Il nuovo sistema austriaco per costruire ponti “ad ombrello”

Nella maggior parte delle casistiche in cui un’impresa ingegneristica appare finalizzata all’immagazzinamento d’energia potenziale, l’obiettivo finale consiste normalmente nel re-impiego futuro di tali risorse, al fine di risolvere, concludere o restituire al mondo una situazione di quiete esistenziale. Unica eccezione a tale assioma, d’altra parte, risulta essere la costruzione di un ponte: criticità continuativa, precaria per definizione, mirata ad installare una struttura costruita dagli umani in quel particolare stato in essere, dell’aria priva di un appoggio, in cui normalmente non potremmo certamente camminare; figuriamoci, del resto, far passare le automobili del nostro spostamento quotidiano. Luoghi non dissimili, nei loro presupposti, dal particolare transito asfaltato della superstrada Fürstenfelder S7, recentemente (2018) costruita tra Graz e Budapest ma fino all’altro giorno priva, per grande sfortuna di ogni suo utilizzatore, di un punto di passaggio in asse sopra il fiume dell’omonima riserva naturale Lafniz, costringendo a fastidiose lungaggini e deviazioni. Almeno fino al coinvolgimento nel progetto del Prof. Dr.‐Ing. Johann Kollegger dell’Institut für Tragkonstruktionen (Istituto Strutture di Supporto) dell’Università tecnica di Vienna, a fronte dell’idea lungamente proposta e dimostrata dal suo dipartimento: la messa in opera, sostanzialmente verticale, di un ponte. Risposta ad un problema certamente noto agli ingegneri dei nostri tempi: come porre in essere qualsivoglia struttura di una certa ambizione quando mancano i presupposti, o come in questo caso i permessi ambientali, di disporre l’ingombrante supporto provvisorio della centina? Ovvero quel supporto o impalcatura, in uso almeno fin dal tempo dei Romani, usato per mantenere in stato di essere una trave a mensola prima che il pilone successivo possa dirsi, a tutti gli effetti, completato. Una domanda la cui risposta sembrerebbe scaturire dal mondo di uno degli oggetti di uso comune tra i più utili, da noi usato per deflettere le precipitazioni provenienti dagli strati superiori dell’atmosfera: ombrello che protegge, ombrello che sovrasta e ombrello, soprattutto, in grado di richiudersi ed aprirsi nuovamente in caso di necessità. Un movimento frutto di un principio meccanico, quest’ultimo, inerentemente capace di essere applicato su una scala superiore, fino a quella qui impiegata di 72 metri per 54 tonnellate, sostanzialmente il peso unitario delle due metà di una delle travi di sostegno per la costruzione dell’utile viadotto fluviale. Unite tra di loro nella sommità, ai fini architettonici preposti, da una giunzione flessibile al vertice di quella che potremmo associare, idealmente, alla perfetta rampa di lancio di un missile puntato verso il cosmo siderale. Almeno fino a che, un poco alla volta, gli elementi idraulici di sollevamento non vengono inclinati verso l’esterno, portando all’apertura, perfettamente metaforica, di quanto avrà il compito di sostenere, tanto a lungo, la viabilità locale. Und es ist einfach herzustellen: ponte pronto in poche ore. Sulle note stranamente adatte della celebre canzone Singing in the Rain

Leggi tutto

La laboriosa marcia di una Torre Eiffel sdraiata in Lusazia Meridionale

Durante una fresca sera nel mezzo dell’estate del 2004, sulle note dell’opera scritta da Giuseppe Verdi, Nabucco il re di Babilonia chiamava a raccolta i suoi soldati per marciare su Gerusalemme, di fronte alla struttura piramidale edificata per rappresentare il suo palazzo, a sua volta sovrastata da un qualcosa d’inusitato. Come una struttura di metallo, sviluppata in larghezza, capace di sembrare l’alto scheletro di un grattacielo; l’enorme residuato di una breve epoca, a Lichterfeld-Schacksdorf, che in vicini luoghi e su una scala lievemente minore, continua tutt’ora. Il Besucherbergwerk o Ponte Trasportatore del Materiale in Eccesso a questo scopo utilizzato, come si è soliti chiamare tali macchinari. è in effetti un residuato mantenuto in alta considerazione, al punto da considerarlo alla stregua di un antico monumento, castello o luogo di culto, dedicato alla realizzazione di un’industria che in passato riuscì a fare la fortuna di questa nazione.
Siamo nella regione nota come Alta Lusazia (aggettivo riferito all’elevazione, non la latitudine) ove da un tempo prossimo al millennio, oramai, l’uomo ha saputo trarre beneficio dai copiosi depositi del tipo di carbone fossile noto come lignite, particolarmente noto per la sua collocazione negli strati geologici prossimi alla superficie. Il che ha consentito la creazione di un particolare tipo di miniere, molto rappresentative di questi luoghi. Vaste ferite nel territorio presso cui lo scavo si sviluppa in larghezza piuttosto che profondità, mediante l’impiego operativo di alcuni dei macchinari più imponenti e impressionanti mai costruiti dall’uomo. Molti ricorderanno, ad esempio, lo scavatore a secchio (BWE) MAN TAKRAF RB293 normalmente chiamato Bagger 293, celebre su Internet per la sua capacità di assomigliare a un mostruoso dinosauro meccanico sovradimensionato. Mentre forse in molti meno, fuori dalla Germania, avranno familiarità con quello che potremmo a pieno titolo definire il suo fratello maggiore, un’entità meccanica di cui esistono ben cinque versioni (quattro ancora operative) che rappresenta il più assoluto perfezionamento tecnologico del braccio di un bambino che raccoglie la sabbia di un parco giochi. Dove “la sabbia” è ovviamente il più prezioso carburante fossile locale ed il bambino in questione, se vogliamo, avrebbe dovuto misurare la grandezza approssimativa di una montagna. Questo perché ciò a cui mi stavo riferendo in apertura, identificato con la sigla F60 e prodotto dalla stessa azienda con sede a Lipsia, la Tenova TAKRAF, seppe raggiungere nel 1991 la misura esatta di 502 metri di lunghezza contro i 324 della Torre Eiffel o i 456 della nave più lunga (la Seawise Giant) pur assomigliando vagamente alla prima in funzione della sua struttura metallica reticolare. Apparirà chiaro, in altri termini, che stiamo parlando della maggiore macchina semovente fino ad ora costruita nella storia dell’uomo.
Già, semovente, poiché nella sua interezza poggia su due carrelli ferroviari nei fatti più simili a dei veri e propri edifici, dotati di 760 ruote, metà delle quali alimentate grazie a poderosi motori elettrici dalla potenza complessiva di 27.000 kW. Eppure nonostante questo, in grado di portare a termine lo spostamento (o “processazione”) di un metro cubico di materiale per ciascun 1,2 kWh speso, una quantità risibile capace di dimostrare la sua sorprendente, notevole efficienza. A sempiterna riconferma che talvolta, anche i titani possono essere gentili…

Leggi tutto

Rotatoria di un ponte tondo, situato sulla punta del mondo

Riesco facilmente a immaginare la Perplessità. Di un ipotetico straniero della Terra, che scorrendo le immagini catturate al binocolo del suo vascello interstellare, dovesse giungere a un particolare segmento del contesto sudamericano: giusto dove termina l’acuminata lama di coltello, puntata con fermezza verso il Polo Sud, che noi chiamiamo l’Argentina. E poco dopo l’ampia insenatura del golfo noto come Rio de la Plata, presso il territorio che possiede il nome di Uruguay. Ed oltre a quello, molte meraviglie, incluso il luogo in cui una lunga striscia di sabbia divide le acque dell’Atlantico da una laguna ricca di risorse faunistiche assai varie. In un punto strategico del tragitto tra i centri costieri di La Paloma e La Pedrera, dove trova posto, alquanto stranamente, una gigantesca lente d’ingradimento… O almeno così sembra tale segmento, per non dir una racchetta o l’elemento in plastica che forma le bolle di sapone, poco prima di trasformarsi in un ponte, dividendosi in due biforcazioni totalmente simmetriche. Per poi congiungersi di nuovo, all’altro lato delle acque intonse. Laguna Garzòn è il nome di questo luogo, e “Ponte della” quello dell’UMG (Oggetto Misterioso che Giace) con chiarissima dimostrazione di un’intento descrittivo, perché non è sempre necessario tendere ai confini della fantasia, rispettando chiaramente quello stile che da sempre è lecito associare al suo creatore: l’architetto che proprio in questo luogo trascorse un’importante parte della proprio gioventù, Rafael Viñoly Beceiro. Potreste conoscerlo, anche se non ricordate il nome, grazie ad importanti opere come l’alto palazzo residenziale 432 Park Avenue che si affaccia sul Central Park di New York o il bizzarro “Walkie Talkie” di Londra, alias 125 Greenwich Street, celebre per la problematica tendenza della sua facciata parabolica a concentrare la luce solare in un raggio della morte che squaglia la plastica delle auto parcheggiate innanzi. Una possibile segreta antipatia, nei confronti del principale mezzo di trasporto dell’umanità contemporanea che potremmo immaginare di trovare anche in questa sua più recente opera, completata nel 2016, apparentemente contraria a qualsivoglia principio di convenienza nel metodo scelto per percorrere una distanza tra punti A e B, proprio perché aumenta, senza dubbio, la lunghezza progressiva tra i suddetti & arbitrari punti. Ma l’alieno in questione, ragionandoci per qualche tempo, giungerebbe presto ad una chiara conclusione: che se un’auto compie quel tragitto in base ad un copione chiaramente considerato desiderabile dai committenti, il ponte avrà evidentemente assolto al suo duplice ruolo: primo, ridurre la velocità dei veicoli stradali e in conseguenza il frastuono generato dai loro motori, a immediato vantaggio dei succitati animali, (tra cui preziose popolazioni del cigno dal collo nero, le oche delle nevi e il fenicottero rosa) e secondo, permettere ai guidatori di passaggio di trasformarsi momentaneamente in osservatori del panorama, mentre tenere lo sguardo fisso innanzi ed il volante lievemente girato da una parte gli fa scorrere il paesaggio come fosse la scenografia di un’impressionante opera teatrale. Dedicata, per l’appunto, all’incommensurabile splendore della Natura…

Leggi tutto

Il ponte di pietra tra i due templi più elevati della Cina

Una costante di molte religioni della Terra è il concetto di una suddivisione verticale in base ai meriti, soprattutto nelle fasi dell’esistenza verso cui transitano le nostre anime o coscienze, una volta che il copro fisico ha esalato il suo ultimo respiro. E sebbene non esista una cognizione universale del bene sopra ed il male sotto, appare implicito nel nostro modo di ragionare che il cielo sia in qualche modo collegato alle gesta degli uomini nobili, mentre il sottosuolo sia dove hanno sede, in una forma o nell’altra, gli aldilà punitivi nei confronti di chi ha violato i princìpi del Karma, non si è adeguatamente Pentito, etc. Ed ecco perché, forse, in tutta l’area rurale del vasto entroterra cinese, i luoghi di culto appartenenti alle tre principali discipline spirituali del paese (Confucianesimo, Taoismo e Buddhismo) trovarono una costante collocazione sugli alti picchi ed in mezzo alle nubi, come raffigurato su innumerevoli rotoli dipinti, paraventi, ventagli ed altre immagini ormai entrate a pieno titolo nel nostro sentire globalizzato. Edifici o altre strutture votive che appaiono, in alternanza con gli alberi dalle conturbanti ramificazioni, sopra le linee curve ininterrotte capace di suggerire all’osservatore l’idea di evanescenti catene montuose sospese tra le nubi, in un mondo alternativo difficile da afferrare persino per la nostra poliedrica fantasia interpretativa. Luoghi come la regione del Guizhou, particolarmente celebre per aver ispirato, col suo paesaggio inusitato, il colossal cine-informatizzato di James Cameron del 2009, Avatar.
Ciò che distingue in modo particolare, tuttavia, il complesso di Faning o Fanjingshan (梵净山, unione di caratteri che si richiama in forma abbreviata al Monte del Signore dei Cieli Brahma) è la particolare configurazione dei suoi edifici, con il tempio propriamente detto, utilizzato per la prima volta durante la dinastia dei Song Meridionali (1127-1279) dai monaci appartenenti alla setta del Loto Bianco coadiuvato dalla surreale presenza di una coppia di santuari collocati su uno sperone roccioso soprastante, nei fatti punto più elevato del massiccio montuoso con la sua altezza di 2493 metri, definito talvolta “Un’isola di roccia metamorfica in un mare di formazioni calcaree”. Ma verso il quale ancor più spesso, troviamo attribuito il nome di Vecchia Cima Dorata, in funzione del ruolo fondamentale che essa riveste nell’articolata graduatoria dei toponimi buddhisti, subito sotto le Cinque Grandi Montagne e con una funzione per il mondo materiale che potrebbe risultare, sotto un particolare punto di vista, persino la più importante: ospitare il corpo fisico di Maitreya, reincarnazione futura del Buddha storico Sakyamuni, che dovrà far ritorno sul nostro pianeta in un’Epoca ancora indeterminata, per condurre coloro che sapranno accogliere il suo insegnamento verso l’estasi senza fine del Nirvana. Sorpassando, con un rapido balzo interdimensionale, i lunghi anni che persino i migliori tra noi dovrebbero trascorrere in Paradiso, poco sopra le nubi di un così irraggiungibile luogo, prima di poter raggiungere lo stato ancor più desiderabile del totale annullamento dell’Io. Perché già, a chi non piacciono le scorciatoie? Vedi, tanto per venire finalmente a noi, quella del sottile ponte di pietra che unisce i due piccoli templi, situati oltre il punto in cui la Vecchia Cima subisce una sorta di biforcazione, affinché gli 8.000 scalini necessari per raggiungerla non debbano trasformarsi, per i pellegrini maggiormente devoti, nella cifra ancor più impressionante di 16.000 (andata E ritorno!)

Leggi tutto