Dichiarato estinto in Cina, il placido dugongo continua imperterrito a brucare

È sorprendente quanto possa essere difficile, persino oggi, determinare l’effettivo stato di conservazione e prospettive future di una specie animale. Nonostante gli studi statistici, l’analisi delle probabilità, gli strumenti di rilevamento satellitari e il sonar delle navi oceanografiche, soprattutto per creature naturalmente timide, che evitano i contatti umani per quanto possibile e tendono a vivere in acque torbide dove non vengono frequentemente avvistate. Basta inoltre consultare brevemente l’indice dello IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura) per scoprire come non sempre il numero di esemplari rimasti, sulla base dei dati di cui disponiamo, corrisponda all’attribuzione di uno dei terribili bollini “vulnerabile”, “a rischio” e “stato critico”, dovendo a tal fine considerare anche fattori pendenti come la pressione sull’habitat di appartenenza, l’andamento statistico e le azioni di conservazione già intraprese fino ad ora. Se ce ne sono state, s’intende: esiste anche il caso d’altra parte che un intero paese tra i più grandi al mondo, per questo dotato di una burocrazia altrettanto stratificata e complessa, possa attendere per anni di ricevere un rapporto convincente dai propri amichevoli scienziati di riferimento. Mentre il futuro di una determinata categoria biologica, dimenticata sotto ogni aspetto tranne quello formale, continua drammaticamente a peggiorare. Fino a che…
Tale storia rappresenta non affatto, per quanto avremmo certamente preferito che lo fosse, un mero esempio teorico e del tutto privo di riferimenti. Come ampiamente dimostrato nello studio dello scorso agosto di scienziati internazionali d’istituzioni come l’Istituto di Zoologia di Londra e l’Accademia delle Scienze di Sanyan, provincia dello Hainan, intitolato in modo tristemente esplicito “Estinzione funzionale del dugongo in Cina”. Stiamo parlando per intenderci del sirenide Dugong dugon, unico rappresentante del suo genere ma membro di quella categoria informale con il nome di “mucche dei mari” che comprende i lamantini dei mari del Nuovo Mondo (gen. Trichechus) ed annoverava tra le sue file fino al 1768 anche la ritina di Steller (Hydrodamalis gigas) prima che la caccia spietata che ne era stata fatta nell’intero corso dell’epoca delle esplorazioni la portasse alla scomparsa non recuperabile dai mari di questa Terra. Creature come questi grossi erbivori purtroppo, nonostante la forte costituzione ed assenza di significativi predatori una volta raggiunta l’età adulta, sono del tutto incapaci di mettersi in salvo dall’equipaggio determinato di un’imbarcazione, fornendo di contro alla loro dipartita preziosissime risorse alimentari, di grasso, denti ed ossa adatte alla lavorazione artigianale, per di più associate a un’ampia serie di credenze ed un profondo significato culturale in molte delle culture presenti nel suo vasto territorio di diffusione. Che si estende dall’Australia settentrionale all’Africa Orientale, passando per Indonesia, Filippine, Sud-Est Asiatico, India ed Arabia, con una particolare concentrazione nel Golfo dell’Oman. Dislocazione variegata a dire il vero capace di rendere più complessi, piuttosto che semplificare, i processi normativi necessari all’implementazione di possibili programmi di protezione…

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L’aspetto del piccione che cerca il suo becchime sotto gli alberi della foresta equatoriale

Presenza rassicurante dell’ambiente cittadino, al pari dei semafori, cartelli pubblicitari e fermate dell’autobus, l’uccello più integrato con i ritmi e metodi dell’esistenza comunitaria interspecie sembra aver assunto, attraverso il trascorrere dei secoli, una serie di parametri distintamente indicativi. Così nonostante l’avvenuta addomesticazione, in particolari ambienti professionali come la consegna di messaggi, piuttosto che nel settore commerciale degli animali domestici, l’uccello dei giardini e delle piazze non parrebbe aver subito la particolare diversificazione che caratterizza creature come cani, gatti o addirittura pesci rossi discendenti dalla carpa dei laghetti e corsi d’acqua della grande Cina. Quasi come se raggiunto l’optimum di quel lungo e travagliato processo evolutivo, che ha creato in essi il più perfetto cercatore di provviste tra i recessi dell’asfalto ed i secchioni della spazzatura, avessero istantaneamente serrato i rubinetti del progresso a vantaggio della propria grigia progenie alata. Se non che in determinate circostanze alternative, dove i grattacieli perdono l’asfalto e sono fatti di corteccia, legno e intrecci di radici, è stata la natura stessa di suo pugno a disegnare una diversa soluzione della stessa equivalenza matematica, giungendo ad un valore di X dalle dimensioni a metà tra una pernice ed un pollo domestico, creature con cui condividono anche la poca predisposizione al volo. Chiamato non per semplice similitudine creata dagli artisti, Otidiphaps nobilis ovvero il “nobile” piccione-fagiano. Il tipo di volatile non privo di una sua innegabile ed invero sostanziale eleganza, con il corpo nero sormontato e incorniciato dalle piume delle ali di un contrastante color nocciola, che continuano in una coda piatta a ventaglio capace di ricordare vagamente i plurimi cappelli costruiti con le piume degli eponimi volatili europei. Nonché, vero e proprio segno particolare di riconoscimento, un piccolo rettangolo in corrispondenza della nuca, di una colorazione appartenente a ben quattro possibili varietà distinte, contrastante con gli occhi e il becco dall’intensa tonalità vermiglia.. Ora tale aspetto di raffinatezza e signorilità, fin dalla prima classificazione avvenuta nel 1870 ad opera del grande ornitologo britannico John Gould, fu alla base di una lunga serie di disquisizioni, in merito alla possibilità che i rilevanti aspetti dell’eclettica e possibilmente monotipica specie nella vasta famiglia dei Columbidi potessero effettivamente essere altrettanti specie differenti, piuttosto che varianti dello stesso animale. Un approccio contestuale particolarmente utile, in potenza, nell’agevolare la conservazione del nostro amico, all’interno dei suoi specifici e notevoli ambienti di provenienza. Già perché il piccione fagiano, per quanto concerne il proprio areale di provenienza, vanta una terra dalle caratteristiche geografiche altamente distintive: niente meno che la seconda isola più vasta al mondo della Nuova Guinea, assieme all’arcipelago di piccoli satelliti di terra emersa che gli ruotano attorno tra il suono ripetuto ed il ritorno prevedibile dell’alta marea. Là, dove non sempre gli uomini e le donne hanno avuto il coraggio e l’inclinazione di avventurarsi alla ricerca di eccezionali, biologici tesori…

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L’odierno pterodattilo con la passione per l’architettura aviaria incombente

La sostanziale conformità esteriore di una vasta varietà di espressioni artistiche, indipendentemente dalla regione geografica di provenienza, può essere almeno in parte attribuita ai tratti comuni dei molteplici organismi di questa Terra. Dopo tutto, un ragno sudamericano possiede un certo numero di zampe, assolutamente identico a quello di un suo parente situato in territorio africano. I grandi felini cacciano in maniera simile in prossimità dei tropici, mentre gli uccelli battono incessantemente il proprio prevedibile paio d’ali. Il che risulta chiaramente valido ogni qualvolta ci si approcci alla questione da un punto di vista generico, mentre nel particolare i risultati possono raggiungere diverse percentuali di soddisfazione dell’argomento di partenza. Poiché vi sono specie, formalmente appartenenti a una determinata categoria, le cui caratteristiche fondamentali si distinguono a tal punto da sfidare i limiti di una categoria, riportando potenzialmente allo scoperto linee guida sfumate ormai da tempo oltre la foschia retrograda dell’asse temporale degli eventi. Così al di là della sua superficiale somiglianza con talune tipologie di dinosauri volanti, è dalla sua prima classificazione scientifica avvenuta nel 1789 che l’hamerkop (“testa di martello” in Afrikaans/Olandese) elude ogni classificazione di tipo tassonomico, avendo finito per meritarsi un proprio genere e una propria famiglia. Scopidae>Scopus>S. umbretta è dunque una tipologia diffusa d’uccello pescatore dei bassi fondali subsahariani, di dimensione media (50-56 cm) e diffuso in circa quattro quinti del continente africano a meridione del Marocco oltre al Madagascar e parte dell’Arabia, con le concentrazioni massime raggiunte all’interno di acquitrini, laghi, fiumi, pozze ed occasionalmente tratti di costa sufficientemente riparati dagli scogli. La sua principale caratteristica anatomica, nonché origine del nome stesso, è identificabile nella particolare conformazione del cranio allungato, che controbilanciando la forma appuntita del becco si estende oltre la linea curva di un lungo collo, con una configurazione ulteriormente accentuata dalla presenza di un ciuffo di piume erettili in corrispondenza della nuca. Tratti molto evidenti che ne rendono particolarmente facile il censimento, anche per la maniera in cui è solito planare con il collo esteso esattamente come una cicogna, ma ritrarlo e ripiegarlo su se stesso nello stile di un airone ogni qualvolta giunge il momento di prendere quota battendo le ali. Dicotomia etologica piuttosto insolita, come la sua stessa eredità genetica, tale da averlo fatto categorizzare per lungo tempo all’interno dell’ordine dei Ciconiiformi, almeno finché studi molecolari maggiormente approfonditi e recenti hanno permesso d’individuare i suoi parenti più prossimi nei Pelecaniformi e il becco a scarpa (Balaeniceps rex) l’impressionante pescatore dell’Africa Orientale dell’altezza di fino a 140 cm. Con cui l’hamerkop condivide l’abilità nell’individuare la preda tra piccoli mammiferi, rettili o pesci ed uncinarla con la punta del becco, prima di procedere a trangugiarla in un singolo, drammatico boccone…

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Il verde calice del cobra che condanna l’insetto di palude statunitense

Principalmente nel popoloso stato della California, oltre alla parte meridionale del selvaggio Oregon dai verdi boschi ed alte colline, la morte può assumere un aspetto singolare e al tempo stesso stranamente affascinante. Di un fiore ed una foglia ripiegata su se stessa ad arte, in modo tale da costituire a tutti gli effetti uno spazio chiuso, come l’anticamera dell’ultima destinazione di coloro che ne varcano i confini, con assoluta naturalezza d’intenti. Dopo tutto non è certo possibile per una mosca, una zanzara, un coleottero, pianificare il proprio stesso suicidio. Ed è per questo che la Darlingtonia californica, altrimenti detta “giglio cobra” sfrutta i prevedibili meccanismi del loro istinto, per portarli fino all’autonoma ed irrimediabile condanna. Non fatevi, tuttavia, trarre in inganno da quel nome: qui non c’è proprio alcun collegamento con la famiglia dei lilium, né l’aderenza ad alcun tipo di modello proveniente dal vasto regno delle monocotiledoni. Quanto piuttosto l’aderenza a linee guida scritte a chiare lettere nella storia biologica del mondo, in un periodo che viene convenzionalmente fatto risalire all’Oligocene (25-44 milioni d’anni a questa parte) quando questa creatura vegetale corrispondente in maniera univoca ad un genere completamente distinto, ebbe ragione e modo di divergere dalle altre varietà della famiglia Sarraceniaceae, egualmente dedite alla pratica dell’annientamento indistinto e progressivo delle piccole creature volanti di questa Terra.
Sarà chiaro a questo punto il fatto di trovarci innanzi ad una pianta carnivora del tipo cosiddetto ad ascidio, termine riferito per antonomasia anche alla notevole struttura che questa intera categoria forma, tramite l’avvolgimento e la saldatura ai margini delle proprie foglie, verso un risultato del tutto simile ad un calice del tipo normalmente riempito nel corso di occasioni conviviali con il dolce vino ed altre bevande pregiate. E che in effetti anche per loro tende a diventare, nella maggior parte dei contesti ambientali, un ricettacolo dell’acqua piovana, con tutti i problemi che possono derivarne: il peso aumentato che grava sul fusto della pianta, la compromissione dell’esca nettarina usata per facilitare l’ingresso delle prede nella trappola, ma soprattutto l’annacquamento degli speciali enzimi o batteri commensali contenuti all’interno, allungando conseguentemente il tempo necessario alla “digestione”. Così che diverse tipologie di piante carnivore dotate di un calice, da quelle nordamericane alle Nepenthes della parte meridionale di quel continente, impiegano sistemi differenti per limitare l’accumulo di acqua, da vere e propri scarichi in prossimità del fondo, del tutto simili a quello del lavandino, alla presenza di un opercolo, sostanzialmente una sorta di coperchio della foglia, capace di deviare in parte o del tutto l’acqua piovana. Nessuno, tuttavia, del tipo posseduto dalla singolare Darlingtonia, la cui forma arcuata, con sotto una vera e propria lingua biforcuta, finisce notoriamente per rassomigliare a qualcosa di totalmente diverso: la testa concentrata e meditabonda di un serpente pronto a lanciare il proprio assalto all’indirizzo di una vittima inconsapevole ed impreparata…

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