La dannata zebra giapponese fugge ancora

Zebra Escape

Settanta persone e non riuscite a prenderla… Vi scappa una volta, ci può anche stare. Ma lasciarlo succedere di nuovo! E poi che dire del rinoceronte, della tigre! Del gorilla, persino! La Isla del Dr. Moreau Vs. Jurassic Park. Oggi siamo qui riuniti, al cospetto di Internet, per manifestare il nostro sdegno contro le ingiustizie del sistema delle soluzioni “a posteriori”. Come ogni anno, puntualmente, a Tokyo si verifica una situazione d’emergenza dalle potenzialità nefaste. Com’è possibile, domando e dico, che gli zoo permettano la fuga di animali antropomorfi, solamente a scopo d’intrattenimento? Esseri selvatici ma intelligenti, evoluti al punto da disporre di due gambe, braccia ed una camminata innaturalmente eretta. Eppure è tanto facile, una volta catturato il mutante, chiuderlo in gabbia per gettare via la chiave. Onde prevenire il rischio della ribellione, che conduce al potenziale d’infortuni niente affatto…Trascurabile. Dev’esserci una sorta di perversa forma d’empatia, dovuta all’apparente grazia di queste creature. Che porterà al sovvertimento dell’intera società, quando soltanto “loro” scopriranno quanto sono forti, terribili, feroci! È l’orribile realizzarsi dell’imprescindibile teoria del Caos.
Chiunque abbia mai visitato il Giappone, a colpi di click se non in altro modo, certamente conosce la diffusione sregolata degli adorabili uomini-pupazzetto, ovvero le buffe creature definite yuru-chara. Stiamo parlando, per intenderci, di tutte quelle mascotte istituzionali che, non corrispondendo ad uno specifico prodotto bensì un luogo o ad un servizio, come una città, un paese, una polizia di prefettura (regione) dovrebbero nell’idea generativa suscitare l’interesse della collettività, possibilmente incrementando gli introiti dovuti al turismo ed alla vendita del merchandising. Negli ultimi anni in particolare, ce n’è stato un notevole aumento demografico, con un moltiplicarsi che viene generalmente fatto risalire allo spropositato successo di Hikonyan, il goffo gatto cornuto associato all’umile castello samurai di Hikone, che a partire dal 2007, trovandosi associato a quel musetto inumano, è riuscito a generare introiti stimati sui 218 milioni di dollari, vedendo assurgere il pupazzo ad una fama locale comparabile a quella di un Superman o Mickey Mouse nostrano. Tutti volevano un’effige di peluche, il cappellino, la maglietta, il campanello al collo del benevolo orsacchiotto tenerone. E fu proprio quello, dopo tutto, l’inizio di un terribile destino. In breve tempo, ciò che era stata una trovata transitoria, si trasformo in una sorta di collettiva ricerca del secondo e quindi “fulmine” in bottiglia, ovvero un uomo-bestia che sia immediatamente in grado, non soltanto di promuovere i punti forti di una specifica location presso il suo pubblico d’elezione, generalmente non più distante di un paio di centinaia di chilometri; ma persino, immaginatevi, proiettarlo su scala internazionale e perché no, globale. Oggi il Giappone, domani il Mondo? Qualcuno potrebbe esclamare, non senza una punta di rancore: “Tutta colpa di Pikachu!” E non sarebbe totalmente giusto, dargli torto.
L’evoluzione è proceduta inevitabilmente, per gradi. Non molti conosceranno, specialmente qui da noi in Italia, le discussioni che nacquero nel 2009, per la presentazione al pubblico di Sento-kun, l’atteso yuru-chara disegnato in occasione dei 1.300 anni trascorsi dalla fondazione dell città di Nara (ex Heijō-kyō) la più antica capitale di quest’arcipelago, sede di templi pluri-centenari e ancor più antiche tradizioni. Orbene per quest’occasione, si pensò bene di affidare la responsabilità di creare l’essenziale mascotte ad un comitato, che a sua volta fece scarica-barile sulla figura di un artista conclamato, Satoshi Yabuuchi, scultore e docente dell’Università di Tokyo. Ora, forse costoro non erano pienamente al corrente della sorta di benevola rivalità che talvolta riemerge tra le due metropoli dei nostri giorni, che assieme a Osaka e Kyoto costituiscono, sostanzialmente, la residenza di una buona metà dell’intero popolo giapponese. Oppure, anche questo è possibile del resto, il buon prof. si era trovato lì per caso, tra una serata con gli amici e una bottiglia di sakè. Fatto sta che il suo prodotto, subito sancito e sanzionato dalle istituzioni (chissà poi perché) prese l’aspetto di un bimbetto con la testa glabra di un fervente buddhista, i pantaloni corti, una strana fascia rossa ad abbigliarlo e due gran corna di cervo sulle tempie. Un chiaro segno di avvenuta contaminazione del DNA. Ora, è convenzione collettivamente accettata che gli yuru-chara siano “buffi”, “goffi” e “poco raffinati” ma va da se che la blasfemia, generalmente, sia considerata un plus da omettere per la serenità di tutte le parti coinvolte. Ci furono proteste. Nessuno si comprò quei bambolotti. Ma fin troppo pochi compresero come quello fosse unicamente l’inizio, di un qualcosa di ben più gravoso e problematico…

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L’eterna lotta degli inglesi con la segnaletica stradale

Terminal Communication

Tutti posseggono l’intelligenza e l’attenzione, la cautela, la capacità di concentrazione, lo spirito d’osservazione, il senso e la presenza di spirito necessari per mettersi al volante responsabilmente, e raggiungere la propria meta senza il sopraggiungere di eventi catastrofici o incidenti. O almeno, questo è ciò che deve ottimisticamente pensare l’ingegnere urbanistico, colui che sopra il tavolo progettuale, sia vero che virtuale, traccia la ragnatela di sottili linee e punti d’interesse, che nel tempo si trasformeranno in vie d’asfalto per i pendolari. Con la penna in una mano, il globo della scienza infusa dentro all’altra, che sfavilla d’incomparabile e profondo desiderio. Ciò perché, affinché si realizzi tale condizione di massima, occorre un equilibrio tra i due princìpi, della funzionalità e semplicità d’impiego. Che talvolta può essere difficile da mantenere. Che in altri momenti, particolarmente fortunati, si configurerà spontaneamente del profondo mare dell’occulto desiderio. E che in determinati casi, invece ahimé, lì resterà sommerso, fino al verificarsi delle condizioni più…Abissali.
Sulla carta, non sembrava tanto male, come idea: siamo presso il molo portuale del traghetto di Rosslare, che dalla sua sede presso la punta sud-est dell’isola d’Irlanda, si occupa dal 1906 di trasportare gli automobilisti fino all’antistante Inghilterra. Dove, a giudicare dalla soluzione adottata, c’era un piccolo problema di traffico all’imbarco. Perché naturalmente, nessuno sceglie d’implementare una cosa simile senza il più gravoso dei pretesti, che tante strade per l’Inferno lastricò, una buona, orribile intenzione. Sostanzialmente, una barriera. Incolpiamo, se davvero è il caso, la presente telecamera stradale, che come da sua prerogativa era stata utilizzata per creare un valido compendio degli altrui comportamenti in questa sede. Dunque sembra quasi di vederla, la figura professionale dell’addetto alla questione, uno studio effettuato sopra i nastri analizzati di parecchi mesi o settimane, che fiduciosamente postula: “Se la fila per il TERMINAL si forma sempre su due corsie, mentre le automobili che vanno sulle NAVI sono relativamente poche, allora di sicuro c’è un errore. Poco male. Tutto quello che devo fare, è…” Una follia? Un colpo di genio? Sarebbe troppo facile parlare, senza prendere atto dell’intera situazione. Il fatto è che al momento della pubblicazione del presente bizzarro video-documento (eravamo addirittura nel 2010) lo svincolo multi-corsia di Rosslare si era arricchito di uno spartitraffico divisorio, mirato a trasformare l’ultima delle corsie SHIP nella seconda per il TERMINAL, raddoppiando quindi lo spazio a disposizione per tale agognata meta. Il risultato…Beh, giudicatelo voi. Il fatto è che l’automobilista medio, quando si mette al volante, non è davvero cosciente di quanti dei suoi gesti siano frutto di un velocissimo processo di ragionamento, e quanti invece derivino dai meccanismi semi-automatici, frutto dei suoi (potenzialmente) molti anni d’esperienza. Portando a reazioni che, come avviene per l’istinto animalesco, non possono che basarsi su un catalogo di esperienze pregresse. Riassumibili nella presunzione secondo cui, se in terra c’è una freccia, quella è chiaramente latrice di un messaggio, che potrebbe riassumersi in: “Mio caro amico, passa di qui.” E non certo, “No! Stai attento alla barriera!” Ogni deviazione dalla norma è un potenziale pericolo, dunque? Possibile. Persino, probabile. Il fatto poi che le scritte siano tutt’altro che chiare, unito a un improvviso, apparente bisogno collettivo di accostarsi ed urinare, di certo non aiuta.
Ma è del resto proprio lì nelle isole di Gran Bretagna, che ormai da più di mezzo secolo si perpetra il mantenimento del problema collaterale, una soluzione tanto complessa e bizantina al problema del traffico che soltanto un amore sconfinato per la tradizione, unito ai lunghi anni di onorato servizio, potrebbero giustificarne l’esistenza continuata. Il suo nome è Rotatoria Magica, e come per ogni altra esistenza dotata di una tale apposizione fiabesca, la sua storia nasce da un’incomparabile leggenda.

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La vita proletaria all’epoca degli hoverboard

Hoverboard Tradie

Fluttuando silenziosamente da una strada all’altra, come un fantasma col gilet stradale, l’eccellente operaio della città di Brisbane svolge le mansioni predeterminate. È al settimo cielo: si sente con le ruote ai piedi. “Lavoro, lavoro!” È la gioia, il sentimento, la cognizione di stare assolvendo ad un bisogno che è anche e soprattutto il proprio, molto prima che del committente/pagatore. “Ah, che meraviglia!” Subissati dalle condizioni dei contratti a termine ed interinali, abbiamo finalmente riscoperto come battere su un chiodo in un cantiere, o usare un cacciavite in fabbrica per assemblar le macchine per il caffé con cialde, non fossero in effetti dei diritti di nessuno. Ma veri premi stipendiati, da porsi al coronamento di promesse fatte dal profondo della stessa essenza personale: io non mi arrenderò. Io ci crederò, fino alla fine. Fin da quando avevo 7 anni, ho sempre sognato di <inserire a seconda dei casi>. Io non sciopererò. Perché sarò dedito all’operazione, cosciente della posizione, perfettamente umano e addirittura più di quello; un ingranaggio del Sistema e del Mercato. O ancora meglio, un tradie, come dicono da quelle parti, giù agli antipodi tra squali e pinne di canguro.
Il manovale che sa svolgere almeno un mestiere immediatamente utile, e in funzione di quella rara cosa, può disporre di una posizione certa nella vita. Indipendentemente dalla firma apposta in fondo alla sudata busta paga. E c’è una sorta di ironia celebrativa, a mio parere, nel video buffo recentemente prodotto dal palestrato Jackson O’Doherty, nient’altro che l’ennesimo aspirante regista (comico) affiorante dalla distesa spesso radioattiva, ma pur sempre feconda per il frutto delle idee, che è il portale googleiano di YouTube. Che si occupa della particolare categoria citata e del suo ruolo nella società australiana, che si determina, ovviamente, in primo luogo dai fattori di contesto. E non è dunque vero, gente, che viviamo in un’epoca fondata sulla base della splendida tecnologia? E non è forse altrettanto reale e tangibile, l’umana esigenza di sfruttare gli strumenti a disposizione per massimizzare la propria fallimentare efficienza innata? Da che hanno inventato le biciclette, nessun bambino consegna più i giornali a piedi. E chi mai si affiderebbe a un fabbro che ad oggi, scegliesse nostalgicamente di battere il suo ferro sull’incudine impiegando dei martelli manuali… Non è poi così difficile da riassumere in una mera singola espressione, purché ci si affidi al darwinismo. Diritti del lavoratore: evolversi. Doveri del lavoratore: [evolversi]. Se Tizio e Coso fanno 9, per un prezzo di 5, mentre Caio ne pretende 6, egli può soltanto perire. A meno che inizi a fare 10 in cambio di 6, oppure 8 ma ne chieda 4. Perché la diversificazione dell’offerta è fondamentalmente, mutazione. In una ricerca continua di nuovi metodi per giungere a destinazione. Ed è il viaggio stesso, a questo punto, che diventa molto più movimentato…
Ora, io non so se sia effettivamente probabile, di qui a poco, il realizzarsi di questo scenario distopico, in cui l’uomo dell’elmetto bianco non è più pagato “per camminare” ma soltanto per spingere innanzi con il proprio baricentro quel curioso oggetto semovente, che potrebbe sostanzialmente descriversi come una versione ridotta ai minimi termini dell’originale monopattino auto-bilanciante, l’ormai leggendario Segway. Che prende il nome, per ragioni largamente ignote, dall’ipotesi cinematografica inserita nel secondo Ritorno al Futuro (1989) di un skate privato delle ruote, in grado di fluttuar liberamente nell’aere grazie a singolari meccanismi preter-gravitazionali. Un sogno fantastico ed irrealizzabile. Mentre quello vero, di hoverboard, le ruote le possiede, eccome. Due grosse ed ingombranti, prone a dare tutta una serie di problemi. Tanto da finire per essere odiato un po’ da tutti, negli ultimi mesi, incluso (strano a dirsi) il suo stesso inventore.

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Uomo assaggia una razione militare risalente al 1959

MRE Info

Nelle botti piccole, questo è noto, c’è il vino migliore. E in quelle vecchie il più prezioso. Ma esistono bottiglie, a questo mondo, che tu non berresti mai, neppure in presenza di un’etichetta fra le più prestigiose, o con la garanzia che viene dal profondo di una celebre cantina. Semplicemente perché è il loro stesso aspetto, a renderle poco invitanti: quando persino lei, la più amata delle bevande alcoliche, è stata tenuta in condizioni di stoccaggio inadeguate, a una temperatura superiore a quella ideale, ed ha assunto quell’aspetto torbido di una coltura di batteri, che si accompagna al gusto metamorfizzato del volgare aceto…Ma ora immaginate, per mero esercizio comparativo, di essere degli enogastronomi consumati, con alle spalle una carriera vasta come il mare, e di ricevere all’improvviso la notizia che da oggi, sarà totalmente impossibile bere vino precedente all’anno 2000. Perché? Hanno scoperto, diciamo, che fa male. A quel punto, potreste davvero abbandonare la vostra passione, così di punto in bianco? (il rosso e il nero!) E dimenticare quella letterale montagna di aromi e sapori, potenzialmente sviluppati attraverso la ruota dei mesi, che derivavano dagli anni ed anni di sapiente attesa…
Ebbene, questa è sostanzialmente la situazione vissuta, quotidianamente, dagli appassionati di un particolare tipo di esperienza alimentare, che incorpora in se stessa un differente studio della storia, il gusto estremo di una prova di coraggio, addirittura, in un certo senso, il collezionismo propriamente detto, delle scatole o lattine di contorno. Persone come il qui presente Steve1989 MREinfo, che pratica occasionalmente la degustazione dei pasti pronti degli ambienti militari, le cosiddette razioni C, pensate per sostituire il cibo fresco (razione A) o quello confezionato e da cuocere (razione B) in tutti quei casi in cui ci sia una guerra da combattere, o ci si trovi in missione solitaria presso luoghi selvaggi e/o remoti – il Polo, l’Equatore, così via. Un vero e proprio hobby, che tuttavia richiede l’insolita capacità di mandare giù qualsiasi cosa, indifferentemente dall’aspetto e dalla provenienza. Questione chiaramente esemplificata dal suo recente video qui mostrato, relativo ad una rara MRE (Meal, Ready-to-Eat, in realtà un’antonomasia ripresa dal nome del prodotto americano) preparata originariamente nel 1959 per le forze aeree canadesi, e che almeno stando a quanto ci viene fatto notare, sembrerebbe aver subito condizioni di stoccaggio meno che ideali. Il sospetto viene già dal primo sguardo, dato all’affascinante lattina di un retrò verde oliva, chiusa con lo scotch per una spedizione più sicura, che appare ammaccata e scolorita, a causa degli anni trascorsi dentro a qualche derelitto magazzino. Una volta aperta, sotto un breve pamphlet con informazioni generiche di sopravvivenza, si realizza il primo shock estetico: tra due masse nerastre, di provenienza indefinibile, campeggia una doppia fila di quelle che sembrerebbero delle grosse e variopinte caramelle gelatinose, generalmente incluse nel menù per il semplice fatto che i carboidrati sono assimilabili dal nostro organismo con quantità d’acqua relativamente ridotte, e in più tali cibi si conservano anche molto, molto a lungo. Entrambi grossi vantaggi, nello specifico contesto qui descritto. Negli ambienti statunitensi esisterebbe tuttavia una diffusa diceria, secondo cui mangiare l’equivalente locale prodotto dalla compagnia Charms sarebbe un gesto latòre di sventura. Probabilmente una leggenda derivante dal sapore di detti dolciumi, che benché apprezzabili dai bambini, in condizioni di consumazione occasionale, così inseriti all’interno di un vero e proprio pasto con finalità di fare da contorno alla portata principale, tutto fanno, tranne che aiutare l’appetito. Di noi comuni mortali. Ma vogliamo parlare, dunque, di quest’ultima essenziale componente? Il cupo ammasso in corso di disfacimento (ma non maleodorante, un ottimo segno!) che Steve si trova a definire, a nostro beneficio, come l’approssimazione di un fruit cake! D’accordo, hai mordicchiato un dolcetto ormai diventato duro come il diamante, oppure due, ma di certo non oserai…

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