Che succede se si forgia l’alluminio

Forgia di barattoli 1

Che c’è di meglio, per contrastare l’improvviso gelo di un finale d’anno all’insegna degli orsi polari, che la fiamma imperitura dell’industria? Mettersi a giocare, tra l’ora di pranzo e il primo pomeriggio, con un mucchio di carbone, qualche barattolo e un fuocherello da 1800 gradi Fahrenheit. I quali saranno pure, tanto per dire, meno della metà in Celsius. Questo è vero. Ma risultano comunque sufficienti: 1 – per scaldarsi un po’ le mani. 2 – Per forgiare l’alluminio, ma dai?! Una pratica nobile ed antica. Un passatempo per spericolati hobbisti, bevitori della quotidiana Coca-Cola e Fanta oppur Red Bull. Il primo passo nella costruzione autogestita di una fusoliera d’aeromobile, il primo strumento del moderno gentiluomo, assieme al bastone d’ebano e la pipa del Barone Rosso. Strani passatempi, questi di cui si ritrovano i tutorial, di un’epoca ancora più bizzarra: quando la limitazione della conoscenza, per effetto dell’onnipresente Internet, si è dileguata. Lasciando il posto solamente alla coscienza, ovvero quell’omino che ti fa: “Sarà veramente il caso che io prenda un gran barattolo di ferro, lo riempia di calce e pozzolana e poi ci faccia un fuoco dentro, tanto caldo da squagliare la struttura cristallina del metallo?” Rischiando di soccombere, irreparabilmente, alla potente tentazione di scoprire. Certo, è un esperimento potenzialmente periglioso, questo qui. Consigliato unicamente a chi capisce i rischi e le implicazioni di versare malamente il contenuto di un semplice crogiolo, anch’esso fatto in casa, puta caso pieno di fondant fuoriuscito dall’Inferno. Io personalmente, mi accontento di guardarlo online.
E quale miglior Virgilio, inoltrandosi fra tali valli del dolore fortunatamente solo potenziale, che Grant Thompson alias “The King of Random” (Il Re del Vagheggio) già inventore d’innumerevoli cerini-razzo, mini-balestre, torce-barattolo di tonno, catapulte per marshmallows et così via. Cose molto utili, talvolta, sempre divertenti, sia nella teoria che ad essere approntate, pregustando l’uso successivo. Ma mai così prima d’ora, mai su questa scala, di estrema baldanza e temerarietà. Il principio, in fondo, è molto semplice. Il punto di fusione dell’alluminio è di esattamente 660 gradi, appena il doppio, dunque, di quella di un forno elettrico di casa. Il che vuol dire che, anche senza manomettere costosi apparecchi da cucina, può bastare l’ingegno per tornare alla materia prima. Non come i nostri predecessori antichi romani, che scavata la bauxite, il minerale con maggiori componenti del prezioso allume, dovevano attentamente separarne polvere finissima, come l’oro dai ruscelli del Klondike. Perché non soltanto, oggi viviamo in una società industriale. Ma addirittura post-scarsità, in alcuni, significativi campi, come la chimica applicata ai materiali. Così ecco, che tutto quell’irraggiungibile materia (per inciso, l’alluminio è sempre stato il metallo più diffuso nella crosta terrestre) viene facilmente trasformata e resa utile, in diversi campi, incluso il duro e puro consumismo, l’usa e getta e così via. Tutte quelle lattine, che peccato! Poco importa del colore o del disegno sulla curvatura del cilindro, della marca e del logotipo che l’accompagna. Siamo sopra quella fase, ormai, nel misterioso e oscuro Dopo: alla Bat-rigenerazione, Zelda!
Dev’essere stato semplicemente emozionante. King ha preso quello che lui chiama un bucket (secchio) di acciaio galvanizzato ma a me sembra tanto una fioriera della nonna, e l’ha foderato nella parte interna di uno spesso strato di materiale isolante. Racconta, nella descrizione, di aver provato, nell’ordine: cemento, sabbia, perlite, acqua e persino la lettiera dei gatti. Trovando infine il mix ideale del 50% di intonaco parigino, 50% di sabbia da parco giochi per bambini. Quindi, in tale compatto pertugio, ha inserito la metà inferiore di un estintore faticosamente segato, perfetto crogiolo metallico, con giusto l’intercapedine lasciata libera per un generoso apporto di carbone. Vi lascio immaginare il seguito…

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Il segreto per fotografare il vento

Schlieren

Splendido metallo dalle molte cromature, prevalentemente di colore rosso. Curve frutto di un attento sforzo progettuale. L’unica parte rettilinea: il parabrezza, perché il vetro temprato, da che l’hanno creato, non si può piegare, pena perdita di resistenza. Mentre sul cofano bombato, campeggia un cavallino in campo giallo. Disegnato, punto. Mica è una Rolls questa, ragazzi! Quella cosa fatta per sfilare sulle strade sonnolente del profondo lusso… Tutto, in questo arnese veicolare rigido e nervoso, è stato concepito per non disturbare i flussi dell’aerodinamica, che tanto maggiormente sono significativi ed importanti, quanto più si va veloci. E non soltanto le auto sportive oppur da corsa, bensì addirittura gli aeroplani, debbono venire messi, a un certo punto del processo costruttivo, dentro a un tubo scuro, giù nello stabilimento, per provare come spostano quel fluido d’invisibile possanza, l’aere trasparente. Ovvero, l’atmosfera. Tutti, in linea di principio, ben conoscono il tunnel del vento, luogo in cui viene simulato tale spostamento, spinta innanzi con la forza di turbine o gran ventilatori, alle velocità obiettivo del gingillo di giornata. Ma di sicuro non avrete pensato che una tale cosa funzionasse, unicamente, grazie all’uso del computer! Che in qualche maniera, vibrazioni impercettibili dell’atmosfera fossero reinterpretate da sensori, trasferite in numeri, ed usate per il calcolo degli ingegneri… Anche perché, se così fosse stato, e parliamoci chiaramente: oggi è possibile virtualizzare addirittura il vento, ebbene si, ve lo concedo! Ma se così fosse stato da principio, allora che ce la mettevi a fare, l’automobile nel tunnel? Tanto valeva simulare pure quella.
L’aeronautica conta ormai oltre un secolo di vita. Mentre i recenti processori miniaturizzati, le schede video, i sistemi di calcolo euristici e tutte le altre diavolerie non hanno che un secondo di vita, al confronto, lungo l’asse della storia tecnologica del mondo. Si progetta, con la mente. Si costruisce, con le mani. E per valutare il frutto della propria laboriosa impresa, da che mondo è mondo, si usa il senso principale della scienza, l’occhio umano, che può percepire molte cose. Tranne normalmente, il vento (che ci serve appunto in questo caso). Perché è ovvio, se ci pensi. Potrebbe mai vivere il pesce nell’Oceano, se “vedesse” l’acqua? Qualora le correnti, i vortici, gli accidentali mulinelli, fossero per lui come le nubi del vasto cielo, agli occhi degli abitatori della superficie…Non potrebbe mai trovare il cibo, e ancor meno il suo sentiero verso casa. Ecco, noi così, con l’aria. Gli organi di ogni forma di vita si sono evoluti, attraverso i secoli e i millenni, per percepire cosa serve necessariamente: la roccia, l’albero, la tigre in agguato tra il canneto. Ed ignorare tutto il resto. Ma è qui che rientra in gioco quella risorsa fuori dai comuni meccanismi della vita. La lente artificiale della tecnica applicata.

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La lunga strada di Rosetta verso la cometa

Rosetta

Essere umani fino a quello, giungere ad un punto tanto estremo e divergente. Di ricordarci, all’improvviso, della cosa che avevamo perso, volontariamente, quasi 11 anni fa. Tra un vortice di fiamme! Oltre il velo delle nubi! Lungo l’aria rarefatta e infine, molto-molto dopo, al di là di corpi cosmici e pericolosi bolidi interplanetari. È questo il metodo, d’altronde, in cui si svolge ciascun viaggio. L’entusiasmo che monta, gradualmente, fino al giorno lungamente atteso e poi la noia. Per ore ed ore, di aeroplano, automobile, biscia di vagoni su rotaie senza fine. Verso quel momento memorabile della giunzione, ovvero quando si uniscono le aspettative, con la verità finale. Sarà all’altezza, il rosso Marte, dei tre o quattro anni che ci metteranno ad arrivarci? Tanta vita, messa al servizio di un’ipotesi, soltanto. Potranno i nostri eroi futuri, tanto probi e così sfortunati da essere i prescelti, edificare, costruire, preparare la colonia dell’umanità esodata del domani…Tali ed altri orridi quesiti, resteranno misteriosi, fino alla realizzazione dell’Ipotesi, la messa in opera dell’Obiettivo. Ma una cosa è certa: ci dimenticheremo di loro, prima dell’arrivo, esattamente come abbiamo fatto con Rosetta, l’infiocinatrice intelligente.
Immaginate di svegliarvi una mattina, fra il lusco e il brusco, con un sogno ancora nella mente: “Capitano Achab, baleniera Pequod. Quanto è vero il soffio caldo dei Monsoni, prenderò l’aringa bianca che ho avvistato col mio cannocchiale. Dovessi metterci l’intera vita, arr!” Pressappoco questo, meno il pappagallo e la gamba di legno, fecero i maggiori esponenti del management dell’ESA (l’agenzia spaziale europea) nel 2000, alla stesura teorica delle quattro cornerstone missions per i successivi 15-20 anni: SOHO, l’osservatorio destinato alla superficie fiammeggiante della nostra stella, il grande Sole, da usarsi assieme a Cluster II, un gruppo di sonde lanciate ai margini della magnetosfera; XMM-Newton, cannocchiale orbitante a raggi X rivolto ai confini dello spazio più profondo; l’intrepida Rosetta, di cui sopra/sotto; e infine INTEGRAL, un satellite per lo studio dei fenomeni dei raggi gamma. Proprio come il sogno. Anzi, c’era un’altra differenza: il pesce si chiamava 67P/Churyumov–Gerasimenko, dai suoi scopritori che riuscirono a scorgerlo nel 1969 per caso, mentre osservavano le lastre fotografiche di un’altro macigno rotolante con la coda di cometa: 32P/Comas Solà. Fast-forward di 45 anni, cosa vuoi che sia.
Perché questo fanno, gli scienziati ingegneristici al servizio dell’esplorazione cosmica: pianificano con estremo anticipo, emulando i tempi dilatati dello spazio siderale. Altrimenti come potremmo mai venire a patti col concetto di una sonda, lanciata da 10 primavere a questa parte, che soltanto adesso potrà dare i frutti di una scienza tanto lungamente attesa! Decodificando, come da nome rilevante, l’antica stele multi-lingue, che da un decreto del faraone Tolomeo V Epifane (196 a.C.) ci svelò il segreto degli eterni geroglifici egiziani.

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Sembra un fiore, invece è ferrofluido

Ferrofluido

Porcospino nero liquido che scorre. Ma non verso il basso, all’incontrario! Su per la salita e fino in cima, ad acquosa mimesi dei capelli, dove sboccia fior di cardo, senza freni gravitazionali. Se lo tocchi, la mano ti diventa nera. Non lo fare. Un liquido ben saturo di particelle di metallo, ecco che cos’è. Già piuttosto fuori dal comune, come sostanza, senza andarci a mettere anche la forza motrice dell’elettro-magnete. Nascosto, come in questo caso, sotto a una scultura dalla forma funzionale, eccezionale. Nel creare uno spettacolo perfettamente logico e fisicamente saldo, eppure innaturale. Guarda: pare proprio un gioco di prestigio.
Questi fluidi misteriosi, una vecchia conoscenza dei video virali internettiani e diversi gruppi d’artisti, derivano dall’agglomerato di innumerevoli minuscole particelle (anche meno di 10 nanometri ciascuna) di ematite, magnetite o ferro, diluite all’interno di un liquido che ne annienti la viscosità. Olio, possibilmente, o un qualche tipo di solvente organico. Altrimenti, altro non diventerebbero che sabbia bagnata. Mentre da tale commistione nasce l’incontro fortunato qui messo in mostra, che dimostra chiaramente le caratteristiche del secondo stato della materia, liquidità, eppure ha una sua forma corrugata e incancellabile. Pronta a riapparire, nel momento della verità: ovvero quando si accendono le telecamere, tu guarda il caso. Il fenomeno si chiama Normal-field instability benché non abbia, all’apparenza, proprio nulla di normale. Avevate mai visto l’acqua, quel preponderante re dei fluidi, disporsi nell’apparente susseguirsi di picchi e valli, picchi e valli, in un modo tanto carico di sottintesi, interessante al tocco e affascinante per lo sguardo… Forse, se vivete su Titano, sesta luna di Saturno. Oppure, in altri luoghi ultramondani. Qui da noi, questa è l’unica maniera, che fa capo a quello che si chiama, per l’appunto, ferrofluido. Non certo ferro, fluido.
Il suo comportamento nasce dall’incontro di diverse forze contrastanti. La maggiore, chiaramente, è quella della potente calamita, generalmente al neodimio, usata per sollecitare il movimento. Come in un motore d’altro tipo, questa pone le basi della scena, a partire da quel gesto quasi universale, la pressione di un interruttore. Ma non c’è niente di indotto, in quello che succede dopo; ebbene si, contrariamente all’apparenza, questo succedersi di bitorzoli è la forma che garantisce la migliore conservazione d’energia. E dunque, ciò che l’ordine prestabilito del cosmo impone per definizione, addirittura in tali assurde circostanze. In cui la gravità deve combattere con quell’unico nemico che conosce, il magnetismo, e nel farlo stabilisce la surreale forma d’armistizio.
L’energia percorre il fluido, tendendo a disperdersi. Ma poiché l’aria è meno invitante, a tale scopo, di quest’acqua nera, per ciascuna propaggine l’endemica viscosità interviene sulla linea di ritorno, creando l’avvallamento dell’onda. In un perfetto susseguirsi regolare, fino al ritorno sospirato di uno stato di equilibrio, semplice e apparente. Imposto al mondo per il pubblico ludibrio di colui che lo comanda.

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