A caccia di fantasmi nella vecchia villa vittoriana

Creepy Mansion

Un tetto aguzzo in mezzo alla campagna, con finestre alle mansarde ed un comignolo merlato. Se c’è un luogo che possa ricordare maggiormente il tipico ambiente di avventure spaventose, come il fantastico ed orribile viaggio del primo Resident Evil, o l’iconica bicocca degli Addams, non saprei descriverlo così, su due piedi. L’esplorazione urbana è quella pratica, ultimamente sempre più di moda, per cui si cerca su Internet o dalle conoscenze sul campo un luogo derelitto e in qualche modo decaduto. Edifici abbandonati, luoghi pubblici dismessi, abitazioni rovinate dall’effetto degli ambienti atmosferici o il semplice passar del tempo. Per poi varcare quella soglia, telecamera alla mano, e documentarne il contenuto a beneficio di…Chicchessia. Attività questa, talvolta pericolosa e quasi sempre abusiva, che conduce a un ricco ventaglio di scoperte, sul chi fossero i nostri antenati più recenti, come vivessero, qual’erano le loro preferenze in materia di tappezzeria. C’è ben poco che la muffa, o qualche morso di topo, possano nascondere a chi ha voglia di creare un corpus documentaristico sulle risorse storiche di un luogo. O a tutti gli altri che, come parrebbe qui configurarsi l’opera del noto filmmaker Dan Bell, desiderano più che altro dare il proprio contributo a un’aura di leggenda latente, che permea tali e tante trasandate mura. Già, metterci paura. Una missione non facile, considerato il modo in cui veniamo bombardati quotidianamente da racconti horror nei formati più diversi, oltre al taglio dei moderni reality ed altri programmi, inclusi taluni telegiornali. Preoccupati che “non cogliessimo le implicazioni del messaggio” i produttori mediatici più diversi hanno ormai sviluppato metodi per trasferire i sentimenti lungo le onde elettromagnetiche, inducendoci all’immedesimazione in personaggi che dovrebbero rappresentare le nostre pulsioni maggiormente basiche, scevre di cognizioni precedentemente apprese. Così, il terrore che si riceve a distanza, che sia reale o meno, non è mai silenzioso né interiorizzato, ma fatto di una cascata di descrizioni, parole enfatiche, improbabili montature. È andato perso il gusto della sobrietà.
Ed è in ciò che colpisce, soprattutto, il nuovo video di questo YouTuber da quasi 20.000 sottoscrizioni in continua crescita, che pur scegliendo la strada del sensazionalismo e qualche forzato espediente narrativo, riesce a creare 15 minuti di scoperte preoccupanti, nel contesto di un viaggio esplorativo tra i residui di un’epoca ormai (per fortuna?) trascorsa. Di sicuro, molto del fascino della sequenza deriva dalla location scelta per l’operazione, lasciata rigorosamente segreta, come si confà nell’opera di chi, come lui, s’introduce in luoghi non propriamente aperti al pubblico. La grande casa, perché di ciò si tratta in questo caso, viene descritta dal protagonista/cameraman come “Un ex-manicomio per bambini affittato ad una qualche altra organizzazione negli anni ’90, poi abbandonato almeno a partire dal 2000”. E inevitabilmente viene posta l’enfasi su quel primo capitolo della sua storia, descritta unicamente in questi sommi capi, benché nel corso dell’intero sopralluogo non vengano mostrati altri oggetti o suppellettili rimasti da quel triste impiego, tranne che una singola sedia con cinghie arancioni. Mentre la qualità delle rifiniture architettoniche, la grande scala in legno, i camini decorati con maioliche e le variopinte vetrate fanno piuttosto pensare ad un luogo molto amato, come la seconda casa di una famiglia dalle alte disponibilità economiche, soltanto poi adibita a un qualche tipo di uso pubblico, capitolo comunque dimostrato dalla presenza di segnaletica di divieto e indicazioni varie a parete. La scritta sopra la porta d’ingresso principale, in particolare, che recita in lettere dallo stile latino: “God’s Providence Is Mine Inheritance” (La Divina Provvidenza è la mia eredità) era la firma dell’architetto londinese Ewan Christian (1814–95) che non fu mai operativo negli Stati Uniti, ma la cui residenza personale di Hampstead, costruita nel 1882 e nota con il nome di Thwaitehead, presentava più di un punto di contatto con la misteriosa villa qui rappresentata. L’architettura Vittoriana, dopo tutto, ancora prima che uno stile attentamente definita fu una moda, portata in auge dalla crescente disponibilità ed economia di certi materiali e metodi, un tempo appannaggio esclusivo di chi avesse pure 20 o 30 servitori. Nel Nuovo Continente, in particolare, se ne diffuse tra il 1870 e il 1910 una versione più pragmatica, definita Folk Victorian, in cui le torrette erano meno pronunciate, gli abbaìni non del tutto esuberanti e il complessivo equilibrio delle forme, concepito per assomigliare meno ad un mini-castello o cattedrale. Ciononostante, qui permangono determinati elementi che avvicinano la struttura alla variante più estrema dello stile Queen Anne, influenzato dal Barocco rivisitato dell’architetto Richard Norman Shaw (1837–1901). Ma quanti luoghi magnifici da conoscere, si nascondono dietro una facciata di altre epoche, sporca e cadente? E allo stesso modo, innumerevoli sono i video che vanno perduti sul web, per la mancanza di un titolo o uno stile dialettico in grado di suscitare l’interesse collettivo. Ritorniamo, dunque, alla questione delle strane presenze…

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L’uomo che ronzava sottovoce agli alveari

JPthebeeman

Video pregni, scene molto significative. Il ciclo dei momenti in cui la sapienza tecnica fa molta differenza, e solo aver sperimentato prima quella cosa, in cento e più occasioni, può permetterti di giungere a risoluzione del problema. Momenti che restano in piena evidenza, sopra il catalogo spropositato di YouTube, per essere citati a più riprese, ogniqualvolta l’argomento sembri significativo. Finché diventano leggenda. Ed a quel punto si dimentica, è uno strano paradosso, il nome di colui che fa l’impresa: chi è JP the Bee Man? Chi è che osa manipolare le api senza tuta, guanti o altre protezioni? Cosa fa muovere l’autore e protagonista di alcuni grandi classici del web, come “Sciame che infesta l’auto nel parcheggio” oppure, “L’alveare incastrato nel doppio muro di mattoni”? Sequenze famose non soltanto perché mostrano un qualcosa che non vedi certamente tutti i giorni (a meno che non sia tu stesso un apicultore) ma per la serie d’importanti informazioni elargite, con il suo consueto tono pacatamente entusiasta, del più celebre 50% del duomvirato dei Bickering Beekepers, formato da lui Jeff Armstrong “JP”, di Metairie Louisiana, e Bruce Scharwath detto Schawee, occasionale mano dietro la telecamera nonché socio in affari a partire dal 2010. Perché fare una cosa simile, portarsi via le api, non è dev’essere necessariamente traumatico, per il disinfestatore, per il proprietario, oppure per le api. Tutto ciò che serve è la conoscenza dell’approccio giusto, la non violenza che contagia addirittura loro, ospiti indesiderate ed altrettanto inconsapevoli di ciò che può accadere.
Come esempio del modus operandi di questo grande accaparratore di cose ronzanti, potrebbe tornare utile in modo particolare questo intervento del febbraio del 2014, in cui le condizioni d’illuminazione pressoché ideale, nonché la totale solitudine e il silenzio, permisero a JP di spiegare in modo particolarmente esaustivo ciascuno dei passaggi compiuti, offrendo la chiave per trovarli e comprenderli nei suoi numerosi video precedenti e successivi. Si trattava, tra l’altro, di un caso piuttosto atipico, in cui un’intero sciame in corso di migrazione, ben prima di aver trovato un punto in cui stabilirsi definitivamente, si era fermato a riposarsi temporaneamente in un grande copertone da camion, abbandonato in una zona forestale presso il fiume Mississipi. Qui dunque, lasciate a loro stesse, le api avevano iniziato ad apprezzare l’ombra e l’apparente tranquillità locale, iniziando a costruire il favo, in luogo troppo basso e alla portata di uccelli ed altri predatori. Finché qualcuno, forse un agricoltore locale, oppure un escursionista che passava di lì, non ha fatto girar la voce tra i locali, finché la presenza delle eterne impollinatrici non è giunta fino all’orecchio di chi aveva in loro un interesse, per così dire, particolare. Il prezzo di un alveare completo, o come potremmo definirlo noi esterni del settore: “la piccola fabbrica del miele” può infatti aggirarsi tra i 150-250 dollari, per non parlare della rendita difficilmente calcolabile che detta comunità potrà fornire al suo padrone nel corso di settimane, mesi ed anni. A differenza di qualsiasi altro animale che fa produzione, come galline, mucche o maiali, le api sono operative 24 ore su 24, non hanno il problema della gioventù o della vecchiaia, non richiedono le cure di un veterinario. Semplicemente lavorano in eterno, oppure, come purtroppo sta accadendo sempre più di frequente negli ultimi tempi, si ammalano tutte assieme e cessano di assolvere al fondamentale compito dell’impollinazione. Un motivo questo, se vogliamo, di essere ancor più veementi nella loro ricerca, e salvare quante più comunità possibili, perché un giorno potrebbero essere l’ultima speranza di sopravvivenza dell’intera biosfera terrestre.

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La grande danza delle goccioline colorate

Dancing Droplets

È una scena così tipica ed al tempo stesso, dannatamente affascinante: il ricercatore dottorato all’Università di Stanford, posto sotto la supervisione di un assistente di bioingegneria, che scruta attentamente dentro a un microscopio nel laboratorio. Alla ricerca di… Correlazioni, punti d’interesse, loci e nessi significativi. Siamo nel 2009. Ma mentre aumenta la concentrazione, ad un tratto, costui si rende conto di qualcosa. Un fatto chiaro e lampante, da tempo immemore sotto gli occhi di ciascuno, ma che tuttavia nessuno, almeno a quanto gli è dato di sapere, si è mai dato la briga di commentare. Né soprattutto studiare e/o pubblicare, fatto ancor più interessante dal suo punto di vista. Così alza gli occhi, si guarda intorno, e mentre aspetta di rimettere a fuoco il mondo delle cose in proporzione, improvvisamente esclama: “Prof, le gocce sembrano vive!” Ed è tutta una questione di contesto. Perché dal punto di vista dell’uomo della strada, una simile affermazione poteva essere soltanto interpretata come la battuta di un’ubriaco, o al limite, l’osservazione di un qualcosa di ovvio e rinomato. Ma basta mettere quattro, cinque lacrime sopra una superficie liscia e non permeabile, per rendersi conto che non è esattamente così. A meno che detto piano di lavoro sia il metallo di una padella, riscaldata al di sopra del punto di ebollizione, un fluido giace nel suo luogo, grosso modo immobile, finché non transita immancabilmente verso un altro stato di materia. Questa è la dura legge della gravità. Mentre in quel caso specifico, meraviglia della meraviglie, sopra un vetrino privo di caratteristiche particolari, una ventina di puntini s’inseguivano e scostavano l’un l’altro, parevano dei microbi in una coltura di Pasteur. Fenomeno, questo, certamente degno di essere studiato, almeno nell’opinione del supervisore, al punto che l’intero laboratorio, negli ultimi anni, ha dedicato una parte del suo tempo alla risoluzione di questo “mistero”. La cui genesi probabilmente, soprattutto per chi ha la chimica nel sangue e nella mente, era già per sommi capi molto chiara. Ma che del resto, una volta dimostrata, approfondita e reso controllabile, poteva trovare un’applicazione nella costruzione di superconduttore o pannelli solari autopulenti. Per non parlare della cosa più importante: creare una simulazione istantaneamente comprensibile, e attraente, dell’origine stessa della vita sulla Terra.
Il nome dell’istigatore accidentale dello studio, il ricercatore ancora fresco dei suoi studi, è Nate Cira, mentre il suo supervisore di ruolo e capo laboratorio è Manu Prakash, il tipo di scienziato che, come afferma nel suo profilo ufficiale presso il sito dell’università, “lascia che sia l’istinto e la curiosità a guidarlo.” I due hanno quindi ottenuto la partecipazione di un terzo elemento, il giovane collega Adrien Benusiglio. Nel corso dei ritagli di tempo ricavati tra quelli che erano sicuramente studi dalle applicazioni più immediate, i tre hanno impugnato quindi altrettante pipette di precisione, iniziando a mettere alla prova i vari fluidi a disposizione in questo strano e nuovo sport. È importante notare che nell’esperimento originario di Cira, come anche nel video di apertura, ciascuna goccia fosse composta essenzialmente di due tipi di molecole distinte: una parte d’acqua, un’altra di glicole propilenico (1,2-propandiolo) componente basilare di molti coloranti per il cibo, medicinali e disinfettanti. Ed andava rintracciata proprio in questa commistione di elementi, essenzialmente, l’origine della questione. Perché come per l’appunto dicevamo, tutti i fluidi sono soggetti ad evaporazione, ma non tutti allo stesso ritmo. Ciò che succede quindi nella goccia “mista” è che il glicole propilenico tende a scappare via per primo trasformandosi in gas, anche a temperatura ambiente, scegliendo come via di fuga la parte bassa della goccia, dove le pareti sono più sottili. Mentre l’acqua, in conseguenza di tale tendenza, pur mantenendo un peso superiore, si ritrova in alto, generando turbolenze non indifferenti. Questo, quindi, causa il movimento. Ma non spiega la questione ancor più affascinante: perché le gocce sembrano, letteralmente, cercarsi tra di loro, o in altri casi paiono respingersi a vicenda?

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Come prendere le vongole-rasoio americane

Long Beach Clams

Nascere come mollusco bivalve può sembrare la peggiore delle reincarnazioni punitive, ma la realtà è che la vita, persino come un semplice organismo privo di cervello propriamente detto, può riservare innumerevoli soddisfazioni. Simili creature, nascoste sotto la sabbia,  davvero conoscono il significato del termine RELAX. Sostanzialmente immote per definizione, allo scopo di nutrirsi non devono far altro che filtrare l’acqua, usando le loro branchie lamellari per intrappolare, e lentamente digerire, ogni sorta di pregevole micro-organismo. Impervie a tutti i predatori naturali, proprio in funzione della loro residenza prevalentemente sotterranea, sono dotate di un mantello (il “corpo” dei molluschi) lungo e flessibile, usato come un periscopio per sperimentare il mondo. Con esso scavano, fino alla superficie, praticando il foro di cui hanno bisogno per l’ossigeno ed il nutrimento. E se pure un gabbiano, con la bassa marea, oppure un pesce dei fondali bassi, nelle ore di totale copertura acquatica, dovesse ghermirne la preziosa estremità, poco importa: tutto quel che serve è un paio d’ore, affinché il suo padrone da guscio sottile e tagliente la rigeneri al 100%. Ben pochi sono i rischi che competono a vongole, ostriche o cozze, quella vasta classe di animali (oltre 9.200 specie) a cui gli americani attribuiscono il nome generico di clams. Anzi, essenzialmente ne permane solo uno, quello per così dire endemico di ogni cosa che tutt’ora abbia la superbia di camminare, strisciare o nuotare su questo pianeta. È il pericolo del buon sapore.
E chiunque abbia mai avuto la fortuna di assaggiare quel gusto unico, etereo e pungente, che tuttavia non ha nulla dell’acredine del pesce, ma piuttosto pare quasi un fungo morbido, con il sale aggiunto che deriva da generazioni di tranquilla permanenza nell’Oceano, può ben comprendere l’impresa del qui presente capitano Milt Gudgell, uomo di mare complete and thorough, che si avventura la mattina presto sulle coste della penisola di Long Beach. Non quella sicuramente più celebre, presso la città di New York, né l’altra sita in California, ma l’omonima striscia di terra sita nello stato di Washington, subito sotto il freddo Canada e non troppo distante da Portland, la città più popolosa dell’Oregon. Vedere l’esperto all’opera è davvero affascinante: l’abile pescatore di mitili, armato di un attrezzo poco visto fuori dagli Stati Uniti, percorre la spiaggia in lungo e in largo, in cerca di quello che viene definito normalmente un “tell” ovvero un qualche indizio, il segno dell’adorabile presenza sotterranea. Due sono i sensi coinvolti, ovvero la vista, perché recandosi subito dopo l’alta marea, in genere, si evita il problema della terra smossa dagli altrui passi,  avendo quindi la possibilità d’individuare facilmente i tipici buchini, ed il tatto, la capacità di percepire, battendo forte con i piedi, l’esistenza di un vuoto sotterraneo, generalmente causato dai piccoli ma laboriosi scavatori. Individuata, quindi, la presenza di una vongola, si passa al punto critico dell’operazione. Una clam gun, sostanzialmente, è un dispositivo portatile di carotaggio, che può essere realizzato in plastica se si tratta di un modello economico, oppure, come in questo caso metallo. L’operatore dovrà piantarlo in corrispondenza del punto in cui si ritiene di aver individuato il mitile, quindi spingerlo in profondità. Per un effetto naturale di suzione, la sabbia così catturata verrà fuori assieme allo strumento e, almeno si spera, la propria preda di giornata. L’impiego di un simile attrezzo non è particolarmente semplice, innanzi tutto per la posizione in cui si deve lavorare e il peso della quantità di materiale rimosso ad ogni singola estrazione. Ma soprattutto, c’è il problema della precisione: più di una vongola è stata rovinata, dall’impatto con il bordo tagliente dell’attrezzo, ancora prima che fosse possibile condirla con il burro e metterla in padella. Proprio questa, forse, la più spiacevole ingiustizia che possa derivare dal suo sacrificio. Il capitano, proprio per evitare tale infausta conseguenza, risulta fornito del tradizionale tubo in PVC, comunemente inserito nel terreno prima dello scavatore, al fine di determinare la precisa collocazione del mollusco, benché dopo i primi tentativi riesca facilmente a farne a meno. A tal punto conosce la sua spiaggia, e le sue prede, da aver superato una simile ulteriore necessità. Mentre per ogni ottimo ritrovamento, risuona il suo empatico grido di soddisfazione: “AHA!”  Non per niente ad oggi, la cattura commerciale delle vongole-rasoio è consentita solo limitatamente a pochi esemplari per pescatore (Mint parla di 15 al giorno) e richiede una licenza speciale dal costo di qualche centinaio di dollari, concessa in numero rigorosamente limitato. Ma vi siete già chiesti l’origine di questo nome, per così dire, tagliente?

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