La pregevole provenienza canina dell’antica lana perduta dai canadesi

Quando nel 1792 George Vancouver, l’esploratore britannico che avrebbe dato il nome all’omonima e importante isola nonché la città che sarebbe stata posta in corrispondenza di essa, si trovava a navigare lungo le coste del Pacifico tra gli attuali Oregon e Columbia Inglese. Quando sostando con la sua nave per fare rifornimento in prossimità della foce del fiume Bute, scese a terra al fine di conoscere direttamente una tribù dei nativi, con cui effettuare scambi d’informazioni e alcune merci di un certo valore. Tra cui figuravano, dalla parte delle genti locali, delle pregiate coperte multicolori ricoperte da figure geometriche, che l’ufficiale della Royal Navy aveva già visto addosso alle delegazioni culturali e di pace che avevano precedentemente cercato un punto di contatto con le nuove colonie stabilite dagli europei. Trovando i suoi corrispondenti in questo caso particolarmente amichevoli, Vancouver chiese quindi di recarsi a visitare il loro villaggio assieme al suo seguito. Occasione nella quale, coi suoi stessi occhi, vide qualcosa di completamente inaspettato: un gruppo di donne del villaggio sedute a terra, intente a filare grandi quantità di lana candida dello stesso tipo utilizzato per le suddette creazioni tessili dei locali. E accucciato pacatamente vicino a loro, un cane di taglia medio-piccola dello stesso colore e il pelo molto corto, come se fosse stato recentemente sottoposto a tosatura. Sommando perciò i dati in suo possesso, e con qualche ulteriore domanda a mezzo interprete, l’esploratore comprese finalmente la stretta relazione tra le due cose. Diventando il primo occidentale a conoscere l’eccezionale questione della lana canina.
L’esistenza pregressa dei cani da lana allevati dalle Prime Nazioni della costa del Pacifico canadese, definite oggi per semplicità dei Salish (da Séliš, il nome impiegato dai parlanti della loro lingua per definire se stessi) è del resto una questione lungamente nota, provata agli antropologi da un’ampia serie di documenti artistici, racconti storiografici ed in tempi più recenti, persino l’analisi micrometrica del materiale di alcuni reperti tessili custoditi in importanti musei tra cui lo Smithsonian. Appartenenti a tale razza, inoltre, sono stati ritrovati nelle antiche tombe costruite per personalità importanti e la loro famiglia, seppelliti con tutti gli onori e persino avvolti nelle coperte che loro stessi avevano permesso di creare, un onore che non viene normalmente riservato agli altri animali facenti parte del corredo dei villaggi di questa particolare cultura americana. Animali di questa particolare razza, simili e non molto più grandi di un volpino (spitz) giapponese trovandosi effettivamente a metà tra questo e un samoiedo, venivano tenuti nelle case a differenza dei cani usati per la caccia, e spesso apprezzati nel loro ruolo addizionale di creature di compagnia. Considerati una possessione di pregio, le loro linee di sangue erano custodite e prolungate dalle donne della tribù, che molto spesso ne mantenevano anche il possesso formale. In un periodo successivo al XVI secolo, essi sarebbero anche stati allevati letteralmente allo stato semi-selvatico, con vere e proprie comunità di 20-30 cani tenute all’interno di ampi recinti o isole lungo la costa, allo scopo di evitare l’incrocio genetico con razze differenti e il conseguente declino qualitativo della lana. Un piano che avrebbe funzionato relativamente bene, almeno fino all’arrivo dell’uomo bianco con le molte problematiche connesse a un tale scontro di civiltà…

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La cultura che indossava pesci palla per proteggersi la testa dai colpi delle mazze di squalo

L’inizio del combattimento giunse nel momento concordato, per risolvere il complesso contenzioso territoriale. Mesi, anni addirittura, trascorsi dai reciproci capi villaggio a conferire in merito al possesso di un piccolo appezzamento di terra, insignificante per gli standard continentali ma di enorme valore qui, tra i limitati confini dell’atollo corallino di Tarawa, dove risiedeva l’antica discendenza di Tabukaokao. Finché l’acredine residua, per non chiamarlo vero e proprio odio latente, non si trasformò nel seme combattivo di un pretesto. Non che a loro servisse veramente una ragione, per confrontarsi facendo uso di violenza e le armi acuminate frutto di una raffinata tradizione: i giovani guerrieri, riceventi dei segreti marziali del clan. Il gigantesco Betero, a quel punto, fece il suo ingresso nella radura, girando attorno all’alto tronco della sua palma. Dietro la quale, assistito da un gruppo di scudieri, aveva indossato l’armatura simbolo di Nabakai, il leggendario eroe capace di parlare coi granchi. Le spalle coperte da un’impenetrabile pannello di cocco intrecciato, stesso materiale da cui erano ricavate la maniche e calzoni di spessore significativo. Il petto coperto da una pelle di razza porcospino. Sulla testa un copricapo dall’aspetto spaventoso, costruito con il corpo intero del barantauti, pesce palla velenoso degli oceani antistanti. Stretta nella mano, la pesante mazza a forma di tridente, i cui denti si diceva che lui stesso avesse estratto a mani nude dalla bocca del koro, lo squalo mangiatore di pescatori. Un coro d’insulti si levò a quel punto dalle donne del clan Tabiang, mentre il loro campione Ioteba faceva un passo avanti, già abbigliato con un tipo più leggero di panoplia. Tutta realizzata in sennit, resistenti fibre di quell’albero decorate con figure triangolari, oltre ad alcune conchiglie sferoidali appese per decorazione, che tintinnavano rumorosamente con un senso latente d’aspettativa. La parte delle spalle e del capo protetta da un alta barriera legnosa, con una singola fessura per guardare fuori. E le maniche terminanti in un paio di tirapugni, intrecciati con capelli usati per fissarvi un’altra pletora di denti, affilati come pericolosi coltelli. Tutto ciò per onorare, doverosamente, il credo del suo clan consistente nell’affermazione: “Per ogni pugno che ricevo, ne assesto quattro.” Che egli si affrettò a lanciare all’indirizzo del suo rivale, seguito da un disarticolato grido battagliero d’incitazione. Ci fu soltanto il tempo per gettare un ultimo sguardo all’indirizzo della spiaggia, dove alcuni marinai stranieri e preti dall’abbigliamento cupo li guardavano con espressioni miste di rimprovero e spavento. Prima che sassi e rami appuntiti iniziassero a volare da una parte all’altra del campo di battaglia e i due guerrieri, Ettore ed Achille delle oceaniche circostanze, iniziassero a cozzare con la furia ereditata in secoli di tradizioni e orgoglio.
La natura guerrafondaia e cruenta delle genti delle cosiddette isole Gilbertesi fu in effetti nota fin dai primi contatti con la civiltà occidentale, avvenuti solamente tra il XVII e XVIII secolo. Quando in tali territori recentemente trasformati in un protettorato inglese già sussisteva da molti secoli una raffinata cultura collegata al combattimento, per certi versi paragonabile a quella delle arti marziali asiatiche, particolarmente quelle provenienti da Cina e Giappone. Con vere e proprie “scuole” ereditate segretamente, dai depositari di precise tecniche d’offesa e contrattacco, variabili tra pugni, calci, prese e chiaramente, l’utilizzo di una vasta serie di armamenti. Il che solleva un’imprescindibile questione preliminare, relativa a come esattamente il popolo degli I-Kiribati, del tutto privo di risorse minerarie o conoscenze per lavorare i metalli, nonché grandi quantità di legno, corno o tendini animali, potesse costituire gli strumenti materiali necessari ad innalzare il tono della battaglia. Giungendo alla sola possibile risposta che dovessero, necessariamente, provenire dal mare. Il che, come spesso avviene, può essere soltanto definito come il primo capitolo della storia…

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L’avventurosa ricerca di una città perduta nella giungla del Dio Scimmia centro-americano

All’epoca doveva essere sembrato plausibile, persino probabile. Dal punto di vista degli uomini al servizio del grande conquistador, Hernán Cortés, mentre gli veniva esposta e descritta la notizia tramite un discorso del grand’uomo in persona: che in un luogo imprecisato della provincia di Mosquitia, la cosiddetta Costa delle Zanzare continuasse a persistere un prosperoso centro abitato, letteralmente intonso dalle conseguenze dei lunghi anni di guerra e malattie iniziate al doloroso sbarco degli Europei presso i confini del Nuovo Mondo. Un luogo forse non lastricato d’oro come l’altrettanto leggendaria città di El Dorado, ma comunque fonte di ricchezze potenzialmente molto significative, persino “pari o superiori a quelle dei messicani”. Nonostante le sue fonti avessero apparentemente situato tale scrigno del tesoro entro appena 60 leghe (250 Km) da Trujilo, tuttavia, complice la naturale inaccessibilità della giunga honduregna, le forze spagnole non sarebbero mai riuscite ad individuare questo sito. E se gli abitanti indigeni avevano sperato di ottenere una maggiore considerazione in cambio della loro accoglienza nel corso della ricerca, iniziata ufficialmente nel 1545 mediante una lettera recapitata al Re di Spagna, andarono in effetti incontro ad un effetto diametralmente opposto, con le circa 150.000 persone perdute, tra quelle deportate per lavorare in miniera e morte a causa di una grave epidemia di peste. Di quella che gli Indios delle tribù dei Pech chiamavano Kahã Kamasa (letteralmente: “La città bianca”) non si sarebbe quindi più parlato estensivamente per quasi quattro secoli, fatta eccezione per alcune speculazioni per lo più teoriche elaborate in campo accademico, come nel caso di molte altre leggende geografiche dell’epoca del colonialismo occidentale. Almeno finché, nel 1927, il celebre aviatore Charles Lindbergh non ebbe l’occasione di avvistare dalla sua cabina solitaria il candido riflesso di quello che poteva essere soltanto un grande centro abitato tra gli alberi pluris-secolari, dove in teoria non avrebbe dovuto trovarsi alcun tipo d’insediamento umano. Questo fu, essenzialmente, il segnale: al principio degli anni ’30 un paio di spedizioni, una organizzata dall’archeologo statunitense, William Duncan Strong e l’altra voluta dal presidente dell’Honduras, Tiburcio Carías in persona, portarono alla raccolta di una serie d’informazioni in merito al misterioso argomento. Permettendo alla seconda, in modo particolare, di portare indietro alcuni artefatti in ceramica dai siti individuati grazie all’aiuto delle popolazioni tribali della regione di Plátano. Ma l’effettivo aspetto, collocazione e senso logico della vociferata Ciudad Blanca continuava a rimanere rigorosamente oscuro, mantenendo ben nascosta la copiosa cornucopia dei suoi segreti. Una condizione destinata a ribaltarsi totalmente, grazie all’opera di un singolo giornalista, archeologo, avventuriero nonché futura spia in tempo di guerra. E quella che sarebbe diventata la missione più importante della sua intera carriera…

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La storia della strada simile a un ottovolante usata per congiungere i due lati di Sumatra

Guida, guida la tua macchina tra gli alberi e le alte colline di un paesaggio all’altro lato della percezione cosmica dell’Universo. Dove ogni fronda sembra nascondere le più profonde nozioni della Terra, dietro ciascun tornante che conduce maggiormente verso il fondo della valle ombrosa. Eppure, dolci sono quelle curve, quasi come se il paesaggio stesso fosse stato asservito ai bisogni della scienza e tecnologica umane; liscio è l’asfalto, perfettamente lucido il guard rail a lato del grigio sentiero rovente. Tanto che non sembra veramente di essere all’interno di una semplice foresta ed in effetti, ad uno sguardo prospettico preso da lontano, siamo esattamente 65 metri al di sopra di essa. Lungo il primo dei viadotti, che compongono l’assurda follia stradale di Kelok 9.
Nell’etnogenesi mitologica del popolo disunito dei Minangkabau, i bufali d’acqua (kabau) furono impiegati al fine di porre rimedio al doloroso conflitto contro l’impero induista dei Majapahit, potente consorzio di città stato con capitale sulla vicina isola di Java. Tutto ciò grazie a un singolare stratagemma, quando venne deciso dagli anziani di entrambi gli schieramenti che il predominio sul territorio sarebbe stato attribuito mediante l’esito di una gara, tra i possenti bovini rappresentanti rispettivamente i due schieramenti. Così una volta posate le armi, gli stranieri portatori di rovina portarono sulla pubblica piazza il più impressionante maschio taurino della sua specie, un fascio di muscoli grosso e forte quanto una locomotiva. Mentre dalla parte delle plurime tribù delle montagne, venne lasciato avanzare un giovane esemplare, poco più di un vitello, ancora abituato a prendere il latte da sua madre. Per un esito senz’altro facile da immaginare se non che il piccolo bufalo, precipitandosi alla ricerca delle mammelle sotto il suo imponente avversario, finì per tagliarne accidentalmente lo stomaco con le sue corna. Così che l’adulto, prima ancora che fosse possibile rendersi conto dell’accaduto, si accasciò a terra sanguinante e morì. Da che l’indipendenza mantenuta per il principale gruppo etnico della regione occidentale di Sumatra, il cui nome significa nella loro lingua per l’appunto “Mucca vincente”. Ma la storia aveva in serbo, per loro, ancora molti ostacoli e difficoltosi scontri di religione. Tra cui quello contro il sultanato di Aceh, detentore di un importante monopolio commerciale all’inizio del XVII secolo, nonostante la ferma opposizione dell’anziano capo politico di Sumatra Iskandar Zur-Karnain, che si diceva discendesse direttamente dal grande conquistatore d’Oriente, Alessandro Magno in persona. Alla cui morte il figlio Indermasyah, senza pensare eccessivamente alle conseguenze del suo gesto, pensò di chiedere l’aiuto di una forza totalmente fuori dal contesto politico e militare precedentemente noto, quella della VOC, la temibile Compagnia delle Indie Orientali. Così gli olandesi, senza particolari problemi, spazzarono via i nemici del sultano, chiedendo come pagamento “soltanto” una cosa: le copiose quantità d’oro, estratte periodicamente dalle antiche miniere montane dei Minangkabau.
Ma il trasporto di quest’ultime, nonostante l’utile aiuto di bestie da soma come i kabau, non era semplice poiché doveva fare affidamento su precarie mulattiere in quello che potremmo definire come uno dei territori maggiormente accidentati di tutto l’arcipelago indonesiano. Come l’originario sentiero straordinariamente contorto di Kelok Sembilan, le “Nove Curve Strette” lungo le pedici di due montagne totalmente ricoperte da una fitta foresta…

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