È giunta l’ora (di dare al porcospino la sua zucca)

Porcupine Pumpkin

Ah! Gioite, è la stagione. Il giorno e l’ora, l’orrido momento. Quando gli spiriti del mondo, secondo le credenze d’Oltreoceano, vagano su strade dissestate in cerca d’anime da annichilire. E noi non contenti, già di questo, lì a vestirci come zombie, poliziotti e giustizieri con il volto della morte stessa. Apotropaico, chiaramente, resta il senso della cosa: come nel grande Oriente, in cui le immagini dei mostri e dei dragoni, fin da quando esiste la pittura, son servite a scoraggiare spiriti maligni e la sventura, personificata. Almeno, nell’idea fondamentale di partenza. Poi, si cambia e si va oltre; finché ormai nessun ricorda, di quel fabbro buono a nulla, Jack-della-Lanterna, che il diavolo stesso, truffò. E che per il voler di quello già scornato, come ogni volta capita, venne alla fine condannato. Alla trasformazione, di lì e per sempre, in mostro occulto della Notte, con luce di ben fievole speranza e denti acuminati, ricavati dalla scorza di una rapa vuota.
Tali ortaggi sono ovunque, già intagliati ormai da tempo e messi sopra i davanzali (di chi preferisce, alla Befana, feste d’altri mondi culturali) Il momento è prossimo. E guai saranno certamente, per tutti quelli privi di un tal volto sghembo posto a guardia della casa! Presto visitata dai vampiri, dalle streghe et cetera. Il funzionamento? Davvero chiaro. Ogni cosa dalla forma circolare, nell’immaginario collettivo, è come un uovo. Da cui scaturiscono le cose più diverse. Non soltanto così, zucche. Esiste pure il caso di una sfera esatta, mezza bianca e mezza rossa, con un tasto in mezzo; come da copione, tale Pokéball può contenere…Le creature variopinte, di una festa senza fine, il carosello di battaglie del famoso videogioco giapponese. Come la zucca ospita fantasmi e pipistrelli, perché dal canto suo li crea, con il gesto dell’allontanamento. Tutto esiste, se ci credi abbastanza da giocarci. Esiste, addirittura il porcospino americano! Ma devi crederci davvero, oppure non verrà.
“Ho le spine dentro” Sembra dire: “Non toccarmi o te ne pentirai” E in seguito, cento altre cose differenti, con la rabbia e un senso di assoluta fame ed entusiasmo. Teddy Bear, come hanno scelto di chiamare la bestiola, non tace proprio mai. Le sue vocalizzazioni sono un continuo susseguirsi  di piagnucolii, lamenti e gridolini. Benché l’origine dell’ansia, a ben guardarlo, sia supremamente chiara: è frutto di una gioia sopraffina. Perché l’animale ha ricevuto, come dono stagionale, un’intero calderone di zucchette. Roba rara-rara-veramente, sulle tavole del mondo. Certamente, perché prive di sapore, soprattutto, e poi utili per l’altro scopo, quello protettivo di cui sopra. Eppure, ad averceli, compagni casalinghi come questi. Si vivrebbe molto più sereni…

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La marionetta che nutre gli scoiattoli a Washington Park

Styx la marionetta

Lo skyline di New York, vertiginoso susseguirsi d’infinite torri, luci ed ombre sfolgoranti, è una visione che conduce ad un profondo senso di burbanza. Se invero, come in effetti scruta l’occhio di noi tutti, la moderna architettura urbana è riuscita a costruire tutto questo, quali sono i suoi limiti effettivi? Cos’è un disastro epocale, un’eruzione, una tremenda epidemia, dinnanzi alla proliferazione dei nostri ineccepibili alveari… Soltanto un segno a margine, sul fondo della pagina del mondo! Ciò che resta è tutto, tranne quello, ovvero il punto di partenza. La natura. Salvo rari casi, eccezionali ed eccellenti. Perché il miracolo maggiore, all’occhio della civiltà contemporanea, indubbiamente, in tale mistico miraggio cementizio, non sarà mai “L’egoismo industriale che conduce alla potenza della volontà” (Come affermava una certa filosofa, tanto associata a vecchie vicende, quivi consumate) bensì, lo spazio negativo. Il modo in cui, persino giunto a questo punto, l’animale pseudo-quadrumane più sviluppato vi abbia lasciato, con gioia ed entusiasmo, spazi verdi, liberi dalle automobili e la vribrazione della metropolitana. Sono questi, i parchi pubblici, moderne basiliche del mondo.
Ove s’incontrano, come in universi paralleli, strani esseri e creature. Certamente avrete avuto modo di notare, nelle vostre avventure d’intellettuali, una stranezza della pianta cittadina di Manhattan, quell’isola che un tempo fu degli ”indiani” (pellerossa). E adesso, invece, ne ospita di diversa gradazione, provenienti da tutt’altro continente, per guidare i taxi e fare gli anfitrioni dentro a certi ristoranti. Per non parlare dei nostri paisà….Si, l’avrete notato. Forse, ci sarete pure stati! Dentro a quei suggerimenti di quadrati. È il paradosso principe dell’urbanistica statunitense: tutto nasce dall’attenta pianificazione, risultando più geometrico dell’incontro fra un cardo e un decumano. Così è, se ci fate caso. Dozzine di rettangoli verdognoli, ricchi di spunti validi d’approfondimento. Ce ne sono di diversi gradi e dimensioni. Il maggiore, quel Central nato dall’opera di Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, risale al 1856 ed è una vera giungla. Un pozzo in cui si perdono i veleni atmosferici e spariscono dentro ai laboratori delle foglie. Qui ci sono papere, cavalli e caroselli. Ci sono ben tre laghi artificiali. Oltre a molta gente, chiaramente. Eppure, questo non è il luogo della Scena. Quando si parla di spazi negativi, non è la grandezza che fa l’importanza. Ma la tenacia, il senso continuato d’esistenza. E cosa sono, in fondo, 843 acri, dinnanzi ad un incrocio veramente pregno e quella forte tradizione d’elevarsi!
Se New York veramente, come molti dicono, ha la forma di una mela, l’Isola è il suo torsolo. Con ben due semi verdi e rigogliosi, sovrapposti, l’uno in contrapposizione all’altro. Il primo è grande e luminoso e ombroso e assai sabroso. L’altro, posto al suo nadir, è piuttosto, significativo… Lo chiamano Washington Park perché si trova lungo la Fifth Avenue, e confina con la piazza omonima, dal fiero monumento. È stato praticamente circondato, nelle ultime decadi, dagli edifici dell’Università ed è diventato, forse anche in funzione di ciò, un luogo di rinomato anticonformismo. Qui è ancora probabile, rispetto a quell’altro parco ormai troppo frequentato, che si verifichi il miracolo tipicamente americano. Di una persona sola, che dispone un podio, o alza un cartello e inizia a declamare. Con la gente che passa di lì e si ferma, qualche volta, ad ascoltare. O soltanto ad osservare, in altri strani e rari casi.

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Sciocco scoiattolo, tuo figlio non è una nocciolina!

Red Squirrel

I roditori hanno una naturale propensione al raggiungere il nucleo centrale del problema. Nel caso celebre del topo messo dentro a un labirinto, ad esempio, ogni volta va a finire nello stesso modo: non importa quanto sia lungo e tortuoso il sentiero da seguire. Quanto piccolo il pezzetto di emmenthal bucato… “Quel formaggio sarà mio” sembra enunciare il cacciatore, prima d’inoltrarsi, gambe in spalla, coda a far da strascico e timone, verso quell’uscita benedetta col tesoro posto a far da sacro segnaporta. E naturalmente, non si può risolvere una tale cosa, il dedalo degli scienziati, senza visitarne il centro esatto, come fosse il cuore di una ghianda, della noce oppure della vita stessa, riprodotta in forma percorribile per dar ludibrio ai cupi sperimentatori. Può sembrare crudele, eppure non lo è. Può dar l’idea di una sublime forma di tortura, l’ansia di un irrisolvibile miasma, ma è invece bello per l’umano, come per il topo, trionfatore dell’ennesima battaglia con la fame di emozioni e placide soddisfazioni. Incredibile, meraviglioso.
E i criceti nella ruota. Corrono senza un perché, verso destinazioni mai sentite, viste o raccontate, vivide soltanto nella loro mente. Dove si nasconde, intonso, un’altro tipo di remoto labirinto. Forse il più complesso, fatto di villi e di cavilli, quel cervello che li spinge a deambulare tanto per campare, industriarsi, evitando di annoiarsi. Quando un roditore, qualunque sia la sua genìa, entra in quel mondo dell’insussistenza, nulla può fermarlo, neanche l’evidenza. Ecco una scoiattola del tipo chipmunk, lo sciuride Tamias dalle graziose strisce, che ha concepito l’idea strana, quanto illogica, di far di un paracarro la sua casa. Si tratterebbe, stando alla descrizione del presente video, della struttura metallica protettiva, evidentemente cava, posta tutta intorno ad un RV (l’acronimo, tipicamente americano, che indica i camper oppure le roulotte). Già un ostico proposito, visto il modo in cui l’accesso sia soltanto un limitato buco nero, pressappoco circolare, con un diametro che è pari ai fianchi dell’intera bestiolina. E praticamente impossibile, quando si nota come la futura abitatrice, prima di potersi rilassare, dovrà introdurvi il proprio figlioletto “alquanto” cresciuto. Diciamo, adolescente? Anzi, si. Praticamente è grosso quanto lei.
Ma nella società degli arrampicatori silvani, quadrupedi dalla soave coda, l’età non una conseguenza dell’anagrafe. Bensì quella che ti senti dentro! Così, da esemplare bamboccione, offre l’unica collaborazione di raggomitolarsi, per quanto possibile, aspettando di essere portato a meta, per sdraiarsi e accendere il televisore. E spingi e tira, alza e premi (uff!) Nonostante tutto, alla fine…

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Riunisce i Beatles nel pancake

Beatles Pancake

Certe mattine, dopo una notte trascorsa tra le pieghe oniriche dei sogni, ti risvegli con la musica dentro al cervello. “Hey, Jude” Ti sembra già di sentire “Non portare tutto il mondo sulle spalle, it’s a fool who plays it cool” e se yesterday tutti i tuoi guai erano così lontani, oggi sono arrivati, per restarti accanto e toglierti la pace. Di pensare. Quindi tanto vale mettersi a mangiare! Si, ma cosa? Cosa, voglio dire, se non il dolce per purissima eccellenza, la cosa più semplice che abbia mai coperto superfici antiaderenti. Da una rigida padella, gialla morbida eccellenza, da coprire con il miele, con il sole, con un mare in tempesta; di sciroppo d’acero, possibilmente, come fanno i canadesi, che il martedì prima di Pasqua, loro non lo chiamano: Grasso, bensì Pancake Day. Chi meglio di quel popolo, poteva ispessire una comune crêpe. E renderla indimenticabile, ai bambini di ogni nazionalità. Sopratutto delle Americhe, dove mancano i cornetti con la cioccolata, ahimé.
Nathan Shields, che si autodefinisce some guy with his kids (il tizio coi marmocchi) non è certo il primo cuoco ad aver scelto di abbellire i propri dolci. E i reality tematici della TV satellitare sono pieni, ormai da tempo, di architetti della glassa, scultori del fondant, filosofi creatori dello zucchero più stravagante. Abbiamo visto torte a forma di castelli. Cattedrali, alberi o montagne. C’è stata quella fatta come un carroarmato (per riaccogliere il soldato di ritorno) quella che sembrava un taxi (festa del neo-pensionato) e un’altra, uguale uguale all’università di Harvard, campo da football incluso. Eppure dai diamanti spaccadenti, Lucy in the Sky, non nasce veramente nulla. Così alla fine dell’apocalittica ultima cena, con dozzine d’invitati allucinati, divoratori dell’equivalenza commestibile di cingoli, pneumatici e palloni, restava sempre un certo di tipo di fame; che non era proprio fame, ma piuttosto…Un languorino spirituale. Di ritrovare il gusto semplice dell’immediatezza, come nel sapore, anche nell’arte di abbellirlo. Da mangiare con gli occhi e guardare con la bocca, evviva la sinestesia! E le orecchie?

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