Incontro improvvisato con Saturno

Saturn Yeti Dynamics

Che mai succederebbe se il secondo più grande pianeta del sistema solare d’un tratto, stanco di aspettare, lasciasse la sua orbita e corresse qui da noi? Con una massa pari a 95.152 pianeti come la Terra, anelli del diametro di 270.000 chilometri e 150 lune al seguito, semi-nascoste tra le particelle di ghiaccio e i granuli rocciosi che lo avvolgono in un manto. Ebbene, gli dei non viaggiano leggeri. Per newtoniana analogia, siamo abituati ad associare ogni corpo celeste ad un particolare frutto: la mela. Rossa quanto Marte, verde come Venere, oppur marrone caramellato, ben cotto dal calore di un potente Sole – nessuno ha mai pensato, neanche all’origine, che Mercurio fosse zuccheroso. Però tanto più ci allontaniamo dalle orbite nei nostri prossimi dintorni, meno si riscontra una simile (fruttifera) rassomiglianza. La ragione è nell’origine del tutto. All’interno del caos rotante dell’ancestrale nebulosa proto-stellare, improvvisamente compressa da forze senza chiara origine, si formarono dei grumi di materia. Il maggiore fu lui solo, il Sole, l’astro che ci nutre: litioberillio, boro, neon, silicati ed ogni tipo di metallo, tanto densi da innescare una fusione nucleare senza posa, fino al suo remoto esaurimento. Mentre nel contempo l’attuale pianeta azzurro, semplice nota a margine, si formava tra le schiere dei pianeti piccoli, abitabili, tanto strategicamente collocati, rispetto ad una tale fonte di calore, da poter teoricamente dare origine alla vita. Cosa che poi fu, ma questa è tutta un’altra storia. Perché nelle propaggini esterne, si verificò una mezza soluzione, non stellare, ma neanche propriamente planetaria: il gigante gassoso.
Giove, Saturno, Urano, Nettuno non somigliano a dei pomoli. Sono, piuttosto, logotipi di un marchio commerciale; rosso, arancio, azzurro, blu profondo. Hanno strisce che li coprono da un polo all’altro, macule giganti, tempeste roboanti. Colossali e stravaganti quanto i numi che gli danno il nome, sono soprattutto mera apparenza, perché composti di gas liquido o compresso. Non puoi camminare su di loro. Provandoci, cadresti attraverso gli strati esterni della superficie, stritolato da una gravità indicibile, soffocato dal carbonio e dal metano. Poi, verso la mezza profondità, lì rimarresti, come scheletro, per i secoli a venire. Questa è la legge dello spazio: nessuna pietà per gli incauti. Secondo il mito greco e poi romano, Saturno fu l’ultimo dei Titani. Figlio del Cielo e della Terra, assassino dei suoi orribili fratelli, divoratore dei suoi molti figli. Tranne uno: Giove. Colui che la madre Rea, partorendolo di nascosto, portò presso la capra che viveva sopra il monte Ida, nell’isola di Creta, che lo nutrì. Qui egli crebbe indisturbato, forte, intelligente, rabbioso, in cerca di vendetta. Fu da questa situazione che ebbe inizio la più lunga e terribile delle disfide, una guerra al cui confronto i pianeti paiono giocattoli, le lune, dolci caramelle.

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Un labirinto per cani

Dog Food Maze

Per chiunque abbia un labrador. Conosca un levriero. Possegga un boxer, un terrier, un pastore tedesco. Detenga un bassotto e/o il titanico alano: adesso basta abbuffate! Tauromachia, questa è la via. Salite a bordo e saprete la strada.
Atene la grande, la splendida, città sapiente, democratica, barbagliante della luce dei templi. I suoi filosofi misurarono la circonferenza del globo terracqueo mentre, con vele spiegate, triremi solcavano il mare dell’ignoranza. Un bastione d’umane conquiste, all’ombra munifica del Partenone. Ma non fu sempre così. Le nebbie cancellano i mali commessi dagli antenati. Un tempo l’odiato Minosse, signore di cave cretesi, quella città la dominava da fuori, con pugno di ferro e una grave paura. Non per la forza dei comuni soldati, anzi. Tutti temevano l’appetito del suo figliastro esecrato, l’orribile testa-di-Minotauro. Era infatti l’usanza, vera barbarie, che sette figli e sette figlie ateniesi, vestiti di zelo, dovessero partire ogni anno. Per andare a convito del Toro, ma non come ospiti: erano il pasto. Ed a tal punto il pavido Egeo, re dei greci, era disposto ad assecondare il suo antesignano mediterraneo e cornuto, con il suo figlio altrettanto cornuto, che l’orco-demonio aveva un problema: era troppo vorace. Nel giro di un’ora, spolpava i fanciulli, e poi sgranocchiava le vergini, come fossero biscotti per cani. Questa storia è l’origine di un Labirinto. Ce ne furono molti, ma questo è il primo. Vedremo mai l’ultimo? Eccone uno. È un dedalo-bau.
Abbiamo sopportato troppo a lungo la cattiva abitudine del nostro fido animale, ad ingozzarsi, e trangugiare quel pasto che doveva durargli per qualche minuto, almeno. I migliori amici dell’uomo sono così: non assaporano. A lanciargli un boccone, paiono prestigiatori. Forse come retaggio dell’ancestrale stato brado, di quando cacciavano e raccoglievano i pasti, posti di fronte alla ciotola, i cani diventano degli aspirapolveri del croccantino. E questo è un problema, va da se. Ci sono Fido che soffrono di mal di stomaco, persino di depressione, per la cattiva abitudine di cui sopra. Finché non si fanno Teseo, per scelta del proprio padrone.

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I due draghi marini della Baja California

Oarfish

Parola di Giobbe: “Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe.” Che fine ha fatto il signore dei serpenti marini? Al volgere del ciclo dei millenni, la ruota dell’evoluzione batte contro le creature dalle dimensioni troppo grandi. Stridendo annienta i mostri, abrade le altere maestà. Un tale mulino ruota per l’effetto cosmico di venti senza posa, che portano a disperdersi le polveri dei regni decaduti. Guardiamoci intorno, suvvia: non delle poderose proto-scimmie è stata questa Terra, ma degli ominidi che seppero assemblare aratri, frecce o spade. Con mani affusolate, molti neuroni e decisamente meno muscoli o per lo meno: un equilibrio tra le parti. E discendendo ancora in questo abisso di epoche lontane, il tirannosauro venne sorpassato da pidocchi e topolini, giusto mentre il quetzalcoatlus laciava il passo ai passeri di antiche primavere. 100, 1000 per ciascuna impressionante serpe alata. Le moltitudini fameliche, per quanto deboli individualmente, vincono da sempre sui giganti. Questo, ad ogni modo, non  li rende meno spaventosi.
La data è il 7 aprile scorso, il luogo: una non meglio definita località della penisola della Bassa California. Canoe gialle solcano le onde, mentre adulti avventurosi, telecamere alla mano, cercano l’avvistamento più notevole della giornata. Sono i partecipanti a un’escursione naturalistica organizzata dal celebre Shedd Acquarium di Chicago, che li ha portati all’altro capo degli Stati Uniti, insieme a un team di esperti etologi per far da guida. Quella mattina, ancora non sapevano la loro buona sorte. Sull’inizio del video, infatti, la combriccola scorge due ombre sinuose tra le acque basse della costa. Sono lunghe circa cinque metri l’una, hanno una testa affusolata con un vistoso ciuffo rosso, la lunga pinna mobile che gli percorre tutto il dorso. Si tratta di una coppia di rari regalecidae, giunti fino a riva, probabilmente, solamente per morire. Oppure, come da credenza popolare, per l’incipienza di un pesante sisma. Stupida superstizione! Sarà stato solamente un caso, se pochi giorni prima c’era stato il terremoto ad Orange County.

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Pescatore, non mettergli la mano nella bocca…

Monkfish

…Se vuoi riaverla indietro. Fra le acque dei mari del Nord nuota un pesce così mostruoso, tanto cattivo e brutto che mai nessuno, fin dai tempi antichi, aveva pensato di mangiarlo. Sembra un rospo con la bocca di una tartaruga, la coda di aragosta e gli occhi tondi di un tenero cucciolo di foca. Potevano chiamarlo in tanti modi: sgorbio, dragozzo, mozzicatopi oppure sgargamella. Ma siccome la fantasia popolare segue strane vie, l’hanno invece battezzato prete. Anzi, (pesce) monaco, dicesi monkfish. Lo strano ragionamento, a pensarci bene, potrebbe avere un suo perché. A differenza della maggior parte degli esseri marini, infatti, questo mostriciattolo ha entrambi gli occhi nella parte frontale della testa e una protuberanza ossea sopra la bocca, che pare quasi un naso: potrebbe a stento ricordare, quindi, un volto umano. E poi merita rispetto, come un vescovo o cardinale, questo temibile lophius. Pare infatti che la bestia abbia un riflesso inconsulto, praticamente automatico, che la porta a chiudere di scatto le sue forti fauci quando qualcosa, guarda caso, finisce per trovarcisi davanti. Come un pesciolino delle profondità, attratto suo malgrado dagli invitanti filamenti bioluminescenti che spuntano dal dorso del suo divoratore. Oppure, come una mano: questa, per esempio, che appartiene a uno sventurato pescatore russo, trasportato assai lontano dai forti venti del suo mestiere, addirittura presso la splendida regione di Rogaland, nella Norvegia occidentale. Questo luogo, pieno di fiordi, vaste spiagge e isole maestose, può vantare il più basso livello di disoccupazione di tutta l’Europa settentrionale: appena l’1,1%. I suoi musei, le feste di paese e i festival musicali ne fanno una meta preferita dal turismo internazionale. I fondali, ricchi di fauna rara e prelibata, sono altrettanto amati dalle reti a strascico dei pescherecci, che ne traggono tesori da rivendere successivamente, a peso d’oro. Il problema è quando, come dicevamo, in mezzo al bottino ci trovi questo coso qui, il monkfish. Allora chi chiamerai, ghostbuster?

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