La torre thailandese avvolta nelle spire di un dragone

Wat Samphran

Gli artigli che ghermiscono, la coda che si avvolge. Gli occhi fiammeggianti che cercano l’alto Kama-Loka, il reame paradisiaco di chi si è lasciato dietro le tribolazioni terrene. Forse nessuno aveva immaginato, all’epoca del grande boom degli anni ’80 e ’90, che la capitale della Thailandia, Bangkok, avrebbe avuto la sua personale e specifica Manhattan, nel distretto dagli alti grattacieli di Sathorn. Un’elevarsi di cemento con migliaia di finestre, da cui scrutare l’orizzonte di un paese che guardava, allora più che mai, verso il futuro. Questo grande paese che, a differenza di Taiwan, Corea, Singapore ed Hong Kong, non fu mai eletto in quegli anni come prototipica “tigre d’Asia” ovvero una potenza economica nascente, che rischiava di mangiarsi l’economia globale a colazione. Ma ci andò davvero molto, molto vicino. Perché fu allora che, grazie agli investimenti provenienti dall’estero ma soprattutto dal Giappone, il paese uscì dall’economia di sussistenza, creando un’intero settore industrializzato a sostegno della sua fiorente agricoltura. E la ricchezza, si sa, conduce dall’attaccamento e all’avidità. Così, un palazzo dopo l’altro, l’antica sede del potere temporale dell’impero di Ayutthaya, detta la città dai molti tesori sull’oceano, ha visto i suoi templi circondarsi di edifici torreggianti, che soffocavano il contatto col passato. E un destino simile, benché meno verticalizzato, si ritrova espletato anche nella regione circostante di Nakhon Pathom, sede fra le altre cose, dello stupa più alto al mondo, lo spettacolare Phra Pathommachedi. Un luogo semi-rurale, tranne per l’omonima cittadina di 120.000 anime presso cui ha sede il grande tempio, dove strade s’incrociano verso utilitaristici punti di riferimento: l’università, le aziende del settore primario, la scuola della polizia locale. Ed è proprio lì, presso un’incrocio che s’inoltra in mezzo alla campagna, che è possibile scorgere una vista totalmente inaspettata: è rossa, questa torre. Alta 14 piani, con dozzine di finestre. E una creatura gigantesca che la avvolge, perennemente immobile nella sua apparenza chiaramente statuaria. Fermo restando che sull’immediato, l’analogia tipica del turista occidentale potrebbe configurarsi come: “Sarà un parco giochi?” Oppure, approssimare nella mente una simile spiazzante immagine a quella delle insegne sulle autostrade, costruite per attrarre le persone verso un autogrill o centro commerciale, la seconda ipotesi non può che trarre ispirazione dal contesto: dovrà trattarsi, ovviamente, di un luogo di culto…
Internet è piena di visioni culturalmente affascinanti, che pur colpendo l’occhio, tendono a restare largamente non spiegate. E il tempio torreggiante del Wat Samphran, in larga parte, tende a restare tale, con alcuni siti che consigliano di visitarlo, specificando unicamente come manchino le indicazioni sulle guide turistiche, ma senza spendere parole sulla sua misteriosa storia. Il che, da una parte, è utile a dargli un’ipotetica importanza storica, un valore che da sempre, porta soldi al clero e ai suoi occupanti laici d’occasione. Mentre la realtà, facilmente intuibile dai metodi impiegati per la costruzione, è che si tratta di una struttura piuttosto moderna, una che un commento al video di apertura colloca attorno a una trentina di anni fa, collegandola all’opera di insegnamento e proselitismo di Bhavana Buddho (al secolo Chamlong Konsue) un uomo presunto santo ma che verso la metà degli anni ’90 si scoprì essere implicato a una brutta storia di molestie ai minori, assieme ad 8 monache del suo prestigioso luogo di culto. Ma non prima di averlo reso splendido, variopinto e costellato di meravigliose viste, tra cui l’immancabile statua dorata di Buddha alta diversi metri e un’intero edificio a forma di tartaruga, presso cui rendere omaggio a questo longevo animale, venerato come bodhisattva (santo salvatore) dalla dottrina del Buddhismo Theravada. E poi, naturalmente, c’è la piccola questione del drago. Un vero e proprio mostro architettonico, costruito in ferro e probabile fibra di vetro, all’interno del quale, pare, è addirittura possibile camminare, benché sia totalmente buio, e la maggior parte dei turisti preferisca usare l’ascensore. L’interno della torre, a quanto ci raccontano, ha un’aria vaga di abbandono. Come del resto buona una parte delle altre insolite creazioni della Thailandia trionfante di fine secolo, lasciate a loro stesse con lo scoppio dell’inevitabile, sempre temuta bolla finanziaria.
Con l’incarceramento del sacro fondatore, che si dice aveva avuto una visione che lo indusse a costruire il tempio in mezzo a quella che era, allora, una foresta, una buona parte dei suoi fedeli smisero di frequentare questi luoghi, collegati a troppi brutti ricordi. Nel libro A Secret History of the Bangkok Hilton (autori: Chavoret Jaruboon, Pornchai Sereemongkonpol) un cui estratto è disponibile liberamente su Google Books, si parla brevemente dell’insolita situazione degli anni seguenti ed invero molto probabilmente, anche attuali, dell’ex monaco che viene ancora visitato presso la sua cella, da dove tiene lunghi sermoni a vantaggio dei seguaci più fedeli, continuando ad affermare la sua impossibile innocenza. Mentre il grande drago, nel frattempo, resta silenzioso.

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Le moto-sculture di un “Michelangelo” dell’Art déco

Decoson

“Dannato Zardoz, questa volta non mi sfuggirai!” Esclamò Gordon fra se al semaforo, mentre si guardava attorno circospetto, prima di attraversare la trafficatissima Rodeo Drive, la sua micro-astronave sfavillante sotto il caldo sole della California verso l’inizio della primavera. Cromature, dietro al suo sellino, cromature sul manubrio e le fiancate, cerchioni cromati e neanche a dirlo, un casco degno di far parte di un servizio in silverware, con tanto di coda aerodinamica appuntita, per incoraggiare l’aria a far la scia. E in tasca un foglio consegnatogli direttamente dal sovrano direttorio della Federazione dei Pianeti, con sopra l’identikit, la descrizione e l’itinerario del nemico pubblico numero 1, un uomo incauto e disattento, che per l’ultima volta aveva messo i suoi bastoni tra le ruote del club dei potenti della vecchia Terra, John, Jim, Jackson e Lorelene (l’unica donna dell’intera cintura alcolico-asteroidale!). D’improvviso, i pirati della Sesta Luna palesarono il consueto attacco aurale, sul momento della curva delicata per immettersi su Carmelita Avenue per dirigersi verso i territori periferici di Santa Monica, quando un grosso Hummer-tron, veicolo tutt’altro che inusuale in tali luoghi, suona il clacson disturbante all’indirizzo del centauro spaziale. Con la mano destra che già lascia il suo manubrio, per stringersi sul calcio della piccola pistola a raggi in dotazione dal consueto sferoide rosso in punta, come le ray-gun dei vecchi film di fantascienza, Gordon guarda chi c’è a bordo della minacciosa fuoristrada; ah, ok! Di nuovo! È soltanto un giovane che lo saluta, sorridendo. Ah, questi terrestri… Non avete mai neppure visto, un’astro-personal-motorbike-aerodynamic-Decoson? Sollevando momentaneamente gli occhialoni da aviatore, l’eroe galattico si solleva in alto sul sellino, quindi compie un gesto di spontanea simpatia. Ma l’attimo di relax è già trascorso, mentre i letterali metri al secondo scorrono sotto di lui, assieme all’asfalto e a ogni residuo di tranquilla umanità. Le ingiustizie devono essere contrastate. E il fattorino-criminale, questa volta, porterà la pizza al giusto club dei giocatori di ruolo fanta-stellare. La “Federazione”, per l’appunto, dei Pianeti. “Dannato Zardoz!”
Strani veicoli si aggirano per le strade degli Stati Uniti occidentali: non sono molti, ma colpiscono immediatamente l’immaginazione. L’opera complessiva del glitterato garage di Green Pass di Randy Grubb, nel verdeggiante Oregon dei parchi naturali e della Cascade Range, costituisce l’insolita dimostrazione di quello che succede quando il buon gusto (piuttosto raro) incontra la tipica passione statunitense per i mezzi di trasporto personalizzati, costruiti generalmente con finalità meramente utilitaristiche, come le classiche hot-rods prive di cofano, o votate agli eccessi ad ogni costo, vedi tutti quei rombanti monster trucks con ruote giganti, oppure i dragsters, veicoli sottili quanto un freccia, ed altrettanto abili nel curvare. Mentre qui siamo di fronte ad un qualcosa di generalmente utilizzabile, benché non proprio limitato da un design che si possa realmente definire, minimalista. Ed è proprio dalle misurate vie di mezzo, ancora una volta, che nasce un principio totalmente oggettivo di assoluto ed armonia. Le sue creazioni più recenti, coronamento di un progetto nato attorno al 2012-13, meritano poi un paragrafo del tutto dedicato: visto che costituiscono, per la prima e speriamo non ultima volta, l’applicazione del suo metodo al mondo delle due ruote, con tre classi ben distinte di scooter e moto, ciascuna, di per se, degna di guidare sugli anelli di Saturno. In primo luogo abbiamo il deco-bipod, sostanzialmente nient’altro che un motorino Piaggio Fly 150, al quale è stata rimossa interamente la carrozzeria, per sostituirla con…Qualcosa…Di unico. Un vero e proprio guscio aerodinamico in alluminio, del tipo che lo stesso Randy sa creare, un singolo pezzo alla volta, ribattendo il malleabile metallo con i suoi strumenti, tranquillamente degni di trovare posto nell’officina di un fabbro. L’oggetto è organico e flessuoso, con un corpo a forma di goccia che si stringe nella parte posteriore, un singolo faro frontale e due luci di posizione montate su gondole rialzate, simili agli ugelli di un razzo spaziale. Le rivettature delle singole piastre, incastrate tra di loro a formare una serie di linee organiche ed attraenti, non vengono nascoste, ma piuttosto sono messe in evidenza, come previsto da uno stile che enfatizza il ruolo tecnologico dei suoi singoli elementi (chi non ricorda Metropolis del 1927, il film muto capostipite del genere raygun-punk). Ma la storia, chiaramente, non finisce qui. Nei primi mesi del secondo anno, infatti, l’artista si è procurato un altro motociclo della piaggio, nient’altro che il popolare scooter a tre ruote denominato “MP3”. Un mezzo certamente più pesante, e stabile, più che mai adatto a sorreggere una sovrastruttura di alluminio ancor più stravagante. Dotata, questa volta, di ben due sportelli, e persino una griglia da radiatore degna di una Bugatti degli anni ’20 e ’30. E non siamo ancora giunti al non-plus ultra: immaginatevi cosa potrebbe fare un’individuo simile, trovandosi a disporre di una Harley-Davidson Sportster del 1984…

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Un INTERO lago di acido solforico? Corro a prendere il canotto!

kawah Ijen lake

Se davvero esiste, in qualche luogo irraggiungibile, la mitica pentola piena di monete d’oro, come auspicato dagli esploratori di ogni nazionalità, la sua funzione potrà essere soltanto una. Costituire, sotto al termine dell’arcobaleno, una prova dell’avvenuto pagamento da parte dell’Iperboreo, a compensare il mondo della Terra per le sue infinite traversie e tribolazioni. Una sorta di ricchezza nascosta, offerta a tutti gli esseri che pensano e respirano. Ma disponibile soltanto per colui che avrà la capacità, e la voglia, di trovarla. Il tutto perché ovviamente, deve persistere una sorta di Equilibrio. Permettendo, per ogni meraviglia, a un corrispondente contrappeso di desolazione di trovare posto, fra gli aridi deserti, le saline inabitabili, le regioni artiche intrappolate nella morsa dei ghiacci senza fine…Per ciascun luogo, un disco di metallo sfavillante, la preziosa base del pensiero e della conoscenza. Con un intero secondo recipiente, a quanto pare, dedicato alla caldera di Ijen nella provincia orientale dell’isola di Giava, terra d’Indonesia. Un luogo così terribile, infernale fino a un tale punto, che se Dante dovesse essere trasportato ai giorni nostri, probabilmente ne uscirebbe a ricercar le sue solite Stelle. Dove l’aria è percorsa da irrespirabili vapori, la pietra intrisa di zolfo maleodorante, e l’acqua stessa della pioggia, raccolta tra le alte pareti rocciose della perdizione, non è più il divino fluido che dona la vita, ma un qualcosa di completamente diverso. Assai…Peggiore. Lo so, è difficile da credere: in questa polla esteticamente non dissimile da ogni altra, se non fosse per la tinta vagamente verdeggiante della superficie, non vive, non cresce e non si abbevera alcunché. I suoi pesci primordiali, se mai vi avevano nuotato, si sono “evoluti” ormai da tempo in lische lievi sul fondale, poi una fine polvere, ed infine neanche quella. Se un uccello particolarmente sciocco, diciamo una rondine ubriaca, dovesse posarsi presso queste rive e decidere di farsi un rapido bagnetto, qui troverebbe invece la ragione di restare. Molto a lungo: quasi per l’eternità.
Ed è qui che viene il bello. Perché quei curiosi, entusiastici esploratori, difficilmente ci fermiamo alle apparenze. Tutto è soggettivo, a questo mondo, tranne la necessità di comprendere quanto prima la maniera in cui, per l’appunto, ogni cosa sia del tutto soggettiva. E alla stessa maniera in cui il personaggio Appleby di Catch-22, il romanzo sulla guerra di Joseph Heller, aveva le “mosche negli occhi” ma non poteva vederle a differenza dei protagonisti, perché appunto subiva di una simile aleatoria condizione (in realtà, un’allegoria) è il fato stesso di George Kourounis, celebre viaggiatore, uomo di mondo e cacciatore di tempeste dalle origini canadesi, di non comprendere il concetto di pericolo, assumendolo alla stessa maniera che impieghiamo noi per l’ossigeno, il cappuccino o il caffè dell’ora di pranzo. Altrimenti, come si potrebbe mai spiegare una simile sequenza? Costui che si reca, con incomprensibile entusiasmo, presso i minatori di questi recessi, uomini che rischiano la vita ogni giorno, estraendo la preziosa sostanza giallastra che da origine alla contaminazione, e si fa aiutare per gonfiare una comune imbarcazione in gomma, di quelle che nei film, lo Squalo ingoia con un singolo boccone. Perché va da se, che non c’era un altro modo a disposizione, per riuscire a misurare finalmente l’effettiva acidità del lago nella sua parte centrale, un mistero che attanaglia da generazioni…Assolutamente nessuno, assai probabilmente. Eppure tutti quanti, da un’altro punto di vista. Non sapere di sapere un qualcosa, è già piuttosto difficile. Ma l’esatto contrario può apparire ancora più terribile, a una mente impreparata…

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Palle che ti salvano la vita: in caso d’incendio, tirare l’estintore

ELIDE Ball

In questo breve video dimostrativo della ELIDE, compagnia thailandese, viene mostrato all’opera una formidabile arma portatile contro una delle più antiche conoscenze dell’uomo: spesso un amico, qualche volta problematico da controllare, occasionalmente, in casi veramente sfortunati, distruttivo e inarrestabile, persino micidiale. Avevate mai pensato di lanciargli una granata? Il fuoco è una di quelle reazioni chimiche che iniziano con relativa semplicità, specie in condizioni particolarmente favorevoli, ma che poi richiedono interventi complessi al fine di tornare ad una condizione di normalità. Tra i primi diagrammi studiati nella teoria della prevenzione e contrasto di un tale pericolo, c’è quello del cosiddetto triangolo della combustione, in cui ciascun lato rappresenta uno dei diversi elementi necessari affinché sia possibile il verificarsi della situazione: ossigeno, materiale da bruciare, calore. Nella versione più moderna della stessa cosa, ciascuna di tali diciture è invece essa stessa posta su un triangolo completo, a formare nel complesso un tetraedro che poggia sulla dicitura “reazione chimica (a catena)”. Ciò perché l’interruzione, anche soltanto momentanea, della capacità di generare i radicali liberi a sostentamento delle fiamme, come ben sanno i pompieri, porta immancabilmente all’immediato dissolversi del rischio rosseggiante d’ustione, benché tale strada sia ormai percorsa raramente, in quanto richiede l’impiego di un tipo di gas estremamente nocivo per l’ambiente. Ma è proprio per intervenire negli altri ambiti citati, che si rendono generalmente utili gli estintori. Apparecchiature caricate a pressione, con diversi tipi di polvere o schiuma mescolati a un propellente, che espulsi direttamente sul combustibile, lo privano, a seconda dei casi, dell’aria o dell’alta temperatura, portando a termine la loro importante mansione. Ma poiché qualsiasi strumento, per sua implicita natura, non può essere migliore di colui che lo impiega, non esiste un sistema antincendio manuale che possa definirsi, realmente, a prova di bomba. Innanzi tutto perché esistono diversi tipi di emergenza termica incontrollata, classificati secondo uno schema internazionale preciso, che classifica: A – fiamme di tipo convenzionale; B – liquidi infiammabili o sostanze chimiche; C – una combinazione dei primi due, con l’aggiunta di materiale elettrico in corto circuito; D – metalli combustibili, quali il litio, il titanio o il magnesio (si tratta di contesti per lo più industriali); K – incendio in cucina, con sostanze grasse ed oleose; sia dunque chiaro che il tipo di approccio da usare in ciascuna situazione è differente, così come la classe di estintore maggiormente idonea. Ma questo è soltanto l’inizio del problema: metteteci pure che una persona non addestrata, magari colta dal panico, dovrebbe tradizionalmente raccogliere un oggetto cilindrico del peso di diversi Kg, trasportarlo fino alla zona colpita, quindi eseguire la precisa serie di gesti: TIRA, la linguetta di sicurezza; PUNTA, la manichetta di lancio circa 15 cm sopra la base del fuoco; PREMI, la leva di attivazione; SPAZZA, da un lato all’altro, cercando di spegnere quanto di dovuto. E se non dovesse andare come auspicato, a quel punto ci si trova a pochi metri dalla fonte del pericolo, senza altra speranza che voltarsi e correre, sperando nell’arrivo dei soccorsi. Non a caso, all’origine di questo prodotto ELIDE, la compagnia cita la vicenda tragica che colpì particolarmente il fondatore della compagnia Mr. Phanawatnan Kaimart, di un incendio scoppiato nel 1998 presso il Royal Jomtien Hotel di Pattaya, Thailand. Circostanza in cui morirono 94 persone, e nelle quali, si scoprì successivamente, il primo scopritore delle fiamme avrebbe potuto (ipoteticamente) prevenire il diffondersi del disastro. Se soltanto, spaventato e ferito dal calore, non avesse tentato di mettersi in salvo, ritenendo erroneamente che un estintore convenzionale, qualora lanciato nel bel mezzo alle fiamme, sarebbe ad un certo punto esploso, arrestandone in qualche maniera l’avanzata. Un fatto assolutamente non vero.
Ma c’è una scuola di pensiero, nell’ingegneria e nella tecnica applicata, che da lungo tempo afferma: “Se l’impiego di un dispositivo tecnologico non risulta immediatamente comprensibile, anche per un bambino, allora i suoi costruttori hanno fallito.” Questione che diventa tanto più vitale, nelle situazioni d’emergenza in cui il cervello umano finisce per affidarsi alle sue pulsioni più istintive, regredendo allo stato evolutivo del rettile o del procariota primordiale. Perché dunque, se una porta d’emergenza ha una maniglia concepita in maniera tale che basta spingerla, per aprirla, l’impiego di un estintore dovrebbe invece richiedere ben quattro passaggi?

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