Rhex, lo stunt-robot che fa il parkour

Rhex

La gamba umana è un sistema complesso, dotato di quattro muscoli anteriori, due laterali, sette posteriori e 60 ossa differenti, piede incluso. Ci sono, è ovvio, modi più semplici per andare in giro. Basti guardare l’agile e scattante Rhex, robottino esapode prodotto dall’Università della Pennsylvania, mentre fa le capriole, salta da un tavolo all’altro, scala i muretti ed esegue le posizioni tipiche dell’aerobica per scarafaggi. “Nonostante la presa che hanno sulla fantasia popolare, i robot umanoidi stanno tardando ad entrare nella nostra vita” Esordisce così la tesi di presentazione, nominata dal prestigioso ateneo come una delle migliori di quest’anno. Quanto accennato, probabilmente, non avverrà tanto presto. Imitare la natura è difficile, persino per noi, e i meccanismi dell’evoluzione introducono problemi quasi impossibili da risolvere, almeno allo stato tecnologico attuale. Ci sono i progetti, mancano i prodotti. E mentre i robot virtuali volano nello spazio fantastico e scacciano le più diverse mostruosità aliene, questo lontano cugino percorrerà ben presto le regioni più inospitali del pianeta, destreggiandosi con sei emicicli flessibili, in grado di fare presa su ogni tipologia di terreno. L’interessante soluzione, usata come metodo sperimentale finalizzato ad applicazioni successive, nasce grazie alle ricerche tecniche di Aaron Johnson, studente per il PhD e Daniel Koditschek, professore d’ingegneria e sovrintendente del Kod*lab. Il loro dipartimento, dedito alla costruzione di macchine autonome per lo svolgimento di una varietà di mansioni, potrà da oggi contare sul carisma di questo scattante ambasciatore, degno di entrare a pieno diritto nel tortuoso immaginario popolare, più solito all’apprezzamento delle cose graziose, va detto, eppure in grado di provare simpatia per ogni tipo di essere (quasi) vivente. Specie quando, come appare evidente in questo caso, il soggetto in questione dimostra tutta l’adorabile incoscienza di una cavalletta impazzita.

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Ragazza robotica che non combatte mostri giapponesi

Sagawa Mecha

Macchine variabilmente antropomorfe che camminano per strada, sollevano cose, impugnano armi e, più raramente, pensano, saranno un punto fondamentale della società futura, qui da noi ed altrove. Tanto vale entrarci dentro e guidarle in prima persona, come fatto da questa ragazza che, per una pura e semplice coincidenza, indossa la riconoscibile gonna a pieghe delle uniformi scolastiche giapponesi. Nel suo paese il ROBOT, o per meglio dire MECHA, è una creatura popolare che pervade ogni ambito dello scibile e delle discipline artistiche o creative: trova la sua voce sulle pagine dei manga e in televisione, scaturendone rafforzato anche nelle sue declinazioni più materialmente credibili e imminenti. Tanto che, prevedibilmente, alcune delle più grandi compagnie multinazionali d’Oriente, le formidabili zaibatsu, iniziano di questi tempi a costruire i primi esemplari d’homo roboticus realmente funzionanti.
Così nasce l’amichevole, competente, androide Asimo della Honda Motors, un tappo astronauta dall’andatura vagamente pencolante, con già una brillante carriera da bigliettaio nei luna park della Disney. E per non essere da meno, la neonata Sagawa Electronics** irrompe quest’oggi sulle scene digitali con il suo PoweredJacket, l’esoscheletro progettato in modo specifico per la vita urbana e il tragitto casa-scuola. Il video è chiaramente ispirato alle più riuscite dichiarazioni d’intenti delle compagnie del web 2.0, con il prodotto che spicca su fondo bianco, mentre un executive del reparto marketing (“lievemente” sfregiato) si occupa di elencarci con entusiasmo i vantaggi esclusivi dell’offerta – nulla di trascendentale. 14 servomeccanismi in totale, per una capacità di carico massimo delle braccia che si aggira sui 15 Kg. Limitata, oltretutto, a soli 2 Kg causa “ragioni di sicurezza”. Struttura leggera in fibra di carbonio ed alluminio, che riproduce ed amplifica i gesti del pilota. Può correre come un leggiadro ninja e tenere la ciotola del ramen mentre se ne assapora il contenuto. È in grado di sollevare un uovo e quindi di preparare il gustoso tamakake-gohan, un piatto a base di riso, salsa di soia e tuorlo crudo. Potrebbe, secondo lui, risollevare l’economia del paese. Chi dovesse volerne uno farebbe meglio a sbrigarsi: a partire dall’imminente expo del modellismo della regione di Chiba, il Wonderfest, ne saranno messi in prevendita soltanto 5 esemplari, per il trascurabile prezzo di 123.000 dollari l’uno. Le possibilità sono letteralmente infinite; i legittimi interrogativi, di fronte a cotanta follia audio-visiva, anche di più.

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Il robot che prepara i nostri ordini dal web

Kiva

Ogni essere ha delle caratteristiche che lo rendono perfettamente in grado di sopravvivere all’interno del suo ecosistema. E non c’è luogo, in tutto il mondo, che possa dirsi più astruso e difficile da interpretare dei labirintici magazzini di un gigante dell’e-commerce, come l’onnipresente Amazon. La creatura robotica Kiva, un prodotto dell’omonima compagnia americana, è per tali immensi luoghi l’equivalente di un pesce tra i flutti marini, un uccello in mezzo alle nubi o il verme di terra sepolto nel giardino di casa tua. Perfettamente a suo agio, in grado di prosperare e moltiplicarsi verso nuove generazioni, ancor più efficienti e precise. Il suo carapace iridato, simile a quello degli insetti ma di un rassicurante color arancione, occupa al millimetro lo spazio sottostante una qualunque delle innumerevoli scaffalature che gli si parano davanti nel corso di una giornata, permettendogli di andare oltre senza incorrere in fastidiosi rallentamenti. Quattro ruote articolate, una vite che si solleva dal centro del dorso. La usa diligentemente, sollevando in un attimo quello che gli viene richiesto, volta per volta, dai suoi intransigenti padroni umani. Kiva non è dotata di occhi che guardino innanzi, bensì di una telecamera ad infrarossi, eternamente puntata verso il pavimento. Con essa ritrova la retta via, leggendo i criptici codici a barre disposti, ad intervalli regolari, lungo tutta la pavimentazione del magazzino. Per questo non ha nemmeno il bisogno di un cervello che possa dirsi propriamente suo: per ciascuna colonia di robot c’è un solo server, con software particolari, che conosce in ogni momento la posizione dei suoi molti operai meccanizzati, evitandogli ingorghi ed incidenti. Di fronte a quel computer, un singolo impiegato della compagnia. Leggendo quello che deve impacchettare, secondo quanto indicato dal gestionale, preme con tutta calma il tasto corrispondente. Potremmo dire che il suo nome sia “Bob”. Ebbene, non importa che tu abbia ordinato un DVD, un libro, componenti informatici o stoviglie nuove per la cucina, l’unica persona in carne ed ossa che dovrai ringraziare per la loro consegna tempestiva è lui, Bob. Tutto il resto è dovuto all’opera inarrestabile dei Kiva, meccanismi nati per servire, matematicamente privi di sentimento. Tranne quando decidono di mettersi a ballare!

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Un robot cartaceo che ondeggia verso il futuro

Pepakurabot

Con un fruscio che ricorda il battito d’ali di una falena gigantesca, questo buffo essere artificiale innalza i limiti di ciò che può nascere dall’unione fra carta, colla ed elastici. Kikousya, il suo creatore giapponese, lo ha infuso di un soffio vitale che nasce dall’universalità dei principi della meccanica, ricercando applicazioni nuove per questi materiali così spesso incontrati in casa, a scuola o al lavoro. Il suo nome è M.P.M, Mechanical Paper Model. Un robot, l’omuncolo tecnologico, secondo le regole della fantascienza dovrebbe essere in grado di articolare un pensiero. Attraverso il suo computer, fare delle scelte basandosi sui presupposti del momento. Il codice concettuale di un tale essere, basato su file interminabili di zero e di uno, assumerebbe quindi la definizione di “Binario” 011000110110111101[….] Questa linea ideale, la metaforica strada cifrata, non ferrata, divide tali esseri in duplici tipologie successivamente contrapposte. Perché il robot può considerarsi uno(1)-un androide (uguale a noi esseri umani) oppure zero(0)-automatico. Il dondolante M.P.M. rientra, ovviamente, nella seconda di tali classi, assolutamente non confondibili tra loro. Ci sono, a loro volta, due geníe di questi individui privi di raziocinio: (0)mecha e (1)karakuri. La prima suscita immagini di conflitti futuribili, combattuti fra meccanismi possenti di aspetto vagamente antropomorfo, con dentro piloti umani che ne guidano le gesta, come in versioni immaginifiche dei moderni veicoli o aeroplani da combattimento. La seconda é quella dei giocattoli, le curiosità. Nella storia recente del Giappone, fra il XVII e il XIX secolo, vennero prodotte un’ampia varietà di bambole meccaniche, in grado di servire il tè o mettere in scena qualche breve momento di un dramma teatrale particolarmente famoso. Il pupazzo fatto a mano di Kikousya è l’incontro fra questo mondo e quello dei pepakura, le sculture di carta che trascendono le regole ferree degli origami, andando oltre il tradizionale concetto di “un solo foglio, ripiegato su se stesso”. Non c’è il treno della coscienza, sul binario di questo automa fine a se stesso. Ma la sequenza crittografica di un’entità davvero interessante, quella si.

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