Il futuro di Panama che passa per le mini-navi

Port Revel

Rispetto agli ampi spazi dedicati nei libri di storia, nella cinematografia di genere, nei romanzi e addirittura nei fumetti, alla sanguinosa forma d’intrattenimento che gli antichi Romani praticavano all’interno del Colosseo e delle altre arene, per non parlare poi delle corse con bighe o quadrighe fatte mulinare negli appositi Circhi, si parla relativamente poco delle loro Naumachie. Ovvero del modo in cui simili luoghi architettonici, come del resto alcuni altri specificamente adibiti allo scopo, venissero occasionalmente riempiti d’acqua e utilizzati per simulare la versione in scala di un qualche celebre conflitto marittimo del passato, citato dagli storici e celebrato dalla classe colta, ad ogni valida occasione, come l’esempio tipico dell’immanente gloria di Urbe Caput Mundi. Scafi, vele, armi: vista l’opulenza scenografica delle altre simili occasioni, non è difficile immaginare come simili particolari circostanze dovessero risplendere dell’eco della storia, tanto complete e credibili dovevano risultare nel variopinto dispiegarsi della loro estetica procedurale. Tranne che in un singolo e fondamentale aspetto, per così dire, endemico. Le dimensioni. Perché alla fine a ben pensarci, per quanto potessero essere imponenti gli spazi dell’anfiteatro Claudio o il bacino fatto scavare ad hoc da Cesare vicino al Campo Marzio, difficilmente questi avrebbero potuto contenere un’intera flotta di grandi navigatori come quella dei Fenici, degli Egizi o dei Greci, i tipici popoli a cui venivano ispirate le diverse squadre concorrenti alla tenzone. Per questo, non è irragionevole pensare che talvolta, le navi fatte cozzare tra le grida della folla, fossero in scala. C’è un che di estremamente accattivante, in effetti, nella riduzione estrema di un battello fatto per contenere dozzine di uomini, soldati e/o rematori, finalizzata nel metterlo alla prova con particolari metodi o finalità. Un divertimento che rivive, incidentalmente, presso Port Revel, l’installazione lacustre collocata fra le alti Alpi francesi, a pochi chilometri dalla famosa cittadina di Grenoble.
Se dovessimo effettuare una scala delle prove più difficili affrontate da un moderno capitano di mare, tolte quelle dovute agli incidenti inevitabili, come l’iceberg del Titanic, i giganteschi mostri marini o l’imprescindibile necessità di salutare da vicino l’isola della Maddalena, certamente troveremmo vicino alla sommità l’esperienza di passare da un oceano all’altro, Atlantico/Pacifico oppure l’esatto contrario, attraverso l’impiego di una delle opere ingegneristiche più complesse nella storia dell’umanità: l’incredibilmente dispendioso, conteso, pagato con il sangue dato alle zanzare (e la salute persa in seguito alle malattie risultanti) canale panamense. Una sottile e poco profonda striscia d’acqua, strappata dalle grinfie di un’estesa pianura a 26 metri dal livello del mare, che naturalmente si estendeva dai villaggi di Pedro Miguel e Mirafiores dalla nostra parte, Lemon Bay da quella contrapposta, rivolta verso il vasto e umido territorio che si trova tra l’America ed i paesi dell’Estremo Oriente. Cosa che naturalmente, ai tempi dell’inaugurazione del 1914 non sussisteva: chi mai avrebbe acquistato gli interessi di un simile progetto abbandonato dalla Francia, finalizzato all’eliminazione del pericoloso passaggio delle navi presso le acque vorticanti del sempre temutissimo Capo Horn, per rimpiazzarlo con un’alternativa solo lievemente più tranquillizzante…Ma il fatto è che qualsiasi impresa di trasporto, da quando i primi muli vennero forniti di borse da fianco, è finalizzata all’incremento dei profitti tramite la riduzione del numero di viaggi necessari per spostare tutto il carico. Ed è per questo che, un bel giorno, nacquero le Panamax.
Potreste in effetti non esserne del tutto coscienti, ma la nostra generazione vive in un mondo che è stato profondamente influenzato a più livelli dal preciso momento in cui il maggiore dell’esercito statunitense George Washington Goethals, l’ultimo dei massimi supervisori del canale, dichiarò con apparente sincera soddisfazione di fronte al sistema di chiuse usato per sollevare le navi all’altezza del canale: “Basta così, è largo abbastanza. È profondo abbastanza.” Perché in effetti egli stava scegliendo, forze anche coscientemente, l’effettiva larghezza massima di tutte le navi mercantili che avrebbero operato su più di un solo oceano, con finalità convenzionali di trasporto. Allo stato dei fatti attuali, concepire un mercantile dall’ampiezza superiore ai 32 metri significa delegarlo ad un uso o un’area geografica estremamente specifici, in quanto, naturalmente, fare “la strada lunga” compromette qualsiasi proposito di essere economicamente competitivi. Ma collocare un simile mostro dei mari nel suo spazio designato, aspettando che riceva l’acqua necessaria per raggiungere l’elevazione del Canale di Panama, non è un’impresa esattamente alla portata di tutti. Ci vuole una specifica figura professionale, che si chiama giustappunto, il PILOTA del Canale di Panama. I suoi metodi d’addestramento potrebbero risultare…Sorprendenti.

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L’esperienza culinaria del brodo di pietra

Caldo de Piedra

Le tradizioni alimentari di un popolo, molto spesso, viaggiano assieme alla diffusione della sua lingua. E fu proprio in funzione di ciò che molti, tra i piatti e gli ingredienti della cucina spagnola, finirono per fare il salto dell’Atlantico assieme alle navi dei Conquistadores. Venendo annoverati nel XVI secolo con la relativa terminologia ai margini di quell’ampio repertorio, vecchio di oltre un millennio, che proprio in quegli anni iniziava ad essere ridefinito con la vaga generalizzazione di “cucina messicana”. Ma mentre l’opposto tendeva ad avvenire saltuariamente, con alcune innovazioni come la tortilla o il peperoncino da chili che donavano un tocco di originalità ai pasti della nuova classe dirigente europea, c’era un intero mondo di antiche tradizioni regionali, custodite gelosamente dai nativi e praticate in gran segreto, come prerogativa di una preziosa identità sociale. E se questo era vero per tutta l’area sud dell’America Settentrionale, tanto maggiormente si applicava alla regione di Oaxaca, sito nel meridione ed a poca distanza dai confini di Belize e Guatemala. Il cui territorio inaccessibile, ricco di foreste, fiumi e altre barriere naturali, aveva favorito fin dalla Preistoria la formazione d’innumerevoli culture indipendenti, talvolta formate da centinaia di migliaia di persone, qualche altra alcuni piccoli villaggi, uniti unicamente dall’idioma e qualche scambio commerciale d’occasione. Ma c’erano anche lati positivi, in questo vivere in totale isolamento. La cultura Chinanteca, ad esempio, poté sopravvivere, virtualmente integra nei suoi remoti presupposti, all’espansione di due degli imperi più aggressivi e virulenti nella storia dell’uomo, di cui il primo coloniale, che giunse con le navi e le armi di un diverso Mondo. Mentre la coda del secondo, nei fatti essenzialmente coéva, colpiva ferocemente le regioni limitrofe ai suoi centri di potere, distruggendo tutto quello che non fosse Azteco. Ma immaginate adesso per un attimo di vivere, fin da tempo immemore, presso le sorgenti montane del fiume Papaloapan, nella regione prevalentemente boschiva in cui l’unica grande città è San Juan Bautista Tuxtepec (S. Giovanni Battista della Collina dei Conigli). E di non abitare in effetti, in una di tante palapa o nell’occasionale, timida casa in mattoni, ma nel Nord Est di un tale luogo, dove la strada e una soltanto, ed in effetti, fu costruita molto successivamente. Chi mai potrebbe conquistarvi? Sulla vie di quali mire espansioniste, nei fatti, potrebbe trovarsi la vostra gradevole esistenza? Così le genti dell’odierno villaggio di San Felipe Usila, fin da tempo immemore, sono rimaste libere di fare quello che volevano. Praticando, via dagli occhi della collettività invidiosa, le loro antiche tradizioni e gastronomie.
Tra cui questa qui, del cucinare quello che oggi prende il nome di caldo de piedra, un particolare piatto a base di pesce, verdure locali e gamberi, che trova la sua connotazione maggiormente particolare nell’impiego di un singolo ingrediente, la cui inclusione costituisce una parte irrinunciabile del processo di preparazione: l’inserimento di una o più pietre di fiume locali, scelte tra quelle particolarmente lisce, pulite e della grandezza approssimativa di una palla da baseball o un uovo di gallina. Perché lo fanno, vi apparirà ben presto chiaro osservandoli all’opera, durante uno dei rutilanti convìvi (in realtà più simili a pic-nic) che i gruppi di pescatori locali organizzano nella stagione primaverile, principalmente durante il mese di maggio. Il tutto si svolge attorno a un particolare macigno, con un pratico incavo nella parte superiore. Che contrariamente all’apparenza, non è affatto frutto di un naturale processo d’erosione, ma un qualcosa di scavato ad arte, tramite l’impiego di rudimentali attrezzi diamantati, dagli antenati di questi stessi uomini, con la precisa intenzione di cuocerci dentro il cibo. È una scena che, vista con l’occhio dei moderni, potrebbe facilmente lasciare basiti: ecco dei consumati gourmet, per quanto appartenenti a una visione differente del cibo, intenti a disporre con trasporto ingredienti come l’aglio, il cilantro e il coriandolo, l’erba dell’epazote, i peperoncini da chili… Dentro a un buco, sommariamente pulito con l’aspergimento di qualche manciata d’acqua di fiume. E mentre preparano la base, mettono quei sassi già citati sopra un fuoco intenso, lasciando che si scaldino fino al calor rosso. Tali oggetti incandescenti, quindi, vengono presi con delle apposite coppie di bastoni, poi gettati nel brodo, assieme ad una parte del pescato. La cottura di un tale apparato, come potrete facilmente immaginare, si completa in tempo estremamente breve.

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Quante zampe ha una moneta di mare?

Sand Dollar

Le trovi sulla spiaggia, quando sei davvero fortunato, pallidi residui della vita che era stata. Tonde e traforate, qualche volta, sempre con un fiore disegnato a cinque petali, più o meno a rilievo e al centro oppure no. Gli antichi credevano che fosse la valuta dei tritoni stessi di Nettuno, usata presumibilmente per comprare birra tra i locali alla barriera corallina. Di conchiglie assurte al ruolo di monete, del resto, la storia ne fu piena. Ma se resti concentrato, continuando a cercarle tutto attorno, alla fine ne potresti vedere addirittura una che…È ancora in grado di espletare. Strisciando, camminando, lievemente alla ricerca di piccoli cobepodi, alghe diatomee, larve di molluschi a altri detriti vari. Potrà non sembrarlo ma, questo dischetto deambulante dal diametro di 7 cm e mezzo, è in effetti uno spietato e inesorabile predatore. Che si sposta alla vertiginosa velocità di un metro l’ora di velocità, almeno quando ha particolarmente fretta di trovarsi in qualche luogo non esattamente definito. L’origine della metafora alla base del suo nome non è veramente, dopo tutto, così difficile da rintracciare: la maggior parte dei sand dollars, come vengono definiti in tutto il continente americano (potere della valuta forte) sono piatti e tondi, con proporzioni del tutto simili a quelle di una vecchia moneta d’argento. Il che non significa, ad ogni modo, che siano facili da notare. Questo perché dopo qualche millennio di evoluzione, a partire dai cassiduloidi del periodo Giurassico, hanno appreso i due segreti per sfuggire ai loro predatori dell’età adulta, soprattutto gabbiani, ma anche il pesce piatto Platichthys stellatus o la grande stella marina rosa, Pisaster brevispinus; il primo è muoversi davvero molto, molto poco, il secondo è non esporsi mai alla luce del sole. Persino quando, come capita praticamente tutti i giorni, la marea si ritira dalle acque basse in cui amano abitare, benché siano in grado di costituire colonie a profondità di fino a 90 metri. Perché allora, scoperti e vulnerabili, possono morire anche soltanto seccandosi, ghermiti da quei raggi che per noi sono la vita. Iniziano quindi, quasi subito, a scavare. Ma come, potrebbe chiedersi qualcuno, può infilarsi sotto la sabbia, un animale che è sostanzialmente un piccolo dischetto semovente, spinto innanzi da una forza niente affatto chiara? Il segreto sarà netto ai vostri occhi, se soltanto lo raccoglierete, per girarlo ed osservare la sua parte sottostante.
L’ordine dei Clypeasteroida, che comprende specie diffuse in America, Sud Africa ed Australia, appartiene al phylum degli echinodermi, lo stesso dei cetrioli di mare, i crinoidi, le stelle marine e soprattutto loro, i ricci di mare, con cui ha in comune la struttura fondamentale del carapace ed il sistema di locomozione, formato da innumerevoli sottili preminenze, ma non spinose, in questo caso, bensì ricoperte a loro volta da un migliaio di sottili zampe tubolari, dette cilia. Ed è questa, sostanzialmente, l’unica interfaccia della creaturina con il mondo, che la impiega per ogni sorta di mansione, inclusa quella di guidare sapientemente le piccole prede d’occasione verso il foro al centro del suo disco, che costituisce, neanche a dirlo, l’organo fondamentale della bocca. Può in effetti capitare di vederne un’intera colonia, nei periodi del giorno in cui sono sommersi, che si è disposta nella corrente in modo obliquo e trasversale, dozzine o centinaia di alettoni da tunnel del vento, posti a catturare e poi fagocitare tutti quei micro-organismi che, per loro sfortuna, si trovavano a passare di lì. E pensare che anche loro erano stati, nell’età giovanile, esattamente lo stesso tipo di creatura! Un dollaro di mare, infatti, nasce come larva della tipologia nekton, ossia in grado di nuotare in tre dimensioni, che attraversa vari stadi di metamorfosi, fino al formarsi del suo scheletro calcareo, abbastanza pesante da legarlo per il resto della vita al suolo e trasformandolo in benthos, creatura dei fondali. Ciò detto, persino in quello stato il Clypeasteroida medio è tutt’altro che indifeso, e può ricorrere ad un trucco estremamente funzionale…

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L’antica tradizione del ponte d’erba peruviano

Qeswachaka Bridge

C’è stato un attimo, un singolo momento. Il punto di svolta fondamentale nella fine storica di un grande impero: quando Francisco Pizarro e i suoi fratelli, partiti dal 1526 da Panama con 168 uomini, 27 cavalli ed un cannone, furono brevemente sconfitti nello spirito e nei fatti. Dal primo incontro con la prova, al di là di ogni possibile dubbio, che le genti delle Ande erano totalmente aliene, a noi europei, come del resto noi per loro. E non si poteva, allora come adesso, sottovalutare il significato metaforico di tali ponti. Decine e decine di metri, sopra i burroni e i fiumi impetuosi di quei luoghi, miracolosamente sospesi e solidi, benché oscillanti, ovvero soggetti all’energia cinetica del vento. Perché non può esserci conquista, senza un qualche tipo di movimento dal dentro verso il fuori, o viceversa, ed agevolare un tale presupposto lungo il territorio di una cordigliera larga 240 Km, con un’altezza media di 4.000 metri, non può prescindere da soluzioni tecniche particolari. Così le genti di Cusco, unificate attorno al XII secolo dall’eroico fondatore Manco Cápac, attorno al tempio degli Dei del cielo, si erano messi a costruire laboriosamente sulle fondamenta dell’ingegneria di allora. Potenziando ciò che avevano e sfruttando al massimo la conoscenza dei predecessori. Ecco dunque qui una civiltà la quale, pur priva del cemento, edificava i suoi palazzi con mattoni a incastro gravitazionale, talmente precisi da impedire addirittura che un coltello penetrasse nelle intercapedini tra i blocchi, come le guide turistiche ancora amano dimostrare a chiunque visiti l’antica Machu Picchu. E i cui artigiani avevano scoperto in modo totalmente accidentale, analogamente ad altre genti mesoamericane, il segreto per aumentare la capacità di rimbalzo della gomma usata per la ulli, palla del gioco sacro ereditato dagli antichi Olmechi. Aggiungendo all’impasto della materia vegetale che conteneva lo zolfo, e mettendo quindi in atto una sorta di vulcanizzazione, non dissimile da quella degli pneumatici moderni. Eppure, costoro non avevano la ruota. Il che può essere visto anche come una sorta di vantaggio, considerato l’ambiente operativo.
Dunque giunsero i conquistadores spagnoli, con armi, cavalcature e bagagli presso il primo di una lunga serie di passaggi sospesi, usati dai locali per tenere unite le comunità remote. Ed a quel punto, tacquero. Perché mai prima di allora, e certamente ancora meno nella terra dei loro antenati, l’occhio umano aveva mai preso coscienza di una tale diavoleria: tre corde intrecciate sopra cui posare i piedi, più due a cui reggersi per camminare che si estendevano da un latro all’altro del burrone, con i soli punti di sostegno costituiti da particolari fori nella roccia, a cui l’intero sistema era stato assicurato. Il che non sarebbe stato tanto inconcepibile, se l’intero meccanismo avesse avuto un aspetto ben più solido, come uno dei vecchi ponti ereditati dall’ingegneria romana, in cui la struttura dell’arco scaricava il peso ai lati. Ma il tipico passaggio aereo degli Inca, contrariamente a tale alternativa, discendeva fino al suo punto centrale, per poi risalire da lì fino al termine della sua estensione: ciò perché costituiva, nei fatti, un ponte sospeso, concetto che sarebbe rimasto a noi inaccessibile fino alle prime battute della rivoluzione industriale, ma che oggi troviamo famosamente applicato a Brooklyn, New York, come per il ponte di Akashi Kaikyō che collega l’Honsu giapponese all’isola di Awaji, il più lungo del pianeta con i suoi quasi due chilometri di estensione.
E pensare che il concetto Inca non era poi così diverso in potenza! Benché i tiranti, concetto certamente ignoto agli spagnoli, costituissero anche la superficie calpestabile della struttura, dando a quest’ultima l’aspetto anti-gibboso che tanto contribuiva a quell’aspetto di falsa instabilità. Esistono tuttavia dei resoconti coévi, risalenti all’epoca della colonizzazione degli spagnoli, in grado di gettare luce sul significato epocale di una struttura costruita in questo modo: raccontava lo storico nativo delle americhe Garcilaso de la Vega (non l’omonimo poeta del XVI secolo) nei suoi Commentari reali degli Inca (1609) di come molte delle tribù native assoggettate al grande impero non fossero state neanche sconfitte in battaglia, ma semplicemente annientate nel loro spirito combattivo dall’ineccepibile struttura di simili ponti. Perché sembrava, ai loro occhi ancora inesperti, che soltanto un popolo divino potesse costruire cose tanto straordinarie.

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