L’enorme muraglia costruita in Africa per proteggere la capitale del Benin

Esiste una modalità interpretativa della storia dei nostri predecessori secondo la quale, tra i molti criteri possibili, la migliore indicazione dell’importanza pregressa di una civiltà è individuabile nel lascito tangibile delle sue costruzioni durature nel tempo. Quasi come se la capacità di costruire utilizzando determinati materiali, e farlo prima di tanti altri, costituisse un merito del tutto imprescindibile, nella creazione di un’ideale classifica dei popoli attraverso il succedersi dei secoli e dei millenni. Ciò non spiega, tuttavia, la mancanza di agevolazioni nei confronti di tutti coloro che avendo raggiunto determinate vette, sono poi tornati nelle più profonde valli delle circostanze, a causa di risvolti spiacevoli o in qualunque modo inappropriati nella “naturale” progressione storica degli eventi. Ben pochi conoscono allo stato attuale, per esempio, l’esistenza pregressa di una grande muraglia superiore per le dimensioni al Vallo d’Adriano in terra d’Africa occidentale, ed invero paragonabile alla principale opera di fortificazione costruita 2.000 anni fa in Cina. E che sebbene posta in essere in un’epoca più recente di entrambe, viene giudicata in base a determinati criteri una delle più significative opere antecedenti all’invenzione dei macchinari pesanti. E tutto questo presumibilmente per la naturale esigenza del consorzio umano, di difendere le proprietà ereditate dalla cupidigia dei popoli, potenzialmente da quella stessa dei propri coabitanti. In base al mandato di un sovrano del tutto simile a una divinità e che proprio per questo, necessitava anch’egli di disporre di un’invalicabile barriera tra se stesso e gli altri, la propria famiglia, la propria stessa madre.
Quando i primi esploratori portoghesi, nel sedicesimo secolo, entrarono in contatto con il potente regno militarizzato di Edo, che per una mera coincidenza condivideva il nome con la capitale del Giappone all’altra estremità del globo, scoprirono dunque l’ultima cosa che si sarebbero mai aspettati: un vasto centro urbano nel mezzo di una costa selvaggia, altrimenti disabitata, eppur paragonabile nelle dimensioni e concentrazione demografica a luoghi come Lisbona o Porto. Dove l’esistenza di un codice legale era evidente, e la gente viveva in pace e un tale rispetto reciproco da non aver neppure bisogno di porte in corrispondenza dell’uscio delle proprie case. Eppure il viaggiatore Duarte Pacheco Pereira, redigendo un resoconto della propria visita, scrisse esplicitamente che non vi era nessun tipo di muraglia ma soltanto un fossato, forse per il categorico rifiuto di considerare tale l’inevitabile terrapieno risultante dallo scavo di semplice materia fangosa, compattato ed alto, ai suoi occhi nulla più di una friabile barriera. Altri, a distanza di meno di un secolo, non l’avrebbero pensata allo stesso modo, come esemplificato dai diari dell’olandese Dierick Ruiters, che descrisse nel 1600 un’alta porta utile ad oltrepassare la suddetta barriera, insolitamente ricoperta di vegetazione ed alti alberi perfettamente funzionali al suo rafforzamento. Volendo quindi prendere in esame l’intero estendersi di tale opera architettonica, incluso quello che rimane delle sue ali periferiche nelle campagne dell’intera regione, si può giungere alla cifra impressionante di 16 chilometri d’estensione, almeno quattro volte più della sezione coéva ricostruita e solidificata dalla Cina della dinastia Ming. Questo grazie all’originale periodo di consolidamento e sviluppo della manodopera garantito dall’egemonia del principe Ọranyan, figlio dell’Ogiso (Re) in esilio Ekaladerhan, che venne richiamato attorno al XIV secolo d.C. per proteggere il popolo dai suoi nemici e raddrizzare i torti imposti da una classe dirigente corrotta e priva di scrupoli. Ripristinando gli imperituri metodi esternati dalle vecchie metodologie di governo…

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Il sovrano ellenistico dei cieli sepolto nel cuore della montagna

Nel 1881 l’ingegnere infrastrutturale tedesco Karl Sester, con l’incarico di definire le strade per i trasporti dell’Impero Ottomano, si trovò a passare per una regione un tempo strategica dell’Anatolia, situata tra la Siria e gli antichi confini del regno d’Armenia. Perfetto punto di passaggio eppure lungamente abbandonato, per l’assenza di risorse idriche utili alla creazione di un insediamento dell’epoca moderna. Eppure come sappiamo le condizioni ambientali di questo pianeta possono variare anche nel giro di qualche secolo, ed ancor più al volgere dei ponderosi millenni, tanto che gli storici già collocavano qui dal tempo successivo alla morte di Alessandro Magno una piccola, ma influente nazione, nota alle cronache col nome ellenistico di Commagene. Fondato dal sovrano iraniano della dinastia Orontide noto come Mitridate I Callinico, che si era sposato con la principessa Laodice VII Thea dell’Impero Seleucide, allineata politicamente, ed imparentata, con il gruppo di generali che avevano ereditato i pezzi dismessi del grande impero, passati alla storia con il nome collettivo di Diadochi. Quello che Sester scorse, dalle profondità della valle in cui stava elaborando il suo piano di fattibilità ed in vetta al vicino colle di Nemrut, alto ben 2.134 metri, fu tuttavia l’opera imperitura del figlio di quei due grandi personaggi, l’altrettanto celebre ed invero ancor più influente Antioco I, detto Theos Dikaios, il giusto ed eminente dio. Una qualifica ampiamente esemplificata dalla massiccia presenza sopra l’arida pianura del suo hierothesion, o vasto monumento funebre simile a una sorta di rudimentale mausoleo. Che potremmo anche chiamare semplicemente un tumulo, sebbene uno dei più grandi mai costruiti, ed invero così avevamo fatto, finché l’accidentale ed incuriosito visitatore tedesco non scrisse un resoconto dei resti delle numerose statue crudelmente decapitate per ragioni non immediatamente chiare, divise in due gruppi sui terrazzamenti artificiali posti sui lati Ovest ed Est di una tale singolare caratteristica del paesaggio. La cui riscontrata esistenza, inoltrata in forma epistolare all’Istituto Archeologico Tedesco, indusse l’immediata visita dello studioso Otto Puchstein, il quale effettuò alcuni rivelamenti preliminari senza dare inizio agli scavi, per la mancanza di strumentazione e tecnologia adeguate. Fece seguito una spedizione Turca per la pubblicazione di un libro sull’argomento nel 1883, egualmente inconcludente nel giungere a conclusioni risolutive. Fu perciò soltanto mezzo secolo dopo, ad opera del più celebre archeologo Friedrich Karl Dörner che assieme ad un’altra importante figura legò il suo nome a questo sito, che le teste di pietra cominciarono ad emergere dalla polvere ed il pietrisco, permettendo d’iniziare a ricostruire la probabile identità delle loro effigi.
L’immagine che potete evocare per comprendere l’effetto che un simile luogo doveva avere all’epoca della sua costruzione, fatta risalire con assoluta certezza al primo secolo a.C. grazie alle numerose epigrafi, i frammenti di cronache e addirittura lo schema astronomico incluso in uno dei bassorilievi che si accompagnano al complesso monumentale principale, è quella di una coppia di schieramenti appartenenti ad una qualche vetusta versione del gioco degli scacchi, con la presenza riconoscibile di Zeus in persona facente funzione del Re, affiancato dai suoi figli e fedeli alleati Apollo, Ares e la Dea del vicino Oriente Commagene, poco nota fuori dai confini del regno che portava il suo nome. Ma soprattutto, ed è senz’altro questo l’aspetto cruciale dell’intera faccenda l’effige di Antioco I in persona, che proprio in tale guisa veniva fatto ascendere tra le schiere degli altissimi, ed in funzione di ciò acquisiva la propria immortalità imperitura per i molti secoli a venire. O almeno questa era l’idea di partenza, sebbene gli imprevedibili risvolti della Storia, e tutto ciò che questi comportano, avessero un piano differente per il suo lascito, affini a quelli esemplificati dal famoso componimento in versi di Percy Bysshe Shelley, in merito alla rovina ricaduta sulle grandi opere statuarie di Ozymandias, il nome letterario del faraone Ramsete II…

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Ritorna finalmente il festival del longboard ballerino tra le affollate strade della capitale sudcoreana

Durante i lunghi e travagliati mesi del Covid, lo sport è stato per molti l’àncora di salvezza e il vento che soffiava nel mare in bonaccia, l’approdo sempre disponibile nel mezzo della tempesta. Eppure per quanto la pratica di un qualche tipo di attività fisica o allenamento, oltre a una distrazione, potesse costituire anche il pretesto per varcare l’uscio di casa nel periodo storico più grigio e flemmatico delle ultime sei decadi (almeno) esse venivano declinate ripetutamente in una singola modalità operativa: quella della prassi solitaria, auto-regolata e individuale, di se stessi e i propri limiti, le personali aspirazioni di quei momenti. In un mondo in cui la vicinanza tra gli umani può essere considerata un pericolo, e la società stessa sembrava aver deciso in tal senso, non c’era più semplicemente spazio per quasi alcun tipo di comparazione, amichevole o meno, tra le personali capacità e i risultati di un così completo percorso personale attinente alle attività fisiche, o d’altra natura. Terminata finalmente la forzata pausa di ogni manifestazione, festa, concerto e raduno, il mondo è entrato quindi in una nuova fase; in cui l’economia fatica ancora a riprendersi, il turismo è lento a ritornare (complice anche la tragica situazione in Ucraina) ma una cosa, per lo meno, appare più che mai tornata alle condizioni ideali di un tempo. Dopo tutto, chi vorrebbe continuare a vivere tra quattro mura rigide e troppo spesse, fatta eccezione per brevi momenti di svago, come le ore d’aria per i prigionieri di un invalicabile castello?
Lo YouTuber/Tikotker/Instagramer Yuki (alias Yuki do it) che qui siamo chiamati a conoscere è in effetti un assiduo praticante di quel particolare tipo di attività su ruote che prende il nome internazionale di Longboarding, come derivazione diretta della prassi associata negli anni ’50 ai surfisti hawaiani, ogni qualvolta le onde latitavano o esageravano la propria potenza, trasportando il desiderio di spostarsi sopra un’asse semovente fino alle strade di quell’arcipelago distante. Quando i desideri collegati ma in conflitto, di poter saltare giù nelle piscine delle abitazioni e risalire all’altro lato, piuttosto che lanciarsi rapidi per le discese di quei luoghi, portò alla creazione rispettivamente dello skateboard di fino a 55 centimetri di lunghezza e qualcosa di… Più esteso. Inerentemente associato per definizione alla rischiosa disciplina del downhill e che soltanto molti anni dopo sarebbe stato sdoganato da un simile settore, per la sua naturale utilità nel mettere in pratica un diverso approccio all’utilizzo di quel particolare mezzo espressivo: la cosiddetta “danza” su terreno pianeggiante e ininterrotto, una deviazione e (nell’opinione di alcuni) assoluta sovversione del pre-esistente metodo acrobatico freestyle, per il perfezionamento di un ritmo che giustifica se stesso senza significativi rischi per la persona. Strano, imperdonabile, letteralmente inimmaginabile nel mondo “duro e puro” delle quattro ruote sotto-tavola, almeno fino al diffondersi preponderante di un breve segmento virale datato al 2016, scaricato direttamente dal profilo social dell’artista coreana e ripreso da innumerevoli testate pseudo-giornalistiche su scala pressoché globale. La scena, a ritmo di musica, in cui l’artista coreana Hyo Joo effettua una serie di curve concatenate nell’approccio gergalmente definito come carving, mentre posiziona in rapida sequenza i propri piedi sopra un longboard dalle dimensioni particolarmente significative. Avanti, indietro ed una piroetta dopo l’altra, fino alla realizzazione di quella che può essere soltanto definita come la più interessante e inaspettata delle coreografie…

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L’antica utilità nascosta dell’oggetto che ha la forma di un dodecaedro romano

Ritrovati tra un migliaio di anni, la maggior parte degli oggetti del mondo di oggi si dimostrerebbero immediatamente facili da capire. Non ci sono particolari dubbi sulla funzione possibile di una tastiera, un mouse, un telefono cellulare. Lievemente più complesso, di suo conto, risulterebbe l’immediata comprensione dell’originale funzione di un Tamagotchi, un fidget spinner o un pupazzo Furby, nell’ideale assenza di fonti esplicative o pubblicitarie a cui fare riferimento. Non che vada molto meglio a noi che l’abbiamo! D’altra parte ciò è applicabile in modo analogo all’interpretazione delle antiche civiltà, ove può essere successo più volte che l’oggetto di turno sia rimasto privo di spunti d’analisi in ogni testo filologico da noi posseduto. Generando un fiume d’ipotesi spesso logiche, certe altre, diametralmente all’opposto. Esiste almeno un caso eminente, tuttavia, in cui nulla sembrerebbe essersi dimostrato utile a smorzare la selvaggia iterazione dei teorici, semplicemente in forza della propria unicità di forma, apparenza e l’interconnessione pressoché impossibile con ogni disciplina o tratto culturale a noi noto. Il che risulta più che mai apparente già dal semplice nome impiegato, meramente descrittivo nella sua natura di quanto gli occhi possono apprezzare d’istinto: un dodecaedro romano, ovvero la forma totalmente geometrica, assolutamente riconoscibile, di una monade sostanzialmente funzionale ad un’idea. Peccato che ogni singola persona di questa Terra, ormai da tempo immemore, ne abbia perso ogni ricordo sostenuto dall’evidenza. E di oggetti come questi, è assolutamente fondamentale sottolinearlo, ne sono stati trovati di gran lunga troppi a partire dal 1739 per poterli relegare al ruolo di semplici ornamenti, decorazioni prive di significato o la creazione autonoma di un artigiano locale. Ben 117 con dimensione variabile tra i 4 ed 11 centimetri lungo l’intero estendersi del principale impero dell’antica Europa, con particolare frequenza in Galles, Ungheria, Germania, Francia, Spagna e qualche volta in Italia. Spesso collocati nelle tombe di figure presumibilmente importanti, assieme ad altri tesori metallici o monete preziose. Già perché i dodecaedri stessi, alquanto inaspettatamente a giudicare dal contesto storico in cui li abbiamo collocati, sono tutti realizzati in bronzo, una lega tutt’altro che accessibile all’epoca del passaggio al sistema imperiale, per l’assenza di significativi giacimenti di stagno situati a meridione delle isole inglesi. Una considerazione, questa, che parrebbe limitarne in modo significativo le possibili qualifiche, facendone un oggetto di assoluto valore materiale e perciò difficilmente relegabile al semplice ruolo di ninnolo, umile attrezzo o passatempo. Almeno finché non si considera la dura legge della sopravvivenza: di dodecaedri in legno avrebbero potuto esisterne letteralmente centinaia di migliaia, se non milioni. Tutti andati persi, idealmente, come polvere nel vento dei millenni, all’usura inevitabile di un tale materiale. Con la palla nuovamente al centro, dunque, diamo inizio alla declinazione delle stravaganti elucubrazioni…

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