La ragazza con un pescegatto nella gamba

Catfish girl

Quel tipico momento, in una giornata d’estate un po’ noiosa, quando trovi un animale morto sulla spiaggia e lo usi per passare il tempo con la tua migliore amica. È un gioco da ragazze, nulla più. Nessuna raccoglierebbe con le proprie mani una creatura potenzialmente pericolosa! Nessuna lo userebbe come uno scudiscio sul sedere!  Nessuna prenderebbe quella cosa maleodorante, facendola roteare sulla sabbia granulosa, prendendo attentamente la mira e…Il fatto è questo. Un cane di grosse dimensioni può anche incutere timore, specie quando non conosci la sua Razza (dicono che alcune siano velenose); per non parlare della Manta, che fluttua incombente tra le acque ombrose dell’Oceano sconfinato. Mentre un gatto, come bestia, è sempre facile da accarezzare. Ispira simpatia, persino nella sua versione senza scaglie, né peli, con due soli e lunghi baffi tubolari. Come un pesce, il pesce soprattutto, l’arma imprevedibile ed involontaria di un guerra tra la gioia e la natura.
Questo video, risalente al 2012, è stato probabilmente girato tra l’arcipelago delle Florida Keys ed il Golfo del Messico, gli unici luoghi al mondo dove al tempo stesso: A- Vive l’Ariopsis felis, o pescegatto testadura e B- Vengono i giovani in vacanza. Dando luogo a potenziali situazioni come questa, davvero complicata da potare a un gradevole coronamento. Perché non è tutto un gioco, questo. Nossignore, mio capitano. E lei non sta fingendo: è alquanto difficile, una volta che ci si ritrova a tiro del vendicativo siluroide ormai defunto, uscirne senza almeno una sgradita cicatrice. Molti pescigatto posseggono infatti, in corrispondenza delle pinne dorsali e pettorali, lunghe spine ricoperte di muco velenoso, in grado di bucare facilmente anche la suola di una comune scarpa da ginnastica. Figuriamoci, dunque, la sottile quanto dolorosa scorza della pelle umana. Già la rimozione del solo aculeo, in situazioni analoghe, richiede quasi sempre l’intervento di personale medico specializzato. Per non parlare poi della necessità di contrastare il rischio d’infezione, sempre in agguato, visti gli ambienti del basso fondale in cui amano ruzzare questi amichevoli spazzini.
È interessante notare come l’atmosfera divertita della scena cambi tono gradualmente. Per prima, a salvare la giornata ci prova l’amica e causa del problema. “Caspita!” Paiono pensare tutti: “Com’è possibile che il pesce non si stacchi dalla gamba” Ma tira e rigira, nulla viene via. Allora giungono due astanti di genere maschile, apparentemente esterni al gruppo, che si posizionano attentamente per avere un quadro chiaro della scena. Uno fa le foto col telefonino, l’altro regge il pesce e se la ride. Lei, la ragazza, sembra prenderla con stoicismo e notevole filosofia.
È possibile, in effetti, che sia ancora sostenuta dall’adrenalina in circolo nel sangue, non riuscendo ancora a concepire l’entità del “breve” inconveniente. Verso la fine dei 3 minuti e 39 secondi, finalmente si adagia cautamente al suolo; fiduciosa nel concetto per il quale se due menti sono meglio di una, allora dieci, venti sono ancora più efficaci. Allora inizia la consultazione…

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La pesca miracolosa dei piranha

Piranha Girl

È chiaramente molto furba la ragazza sudamericana, dotata di un singolo trancio di carne un po’ malmessa, che riesca a trarne un tale ricco e portentoso nutrimento. E abboccano i bocconi, l’uno dopo l’altro, neanche lei gli avesse offerto del prosciutto prelibato. Non uno, né due pesci, ma un’intera bacinella quasi straripante, così trasformata nella pentola di un’esultante festa di paese. Vociano i bambini: dopo quella mattinata, sarà ricca la padella di un gustoso pomeriggio di..Fritture? Era forse la sagra del piranha, lungo il corso del Rio delle Amazzoni o dell’Orinoco? Chi può dirlo. Possiamo soltanto assistere al rastrellamento, basiti. Certamente, non piccati. Giacché l’immagine di questo pesce prognato e vagamente rosseggiante, lungi dall’essere tenuta in alta considerazione dagli animalisti, evoca le persuasioni di una terribile voracità. Tutti temono e detestano quel demone minuto, forse anche maggiormente che lo squalo, o il barracuda. Esiste una vecchia tradizione brasiliana, ormai desueta, secondo la quale per ciascuna mandria di bestiame andava sempre designato un capo particolarmente debole, vecchio e sacrificabile, detto il “Boi de piranha”. Al momento di attraversare un corso d’acqua, dunque, si sarebbe uccisa la povera bestia, per poi gettarla tra gli affioramenti d’alghe, come un richiamo irresistibile da sgranocchiare. Ben sperando che la sua carne tenera bastasse, anche quella volta, per saziare le furie sommerse con le pinne e i denti acuminati. Solo così, si diceva, ci si sarebbe garantiti un passaggio sicuro per il resto degli armenti o i propri familiari. A tal punto si temeva il concetto di un tale pesce invisibile e sempre in agguato, che esso era diventato come un dio del fiume, da placare con offerte o preghiere degne della sua famelica maestà.
Il piranha comune, appartenente al genere dei Pygocentrus, misura tra i 15 e i 25 cm. Quelli catturati dalla ragazza, visto l’evidente quanto riconoscibile ventre rosso, erano assai probabilmente della specie P. Nattereri, diffusa praticamente in tutto il Sudamerica. Questi pesci sono noti per la maniera caratteristica in cui fanno la guardia alle proprie uova, assicurate saldamente ai fusti delle piante acquatiche in affioramento. Il maschio e la femmina pattugliano i dintorni in coppia, tenendosi strettamente a contatto, con le schiene rivolte verso l’esterno. In questo modo nessun predatore  in cerca di uno spuntino potrà sfuggire ai loro attenti sguardi. Chissà quante amabili famigliole saranno andate distrutte, per un piccolo piacere transitorio!

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La musica inquietante dei pianeti

Sounds of Space

Giove il forte, il grande, il rosso. Urano che soffia la sua furia tenebrosa. Un tintinnar d’anelli attorno al vorticante Saturno. “Nello spazio non esiste alcun tipo di rumore” è uno di quegli assoluti che provengono da una suprema forma di superbia. Che l’orecchio umano, grazie alla sua particolare conformazione, possa trasformare le oscillazioni dell’aria in percezione sensoriale è cosa molto nota. Come acclarato è del resto il fatto che in assenza di un medium gassoso significativo tale procedura sia del tutto irrealizzabile. A discapito di innumerevoli scene cinematografiche di fantascienza, con roboanti esplosioni giusto sui confini delle stelle. Immaginatevi dunque la sorpresa dei presenti ad una conferenza stampa della Nasa, nel settembre del 2013, quando l’astrofisico Don Gurnett, analista dei dati provenienti dalla sonda Voyager 1 disse: “Ho udito il suono dello spazio interstellare.” Com’era, dunque? Magnifico e terribile, stupendo, affascinante, fantastico e infernale. Come l’acuto di un’espressione matematica o il colore di una complicata musica spaziale. 37 anni erano passati, dal giorno in cui era stato posto in essere il presupposto necessario a registrarlo. E c’è un termine per definire il procedimento usato nello studio – Sinestesia: l’incapacità, talvolta desiderabile, di distinguere tra i contrapposti input sensoriali, vivendo la propria vita in uno stato di costante confusione. Si tratta di una condizione neurologica reale, che si verifica in determinati e rari casi. Ma la quale fondamentalmente si ritrova, come metodo di presentazione dei dati, a più livelli dell’ambito scientifico. Qui, assai probabilmente, era l’unica possibile analogia. Perché gli uomini non percepiscono le emissioni radio né le micro-onde ma questo non significa, a conti fatti, che non possano desiderare di conoscerle. Ad esempio, tramite l’apporto di una forma tecnologica di sperimentazione, ovvero quella sonda spaziale da 722 Kg, lanciata via lontano nel 1977, con tutta la forza della nostra collettiva civiltà. La Voyager, carica di valide testimonianze in merito alla propria razza genitrice: musica ed immagini, discorsi di politici e scienziati. Nonché registrazioni di cose ineffabili e preziose, quali il suono del mare, il canto delle balene, il pianto di un neonato, altre sentimentali inezie; ed oltre a queste, giacché l’incontro con una benevola coscienza aliena resta sempre una speranza assai remota, gli apparecchi dell’artificiale percezione. Tra cui due lunghe antenne, i direttori di questa sublime orchestra virtuale.

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La mostruosa cavalletta dei Māori

Weta

È sangue quello? Per niente infastidita, la qui presente ricercatrice ci dimostra gli effetti della rabbia di uno strano essere senz’ali. Giallo e nero, saldamente tenuto in posizione, l’artropode infernale parrebbe in linea con l’aspetto di un pericoloso mostro xenomorfo del film Alien. Anche perché, proprio come quest’ultimo, oltre a mordere, rilascia della copiosa saliva rossiccia, la sua secrezione di riconoscimento. O pre-digerimento?! Difficile immaginarsi al posto di una mano tanto sfortunata: la passione per la scienza, come l’amore, non ha altri occhi se non quelli della mente. Però tutti, se davvero ne hanno voglia, trovano l’animale domestico dei propri sogni di bambino…
I weta, che prendono il nome da una parola invariabile della lingua māori, sono grandi all’incirca quanto un cucciolo di chihuahueño. Ma definirli in questi termini, in effetti, non gli rende davvero giustizia. Giacché il cane messicano per eccellenza, tozzo e compatto, è il più piccolo rappresentante della sua specie. Mentre gli insetti in questione, parenti prossimi della cavalletta verde o del grillo talpa, sono mastodontici e mostruosi, corazzati, spiniformi e battaglieri. Per secoli padroni delle proprie isole a largo della costa neozelandese, tra cui le Mercury o le Poor Knight’s, sono cresciuti a dismisura, privi di nemici naturali, fino ad estendere il proprio areale lungo le propaggini del continente. Caso limite: il weta gigante, il cui nome scientifico Deinacrida significa in greco “cavalletta terribile”, può pesare fino a 35 grammi ed ha una lunghezza massima di 10 cm, antenne e zampe escluse. È più grande e pesante di un comune passero europeo – ma vegetariano ed altrettanto inoffensivo. Almeno in teoria.
Oggi suddivisi nelle due famiglie AnostostomatidaeRhaphidophoridae, questi graziosi  esseri occupano una vasta varietà di ambienti, tra cui foreste, caverne o le alte colline del Rock and Pillar Range vicino Dunedin, nell’Isola del Sud. In tale luogo ventoso, che in inverno può scendere fino a i -10 gradi Celsius, l’Hemideina maori sopravvive grazie a un espediente assai particolare. La sua emolinfa, il fluido che circola nell’organismo, è arricchita di una particolare proteina, che funzionando da anti-gelo gli impedisce di ghiacciarsi. Sono molte le soluzioni per essere lasciati in pace… Ma non tutti i weta sono tanto rustici e solitari. Non è infatti insolito, tra gli ambienti urbani di Auckland o Takapuna, di incontrare un parente prossimo di quel montanaro che si aggira tra le case nella notte, in cerca di rifiuti da addentare con le possenti ganasce masticatrici. Una famigliola di tali creature se lasciata prosperare, come tutti gli altri insetti,  può ben presto aumentare di numero a dismisura. La loro tana simile ad un tunnel, scavata nel tronco degli alberi o di un legno messo appositamente nel giardino, viene definita un weta motel e può contenere fino a 10 femmine oltre a un maschio, sempre ben disposto a riprodursi. Questi mostriciattoli non sono velenosi  né pericolosi per l’uomo. Benché se messi alle strette, in caso di necessità, siano in grado di difendersi. Persino dal gatto,  l’arcinoto terrore di tutte le cose più piccole di lui. Come mostrato nel seguente video…

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