvere galattica o idrogeno stellare, si riscopre questo mondo strano, quasi una dimensione parallela, per quanto pare distante dal nostro ingombrante quotidiano. Di bestie o bestioline, zampettanti, rapide, operose, simili a pesci o formiche. Basta, guardare sempre più lontano! Bambini entusiasti, da che la tecnologia ha pervaso la moderna società urbanizzata, puntano i loro rudimentali telescopi verso i pianeti di questo sistema, le nebulose multiformi e gli astri più lontani, oltre il barlume un po’ incolore della monotona Alpha Centauri. Se costoro, prima di annoiarsi, fossero stati forniti di un più costoso microscopio e instradati in quell’altra direzione, dell’osservatore di materia vivida, piuttosto che di ammassi stellari stolidi e indolenti, forse ne avrebbero tratto maggiore giovamento. E noi con loro, benedetta micro-biologia. Questa soluzione, dunque, pare davvero a buon mercato. Con poco più di 10 euro, puntatore incluso, si può costruire uno strumento d’osservazione in grado d’ingrandire 175 volte, abbastanza per individuare il nucleo di una cellula vegetale. Avendo pure la possibilità, non da poco, di scattare foto o realizzare un video del soggetto. A patto di disporre già dello smartphone pronto all’uso (altrimenti, è ovvio, il prezzo lieviterebbe meglio di una cellula eucariota).

Leggi tutto

Fuga dal dedalo di Gottlob Leidenfrost

Leidenfrost maze

Restava una porta, mancava l’uscita. E ogni giorno sparivano i topi. 10 ce n’erano, poi ne rimasero nove. L’eterno dilemma dei camici bianchi: non si può mettere la bestia in un labirinto, aspettandosi che ogni volta ritrovi la via. Sinistra, sinistra, destra, sinistra, destra e dopo? Sono imperfetti, gli esseri viventi, cedono e smettono di affannarsi, troppo stanchi per cercare il formaggio… Oppure: succede qualcosa. Persino i gladiatori del Colosseo, un bel giorno potevano guadagnarsi la libertà. E dopo 1.000 volte, se i Pianeti si allineano, quando risplendono Stelle diverse, il topo può diventare. Acqua, che corre veloce, verso. Fuori! La scienza, come diceva il chimico più famoso della città di Albuquerque (che tutti, per presunte ragioni di privacy, usavano chiamare Heisenberg) è lo studio del cambiamento. Quindi, se vari l’ordine degli addendi, purché rimanga il conflitto, tutto tende a allo stato di quiete. Quando Gandalf evocò gli acquosi cavalli del fiume di Granburrone, turbinante Rombirivo, questi erano nove, tanti quanti le belve cavalcate dai malvagi, spettrali aggressori. Ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. Così potrebbe esser nato, fantasia permettendo, questo dedalo enorme, l’occulto Labirinto di Leidenfrost, basato sull’omonimo, imprescindibile principio della dinamica dei fluidi, che a comando si scatena, previo riscaldamento di un’adeguata superficie d’appoggio. Stiamo parlando, come da video allegato, di un esperimento realmente messo in pratica da Carmen Cheng e Matthew Guy, studenti dell’Università di Bath. Che va visto, per essere creduto. 1,2,3…9… Gocce, una per ciascun topo, gettate sul primo pannello, invitate, anzi no, costrette, a correre verso l’uscita. Eccome, se andavano! Più sicure, veloci che mai. Altro non sarebbe, questo prodigio, che l’applicazione di un fenomeno facilmente osservabile anche da noi, uomini della strada. Quello secondo cui, quando si riversa un liquido sopra un solido MOLTO al di sopra della sua temperatura di ebollizione, questo non evapora completamente, bensì solo in parte. E il gas che ne deriva, intrappolato sotto la goccia residua, gli fa da cuscinetto protettivo, rendendola, per così dire, sguisciante. Fu confermato, come principio, tramite gli esperimenti del fisico tedesco Johann Gottlob Leidenfrost. Da quel giorno, ci assilla. L’avrete probabilmente notato, facendo bollire un uovo, nel formarsi di piccole perle bizzose, goccioline d’acqua che scivolano, libere, per tutta la vostra padella. Però, qui si fa scienza: a noi, solo questo non ci sarebbe bastato.

Leggi tutto