Trionfi, decolli e cadute dei più piccoli volatori

Immobile al di là del declivio, un paleontologo s’interroga sull’autore di una simile impronta, la cui profondità e vastità risulterebbero sufficienti, se soltanto vi mettesse i piedi all’interno, a inghiottirlo fino all’altezza dei polpacci. Quetzalcoatlus northropi, colui che prende il nome dal dio serpente alato + il produttore degli aerei stealth statunitensi, il più grande dinosauro volante che sia mai vissuto. Un’apertura alare di… 15 metri e una distanza tra coda e testa di 11-12, enfatizzata dal collo lungo ed articolato come quello di un titanico cigno. Alzando le spalle e allargando le braccia, l’uomo rivolge un quesito al vento: “Come poteva volare?” Esistono teorie secondo cui l’ipertrofica bestia pesasse soltanto 70 Kg, grazie a specifici adattamenti evolutivi e una struttura scheletrica particolare, ma nessuno è mai riuscito a provare una simile teoria. Nel frattempo, proprio mentre l’intuizione accenna a palesarsi tra le meningi dell’osservatore, qualcosa di strano avviene ai margini del suo campo visivo: un lampo verde, giallo e arancione: è una piccola…cosa con le antenne protese al cielo. “Ciao anche a te, piccolo Scutelerridae, insetto metallizzato.” “Bzz” risponde quello, poi sbaglia la mira ed impatta con un tonfo sordo contro la spalla imprevista per ricadere in grembo allo scienziato. Che con espressione d’un tratto seria, porta la mano destra ad accarezzarsi la barba. Mentre con gli occhi socchiusi, inizia ad elaborare un’idea.
Perfette creazioni aerodinamiche della natura, eleganti esecutori di meccaniche precise al centesimo di millimetro, come si confà alle macchinazioni dell’ingegneria contemporanea. Che ne pensate? Starei descrivendo… Gli insetti; forse dal punto di vista di tutti gli ingenui, o i biologi straordinariamente ottimisti. Poiché è implicito nel funzionamento stesso dell’evoluzione, che le successive interazioni tra il problema riproduttivo e i fattori introdotti da un contesto ambientale ostile diano vita a un progressivo perfezionamento. Ma una volta che l’animale ha raggiunto uno stato sufficientemente vitale e vivificatore, garantendo così la sopravvivenza dei suoi simili, la giostra improvvisamente si ferma. O per meglio dire, le mutazioni destinate a prevalere nella maggior parte degli individui cessano di concentrarsi in un’unica direzione, lasciando immutato colui che è perfetto a se stesso, null’altro che questo. L’abbiamo visto succedere molte volte: il coccodrillo, la conchiglia del nautilus, il celacanto… Per non parlare degli innumerevoli casi, molto difficili da approfondire, relativi ad esseri tanto piccoli da risultare praticamente insignificanti. Si, nei sogni delle persone. Eppure loro esistono, e sono sempre esistiti. A partire da quel momento nell’eone Carbonifero (350 milioni di anni fa) in cui il primo dei Paleoptera spiegò le diafane appendici presenti al di sopra del suo addome. Per scoprire, improvvisamente, di essere in grado di spiccare dei balzi tanto lunghi da non avere mai fine. Nulla sarebbe più stato lo stesso! Generazione dopo generazione, la configurazione dei loro piccoli muscoli dorsali divenne perfettamente in linea con le necessità di un controllo perfetto in aria. Per lo meno, dal punto di vista delle effimere e le libellule, rappresentanti rimaste dal primo lato di una simile divisione connessa al concetto di “volo diretto”. Perché bastarono 50 milioni di anni, milione più milione meno, perché la soluzione adottata fosse sovrascritta da un approccio diverso. Dando luogo alla nascita degli assai più numerosi Neoptera, il gruppo che avrebbe dato i natali, tra gli altri, agli scarabei…

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I sorprendenti vantaggi di un paio di ali sbilenche

Avete mai visto qualcosa di simile? L’AD-1 della NASA corre attraverso l’aria, più simile a una freccetta scagliata da un nerboruto gigante che a una sofisticata macchina volante. E con il modificarsi dell’inquadratura, un poco alla volta, appare evidente il perché: non c’è proprio niente, in esso, che sporga sensibilmente ai lati. Di certo la prospettiva deve giocarci uno scherzo. Perché le sue “ali”, se così possono essere definite, sembrano estendersi in diagonale. Progettare apparecchi a motore è una delle cose più facili al mondo: prendi un righello, traccia una linea, disegna una punta e torna indietro. Ecco la tua carlinga. Metti una pinna nella parte posteriore. Quindi perpendicolarmente a quanto hai appena definito, racchiudi un’area piatta, ampia e rastremata, situata grossomodo verso la parte centrale del tuo velivolo di alluminio, acciaio o cartone. Aggiungi un motore, et voilà: sarà più difficile tenere a terra una simile cosa, piuttosto che il contrario. Ma progettare una aereo che sia anche EFFICIENTE, questa è tutt’altra storia. Esistono forme che sono letteralmente fatte per volare, eppure persino quest’ultime, per affrontare dei lunghi tragitti fino alla pista d’atterraggio designata al di là del mare, dovranno bruciare quantità impressionanti di carburante, richiedendo correzioni continue della rotta da parte del pilota. Ed ecco la ragione per cui, nel corso del secolo dell’aviazione, la storia ha conosciuto un’infinità di avveniristici prototipi, molti destinati a fallire, alcuni precipitati e soltanto in minima parte, talmente validi da aver cambiato le regole dell’industria vigente, introducendo caratteristiche che al giorno d’oggi, vengono considerate assolutamente normali. Cosa dire, invece, di tutte quelle idee che sembravano Funzionare, potevano Funzionare ed hanno in effetti, Funzionato al 100%, eppure per una ragione o per l’altra, incluso il senso estetico di chi di dovere, hanno finito per essere relegate a mere curiosità del volo?
Ne sapeva qualcosa negli anni ’30 la Blohm & Voss, compagnia tedesca destinata ad aiutare lo sforzo bellico, il cui ingegnere progettista più famoso, il Dr. Richard Vogt di Schwäbisch Gmünd nel Württemberg, godeva di una reputazione alquanto insolita, per non dire surreale. Scrisse su di lui, in inglese, la rivista d’aviazione coéva Airplane: “[…] Quell’uomo davvero originale / che costruisce aerei più brutti / di quanto chiunque altro / possa riuscire a fare / ecco qui sul Mar Baltico / uno dei mostri di Vogt / l’Uno-Tre-Otto di B. & V.” Componimento in versi del tutto privo di rime (anche in lingua originale) che faceva riferimento a niente meno che l’affidabile BV 138 Seedrache (Drago Marino) un idrovolante trimotore, con i propulsori disposti in altrettanti bulbi sporgenti sopra la carlinga e un aspetto non propriamente aggraziato. Aereo che sarebbe stato prodotto fino al termine della seconda guerra mondiale, destinato, tra le altre cose, ad aprire la strada verso alcune delle proposte ben più innovative scaturite dalla mente di questo eclettico inventore. Fu nell’estate del 1944, quindi, che a costui venne un’intuizione dall’origine incerta. La quale configurava se stessa sulla falsariga di: “Chi ha mai detto che gli aeroplani debbano essere simmetrici?” Ora, istintivamente, tutti possiamo facilmente comprendere che l’ingegneria umana è quasi sempre basata sulle buone pratiche della natura. Se gli animali presentano tutti due lati identici, tuttavia, ciò è responsabilità primaria della notocorda, il tubo flessibile che si trova alla base di tutte le forme di vita complesse di questo pianeta. Nessuno può invece dire quali siano i presupposti di un ipotetico processo evolutivo diverso, eseguito in territori universalmente distanti.
Luoghi dove, forse, l’aereo a reazione Blohm & Voss P 202 della B. & V. apparirebbe del tutto normale, nonostante la strana ala rotante posizionata sopra la fusoliera, più larga da una parte rispetto all’altra. Per non parlare dell’improbabile Messerschmitt P.1009-01 (nome dovuto alla provenienza di uno dei brevetti di base) un anacronistico biplano, le cui due ali sarebbero state fatte ruotare di circa 60 gradi una volta eseguito il decollo, l’una in un verso, e l’altra in opposizione. Prototipi osservando i quali, ben pochi avrebbero dubbi di trovarsi di fronte alle illustrazioni di un’ucronia, lo scenario fantastico per una campagna di giochi di ruolo o qualche insolito wargame da tavolo. Detto questo, la Germania dell’epoca non era particolarmente propensa a seguire i vezzi ingegneristici di chiunque non fosse amico personale del fuhrer, come Ferdinand Porsche, così che gli assurdi prototipi di Vogt non sarebbero mai stati costruiti. Ma poiché il conflitto mondiale era destinato a finire molto presto, e nella maniera che noi tutti ben conosciamo, il destino del progettista del Württemberg era destinato a riservargli ancora una significativa sorpresa: ritrovarsi iscritto, a sua insaputa, nelle liste del programma statunitense Paperclip, per l’espatrio di scienziati, tecnici e ingegneri del Terzo Reich allo scopo di dare una spinta al nascente programma aerospaziale di quella distante nazione. Per il tramite di un’ente che prendeva, a quel tempo, il nome di NACA (National Advisory Committee for Aeronautics) sotto l’egida del quale il tedesco avrebbe partecipato alla progettazione dei primi motori a reazione per il decollo verticale, oltre alla definizione delle punte verticali sul finire dell’ala, oggi caratteristica comune di molti aerei, anche civili. Ma il seme più eclettico che avrebbe gettato negli anni ’50 avrebbe impiegato ancora del tempo, a germogliare…

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L’odissea intraoceanica degli aracnidi volanti

Dalle più profonde foreste sudamericane ai deserti della Via della Seta. Dalla Valle della Morte fino alle vette della cordigliera andina. Nella pianure siberiane, negli atolli del Pacifico ricoperti di guano. Ragni, ragni, ragni a profusione. Con gli occhi segmentati e con l’addome peloso, con le zampe che s’intrecciano e complesse ragnatele, concepite per poter bloccare mosche, vespe ed altri insetti volatori. Ragni sulla schiena, nei calzini, ragni nei capelli e sulla lingua addormentata. Ma se l’evoluzione è veramente un sistema di tipo aperto, in cui le specie trovano uno spazio grazie alla capacità di adattamento ai fattori ambientali, allora come mai è possibile che luoghi tanto differenti abbiano dato i natali alla stessa tipologia di creature? Quale disegno superiore ha percepito la necessità di porre ovunque, ovvero qui, là ed altrove, connotando i nostri sogni di un sinistro brulichìo silente… Oppure, forse, la spiegazione è da cercarsi in altro luogo.
In una ventosa mattina di primavera, dentro l’edificio ormai da tempo abbandonato, iniziano a schiudersi le uova. La madre, allegramente vedova (poiché suo marito se l’era fagocitato) sovrintende alle complesse operazioni, mentre con riflessi vigili e i puntini rossi sulla schiena, sinonimo di morte ultra-veloce, dissuade ogni possibile tipologia di predatori. Nessun destino del tipo “appetitose tartarughine sulla spiaggia”, qui. Se proprio è il caso, sarà LEI a mangiarli. Uno dopo l’altro, i suoi figlioli percorrono il più lungo filo della nursery, per andare quindi a risalire l’alto muro perimetrale, verso una finestra soprastante. Raggiunto l’apice quindi si fermano, apparentemente a meditare. La madre li guarda con orgoglio, cominciando lentamente a muoversi verso i ritardatari, i cheliceri spalancati per eliminarli da un pool genetico dal pregio sopraffino. Ben sapendo, mentre mastica, che i fratelli più veloci e scaltri, in realtà, non giacciono in attesa. Essendo invece intenti a tessere una serie di fili straordinariamente sottili, invisibili persino per lei. Attaccati non al muro, né alla grondaia e neppure al ramo di quell’albero antistante. Bensì all’aria stessa, ovvero, al vento, che uno dopo l’altro, inizia a trascinarli. E via con essi, la progenie intera, il cui peso non è nulla in confronto all’impercettibile viscosità dell’aria. È la prassi del ballooning, questa, la [costruzione] di mongolfiere, un termine in realtà inesatto poiché i ragni neonati non impiegano palloni, bensì fibre e solamente quelle. Più che abbastanza, nella maggior parte dei casi, per il loro fondamentale obiettivo: disperdersi, alla maniera dei semi defecati dagli uccelli migratori. Ora la questione, per un ragno, è notevolmente più complessa. Poiché un artropode, per quanto piccolo, non può attraversare indenne l’apparato digerente di un rondone. Quindi egli sceglie di diventare lui stesso, un rondone.
Crederete forse che io stia esagerando. Eppure considerate questo: nella storia della navigazione oceanica, esistono casi documentati di marinai pronti a giurare che le loro vele si erano riempite, nel corso della notte, d’intere famigliole di ragni, nonostante essi fossero pronti a giurare che erano totalmente assenti al momento in cui avevano lasciano il porto. Il che, a pensarci bene, può avere una sola possibile spiegazione: essi erano giunti, per un puro caso, fin lì trascinati dal vento. È stato dimostrato da numerosi studi di aerodinamica, che un ragno in volo può raggiungere l’altezza di 1 o 2 miglia, essenzialmente paragonabile a quella di un aereo di linea, attraversando facilmente gli oceani che dividono i continenti. La sua propagazione è perfetta, il suo controllo, un po’ meno. Ma quando mai garantirsi la sopravvivenza è stato importante nello schema generale delle cose, per delle specie che producono centinaia, se non migliaia di figli nel sublime attimo della riproduzione…

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Il bullone divino che mantiene l’elicottero in volo

Si dice che il diavolo sia nei dettagli, poiché è nella natura stessa degli esseri umani, affini al principio supremo dell’universo, osservare per sommi capi le cose, tradendo se stessi nelle questioni apparentemente prive d’importanza. Il che è soltanto un altro modo di dire che mentre Dio è triangolare, poiché tende sempre alla realizzazione di un obiettivo, Satana assume la forma di una perfetta circonferenza, in cui ciascun punto insegue se stesso, e nel contempo la quantità totalità dei suoi innumerevoli cloni. Esiste tuttavia un caso, uno solo nel mondo a noi noto, in cui la Grazia suprema risiede all’interno del cerchio. E per comprenderne il senso occorrerà ricorrere, come si usava a quei tempi, alla narrazione di una parabola esplicativa: la storia dell’elicotterista. Egli portava il nome di Thom Jefferson, e verso la fine del 1966, svolgeva con impeto la sua funzione di mitragliere del portello principale, a bordo di un elicottero Bell UH-1 Iroquois, comunemente detto “lo Huey”. Il che lo poneva, geograficamente, nei tenebrosi recessi di una delle più sanguinarie guerre del mondo moderno, quel conflitto vietnamita che a un certo punto diventò di dominio pubblico, accendendo la lampadina della sua colossale inutilità. Ma per tornare a noi, codesto membro dell’esercito era situato, al principio della vicenda, presso l’area di Bong Son vicino An Khe, dove lui, i due piloti e un gruppo di assaltatori erano stati incaricati di scardinare una fortificazione nemica. Così lasciati scivolare a terra i sanguinari marines mediante la fune d’ordinanza, Jefferson si chinò per un attimo per uno strano rumore nella carlinga, quando un proiettile penetrò attraverso la paratia, esattamente dove la sua testa si trovava soltanto un secondo prima. L’elicottero era sotto il fuoco nemico, e in breve tempo le armi automatiche di Charlie, puntate con astio inverecondo, perforarono il serbatoio, il sistema idraulico e alcuni dei servomeccanismi del motore! Faticando immensamente, tuttavia, i piloti mantennero l’uccello in volo, che barcollando in alternanza da una parte e dall’altra, riuscì per fortuna a giungere fino al campo d’atterraggio. Nessuno a bordo riportò alcuna ferita. L’ufficiale meccanico quindi, vedendo la situazione dell’apparato principale, esclamò: “Non è possibile che siate vivi, niente avrebbe potuto volare in queste condizioni.” Quindi Jefferson, arrampicandosi sulla scaletta, andò anche lui ad osservare il punto in cui il rotore dell’elicottero era assicurato al motore. E vide lo scempio causato dai proiettili, mentre un solo bullone, al centro di tutto, rimaneva perfettamente privo di danni evidenti. Alzando lentamente lo sguardo, quindi, si rivolse alla controparte: “Maggiore, lei non capisce. Se l’elicottero è rimasto intero, c’è una sola possibile ragione. Deve averlo aiutato il Figlio di Dio in persona.”
Così nacque secondo la leggenda il termine, spesso utilizzato come metafora nei sermoni degli Stati Uniti (ma COSA non lo è?) di Jesus nut, ovvero “Il bullone di Gesù”. Antonomasia del cosiddetto singolo punto di vulnerabilità, un oggetto talmente piccolo da entrare in una mano e che costituisce tuttavia l’unico responsabile, ovvero il cardine stesso, di quell’intero sistema volante che è l’elicottero, direttamente interconnesso alla vita di tutti coloro che si trovano a bordo. Si potrebbe in effetti dire che il componente in questione sostenga in autonomia le 2-3 tonnellate del mezzo, contro la forza di gravità e mentre esso si trova variabilmente distante dal rifugio sicuro del duro suolo…

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