Cane+elefante: amici per la pelle

Bubbles

Bubbles viene dall’Africa ed è un po’ così: taciturna, tranquilla, paciosa, di un pacifico grigio color topo. Bella, invece, è una labrador retriever, spregiudicata e spumeggiante, palla da tennis stretta fra le ridenti fauci canine. La prima pesa circa 4 tonnellate, la seconda intorno ai 40 Kg. Lingua e proboscide, zamponi e zampette, niente in comune tranne una cosa. L’acqua! Ed in particolare quella di una piscina, sita presso il Myrtle Beach Safari, vasto resort della Carolina della Sud, gioiello subtropicale della costa est degli Stati Uniti d’America, tradizionale punto d’accesso verso quell’intero continente. E la cara elefantessa, appropriatamente, proviene da molto lontano, anche dal punto di vista metaforico. Nasce 30 anni fa, poco prima che il commercio internazionale d’avorio fosse formalmente bandito dai principali paesi al mondo. La sua storia, almeno da principio, assomiglia a quella di centomila altri cuccioli d’elefante, rimasti senza genitori e condannati ad una fine solitaria, vittime dell’avidità d’altri. Nel suo caso, tuttavia, gli eventi presero una piega inaspettata. Tanto che, come ampiamente narrato presso la sua pagina di Facebook, proprio lei venne inclusa fra gli esemplari destinati all’esportazione, teoricamente destinati a fare la gioia di zoo, circhi e altre istituzioni similari. Che fortuna! Beh, qualcuno potrebbe osservare come, visto il mestiere dei suoi nuovi padroni, davvero non poteva davvero andare meglio di così. Di sicuro li ha fatti guadagnare, fra partecipazioni cinematografiche (è stato l’elefante di Ace Ventura 2) e tour guidati da 250 dollari a persona, tigri incluse. 5000 per un incontro “ravvicinato”. In cambio, lei ha voluto pochissimo. Giusto quella mezza tonnellata di cibo ed acqua, da bersi pacatamente ogni giorno. Tempo di ricompensarla, avranno pensato. Ma come? Persa fra fronde, prati e gli ampi terreni dell’oasi faunistica, da sempre Bubbles aveva dimostrato un amore smodato per le acque di un fiumiciattolo locale. Dunque, a un certo punto si è deciso, di comune accordo, che dovesse disporre della sua piscina privata. E di un cane, perché no.

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Ollie e Bruno, due cani persi nell’apocalisse

thunderpaw
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“È la notte più luminosa che abbia mai visto, eppure in cielo non c’è neanche una stella” Un viaggio di scoperta, attraverso difficili peripezie, che porti al superamento di un qualche grave problema esistenziale. Nella serie a fumetti animati creata dall’illustratrice dell’Idaho Jen Lee, c’è il classico seme narrativo di tutte le buone storie fantastiche,  in cui la stessa missione tende a diventare più chiara del contesto operativo. Che sarebbe poi: la fine di questo intero mondo. Bau. Ci sono due canidi tranquilli, stravolti loro malgrado dagli eventi: Ollie, l’eterno cucciolo detto strappalenzuoli (che avrebbe in realtà ben tre anni, corrispondenti ai nostri 21) e suo fratello maggiore, il ben più maturo e coraggioso Bruno. Quanto quest’apocalisse sia in effetti letterale, piuttosto che immaginata dai protagonisti, resta come questione da definire, possibilmente tramite la fantasia di chi legge. Di sicuro c’è soltanto Thunderpaw. Come, chi? L’oscura, torreggiante divinità quadrupede dei cieli, con tre distinti grugni, occhi a profusione, la barba nera tutto intorno e un esercito di corvi neri al suo servizio. Di nuovo loro. Quegli esseri associati a ogni tipo di maligno medievale, chiamati per assolvere, in questo caso, ad un compito ben preciso: trasportare delle… Noci, credo! Avvolte di fiamme, esplosive, gettate come bombe nella bocca di un vulcano. A questa visione, così astrusa e incomprensibile, fa seguito l’introduzione ben più logica dei due cari cani, lasciati ad attendere i padroni dentro l’auto di famiglia. Che non torneranno mai. Il terrore irrazionale, fra tutti gli stati d’animo della mente antropica, o come in questo caso antropomorfizzata, è l’unico che può cancellare i confini tra la materia e l’illusione. Così, ben presto, una meteora si schianterà contro il familiare, vetusto veicolo, lasciando due fratelli, sperduti e spaventati, a ricercare l’essenziale via di casa. Niente di più facile, per cani come questi, capaci di aiutarsi e rassicurarsi l’un l’altro, secondo quanto dettato dai bisogni del momento. Niente di più difficile, in quel particolare giorno, durante il quale visioni, bande drughiche spietate, mefitici miasmi e schianti corvini s’inseguono l’un l’altro, ostacolandoli ad ogni voltar di pagina della spiacevole sventura. La speranza li spingerà fino all’ultimo, quando, (s)correndo verso destra, riusciranno a riveder la stella. Il caro sole, araldo di un momento di rinascita, l’attimo fuggente che in questo caso simboleggia la parola fine…Del primo episodio. Thunderpaw non dorme mai.

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Corvi carnivori e fantocci messicani

Chipotle

La nuova campagna pubblicitaria della catena di fast food Chipotle Mexican Grill, major statunitense specializzata in burrito, taco e fajita, si propone di sensibilizzare il suo pubblico contro i rischi dell’allevamento industriale e dell’agricoltura intensiva, mostrando attraverso uno stile creativo, affine a quello della Pixar, le conseguenze più estreme a cui si potrebbe giungere con l’uso indiscriminato di estrogeni e della manipolazione genetica, andando a discapito del benessere di tutte le parti coinvolte fra cui, non ultimi, noi affa(sci/m)ati esseri umani. Il contesto, ricco di allegorie vagamente didascaliche, per quanto mai stereotipate, è altamente distopico fin dai primissimi secondi del video. Perché se mai c’è stato un personaggio sfortunato, dall’epoca del Mago di Oz,  questo è il comune spaventapasseri. Di sicuro Scarecrow, l’anonimo e triste protagonista del racconto, non fa eccezione alla regola. Costretto per nascita, o dagli spietati crismi della crisi economica, a lavorare per l’imperiosa Crow Foods Inc, vive in campagna e mal sopporta il grigiore dell’ambiente cittadino, dove però, per sua sfortuna, si trova l’enorme stabilimento della compagnia. Timbrato il cartellino comincia il suo turno, sulle note tristissime di Pure Imagination, cantata da Fiona Apple. E non è chiaro quale sia il compito designato del povero senza-volto, se non quello di farci da orfico traghettatore in quest’antitesi della Fabbrica di Cioccolato, piena di nastri trasportatori quasi escheriani, minacciosi corvi meccanici e minuscole gabbie per mucche. Da certi pratici portelloni aperti nell’alto muro della fabbrica, che separano i clienti da tutto ciò che “non si deve vedere” fuoriescono a flusso continuo hamburger, patatine ed altri gustosi pasti, fra la gioia degli ignari piccini locali, navigati masticatori di carni non meglio identificate. Lui sale in cima con l’ascensore, si guarda attorno, coglie lo sguardo triste di un collega. Nei suoi occhi rivede quelli abbattuti del pollo gonfiato ad aria compressa, della mucca stolida e implorante. E quindi, preso dal vezzo del momento, decide di prendersi una piccola rivincita. Tornato nella sua fattoria, coglie un fatale peperoncino chipotle (simbolo dell’omonimo fast-food) e si mette a cucinare liberamente, secondo i suoi metodi tradizionali. La regia glissa sulla macellazione dei piccoli amici animali, probabilmente considerata troppo poco disneyana per l’occasione.

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Droni sorvolano cattedrali nel deserto

Burning Man Drone

Entrino i robot volanti, dotati di telecamera, celebrità virtuali dei canali dell’intrattenimento on-demand. Droni, silenziosi testimoni dell’umana follia. Questa momento, fra tutti, andava registrato. E per fortuna così è avvenuto. Sopra un letto di sale, sotto un cielo di stelle, fra agosto e settembre e nel pieno mezzo degli Stati Uniti c’è da sempre un titano che brucia. Con lui brucia un tempio. E dopo che sono stati tutti e due ridotti in cenere, stranamente, vengono ricostruiti per l’anno seguente, da molti anni a questa parte. Per assistere all’evento, si fonda tempestivamente una città, con decine di migliaia di abitanti. Si costruiscono fantasiose opere d’arte, le automobili diventano mostri, si balla, si gioca e si canta. Pochi giorni dopo, come per l’intervento di una forza misteriosa, fra quelle scure, rocciose montagne resta soltanto la desolazione. Sarebbe poi quella, terribile, del deserto di Black Rock, formatasi durante l’ultima era glaciale, famoso per la sua vasta playa, l’ultima testimonianza dell’antichissimo lago Lahontan. Volle il destino che di una simile polla pleistocenica, sparita per l’effetto di possenti mutamenti climatici, restasse soltanto il sale. Volle invece l’uomo, in tempi assai più recenti, che qui si facesse baldoria. Il nome della festa è The Burning Man e si tratta di un evento ormai quasi leggendario, nato più di venti anni fa come rito moderno del solstizio d’estate, dapprima grazie all’idea di un gruppo d’amici, tutti originari della città di San Francisco. Qualcuno, ingenuamente, potrebbe definirli gli ultimi depositari della cultura hippie, gli eredi della torcia di Woodstock. E in effetti ci sono dei punti di contatto, come il rifiuto del denaro, subordinato al baratto o allo scambio di doni, nonché la libertà di essere nudi e ricercare l’incontro tra i sessi. Il festival, tuttavia, si basa su una serie di princìpi più moderni, come l’autosufficienza radicale, la responsabilità civile e l’ecologia, particolarmente sentiti dagli organizzatori e da una buona parte degli eterogenei partecipanti…Però il punto più interessante sarebbe un altro, almeno secondo me. Il celebre statuto T.B.M, fatto di 10 regole, non assomiglia per niente a un manifesto infiammatorio, quanto piuttosto ad un prontuario d’interazione sociale. “Così ci si comporta qui, a Black Rock City, fra agosto e settembre” Sembra dire. E basta. Una volta tornati stanziali, nelle vostre solide città di cemento, portate con voi un ricordo di questi giorni. Ma non cercate di cambiare il mondo. E proprio in tale ragionevolezza d’intenti, in un certo senso, si può identificare la forza di questo durevole movimento.

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