La battaglia degli atleti che trattengono il respiro

Kabaddi

Tutti gli sport di squadra servono a costituire, in una forma oppure l’altra, un’addestramento bellico di qualche tipo, poiché è nella natura stessa del concetto di gioco, sia questo fisico piuttosto che concettuale, simulare situazioni di conflitto. Pensate alle tenzoni della palla ovale, il cui fluire rassomiglia tanto da vicino alla casistica di un doppio schieramento di fanteria, che si affronti per raggiungere la base del nemico, in un particolare caso, con tanto di protezioni ed armatura. Il baseball, nel frattempo, è una chiara metafora del corpo dell’artiglieria, con l’importanza che rivestono le traiettorie, i posizionamenti, l’attento impiego delle munizioni (in questo caso, umane). Mentre il nostro calcio, con il suo fluire imprevedibile e l’impetuoso dinamismo, non è dissimile dall’esperienza di un confronto tra manipoli di forze speciali, che devono pianificare contromosse basandosi sui gesti dei propri avversari. Lacrosse, hockey? Spadaccini. Basket, pallamano? Granatieri. Ma volendo seguire una tale progressione logica, più o meno improbabile, c’è uno sport del Sud dell’Asia che si mette in evidenza concettuale tra gli altri, perché è la chiara rappresentazione di un grande e nobile guerriero, l’attaccante solitario, che si prodiga sfidando un gruppo di possenti difensori. Fino a sei, nella variante più famosa, che per vincere devono letteralmente farlo cadere a terra. Mentre lui può eliminarli semplicemente con un tocco, seguito dal ritorno oltre la linea di metà campo. Col procedere della partita, che dura due tempi da 20 minuti l’uno, in campo possono esserci fino a 7 giocatori, gradualmente eliminati a seguito della cattura ed eventualmente sostituiti dai loro compagni di squadra. Il nome dell’antichissima tenzone, la cui origine si perde nella storia arcaica dell’India meridionale, è Kabaddi, un termine dall’etimologia incerta, che potrebbe derivare dall’espressione in lingua Tamil kai-pidi (tenersi per mano) o in alternativa da kab (coscia) e haddi (ossa) un riferimento alle parti del corpo che ricevono le maggiori sollecitazioni, o per meglio dire infortuni, nel corso dell’azione di gioco. Questo sport a differenza degli altri citati, in effetti, si fonda sul contatto diretto e potrebbe facilmente sembrare, ai nostri occhi, una strana commistione del rugby e del wrestling, con alcuni elementi comuni al dodgeball, la versione competitiva del gioco della palla avvelenata. Ciò detto, questo sport resta sufficientemente complesso, ed originale, da risultare difficile da comprendere o seguire senza un breve corso accelerato sulle regole, che in questo caso ci viene offerto, con notevole perizia esplicativa, nel video dello youtuber Ninh Ly, produttore di una serie molto popolare sugli sport dei vari paesi del mondo.
Si inizia, come sempre avviene per il Kabaddi, con il singolo aspetto più bizzarro di questa disciplina, che tuttavia negli anni, grazie all’apporto tecnologico è diventato sempre meno necessario: trattenere il fiato. La limitazione principale all’assalto di cui sopra, condotto dal giocatore attaccante scelto a rotazione che viene definito con il termine tecnico di raider, è infatti di natura temporale, affinché nel caso in cui i difensori, nonostante gli sforzi effettuati di concerto, non riescano a placcarlo, ma neppure lui ad eliminarli, costui debba infine ritirarsi e lasciare il passo a uno sfidante più aggressivo. E poiché lo spot veniva praticato in origine, come anche il calcio storico, in assenza di arbitri o sistemi di misurazione dei secondi, la soluzione scelta diventava far ripetere ossessivamente al raider, per l’intero corso del suo assalto, la parola “kabaddi, kabaddi […]” senza mai inalare. Con il tempo la capacità di restare in apnea per tempi prolungati diventò un cruciale tratto distintivo dei migliori giocatori, nonché una dote necessaria a far carriera. La regola continua ad essere praticata assiduamente in ambito amatoriale, ed è inoltre un punto fermo delle numerose versioni regionali dello sport.

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Il martello più grande che abbiate mai visto

10 Ton Drop Hammer

Un inizio di giornata al fulmicotone, in grado di svegliare anche le talpe preistoriche che vivono in prossimità del centro della Terra. O almeno così sembra, i primi tre-quattro giorni che lavori in officina. Poi ti abitui, addirittura a questo. E l’opera inizia il suo flusso in automatico nel segno del sudore, mentre ogni gesto diviene calibrato, la cooperazione totalmente naturale. Ovvio: sarebbe assai difficile PARLARE, in mezzo a un simile frastuono. Tre operatori, ciascuno in abito ignifugo, protezioni per gli occhi e le orecchie, caschi protettivi di un vivace giallo canarino. Al centro, un addetto al forchettone/diapason d’acciaio incatenato, che serve a trasportare il pezzo riscaldato ad oltre 2000-2500 gradi fino allo stampo di lavorazione. A sinistra il suo assistente, il cui compito principale, oltre a sollevare assieme i materiali più pesanti, è irrorare d’acqua quanto posto in essere, affinché vengano rimosse le scaglie (scales) di metallo distaccatosi dal corpo principale. Mentre a destra nel sapiente trio, risiede il vero regista dell’operazione, colui che al tempo stesso deve faticare meno, eppure ha il compito più delicato e di maggiore responsabilità. Come un regista, o un direttore d’orchestra: il tecnico del maglio idraulico da 10 tonnellate.
È un’esistenza lieve che richiede un certo spirito d’iniziativa, questa dell’addetto metallurgico, poiché la creatività di simili compiti è per forza alquanto limitata. Occorre quindi apprendere il segreto per l’introspezione che non distrae, la fantasia che corre libera mentre le membra fanno ciò che devono. Ma soprattutto, l’orgoglio di fare qualcosa, presto e bene, ancora e poi di nuovo. Il video è stato caricato su YouTube da Hiroki Onoda, chiaramente un giapponese, e non sarebbe poi così stupefacente se l’intera azione si svolgesse proprio nella sua nazione. C’è qualcosa, in questo metodo di forgiatura al tempo stesso antico e dannatamente efficiente, che pare quasi rimandare ai fabbri di katana, gli esecutori ritualistici di un metodo per fare il ferro, poi l’acciaio, infine il taglio leggendario. Qui applicato, in modo forse più prosaico, alla messa in opera di grossi ingranaggi vuoti al centro, ovvero secondo la teoria più accreditata (nonché probabile) dei pignoni per i cingoli di qualche mezzo pesante. Il fatto è che dei tali componenti non possono essere realizzati a fusione, come avviene per la stragrande maggioranza dei prodotti della moderna metallurgia. Questo perché le ruote dovranno, nel corso della propria lunga vita operativa, sopportare non soltanto forti gradi di pressione, ma la forza ben più problematica della tensione, generata dal movimento parallelo di andata e ritorno delle maglie che poggiano sul suolo. Proprio per questo, portare la missione a compimento richiede un approccio basato sulla mera forza bruta, che nel dare forma al pezzo, ne riallinei addirittura la struttura cristallina, massimizzandone la resistenza e la durevolezza. Si, colpi di martello. Ma non del tipo che potremmo, allegramente, manovrare con le mani, bensì un mostro a forma di colonna, in grado di occupare una percentuale significativa dello spazio in officina, fatto muovere grazie alla forza spaventosa dell’idraulica applicata. O in alternativa, e non sarebbe poi tanto sorprendente nel presente caso giapponese, quella ancor più primordiale del vapore, che diede gli inizi a questo mondo rivoluzionario dell’industria più di due secoli fà, e che tutto ha cambiato nella mente e nelle aspettative di chi ha scelto di assolvere alla massima necessità: modificare la natura. Un merito che fu, fin dalla prima epoca moderna, conteso…

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La nebbia in cui diventano visibili le radiazioni

Uranium Chamber

Verso l’una di notte del 26 aprile 1986, le barre di carburante radioattivo site nel nucleo del reattore di Chernobyl, in Ucraina, iniziano inspiegabilmente a surriscaldarsi. In quello che venne definito inizialmente un “test di sicurezza” il personale della centrale decide quindi di inviare il comando remoto che le avrebbe fatte ritrarre, portandole a raffreddarsi in un apposito alloggiamento pieno d’acqua. Ma qualcosa, appare subito chiaro, non sta andando per il verso giusto: l’uranio contenuto al loro interno aveva infatti già raggiunto una temperatura sufficiente ad indurre la fissione dell’atomo, e trovandosi così racchiuso, iniziò a trasformare il liquido in cui era immerso in idrogeno ed ossigeno. In un moderno impianto di generazione dell’energia nucleare, naturalmente, ciò non avrebbe costituito un gravissimo problema; sistemi meccanici di apertura e valvole di sfogo sarebbero ben presto intervenuti, lasciando defluire il vapore radioattivo in appositi condotti, senza gravi conseguenze per l’ambiente e le persone circostanti. Ma simili norme costruttive, a quell’epoca, non erano state ancora applicate, ed in effetti lo sarebbero state proprio a seguito di quello che stava per succedere di lì a poco: un disastro totalmente senza precedenti. La massa del fluido refrigerante a quel punto aumenta infatti a dismisura, finché non giunge a premere con forza contro le pareti delle tubazioni e del suo serbatoio. Ad un tratto, la resistenza strutturale di simili strutture viene meno, ma niente affatto gradualmente, bensì con un catastrofico disfacimento esplosivo, mentre tonnellate di grafite vaporizzata, cariche di pericolose radiazioni ionizzanti, vengono diffuse negli strati superiori dell’atmosfera, da dove il vento le trasporterà per mezza Europa. Tuttavia, una parte del contenuto del reattore prende una strada totalmente differente. L’uranio delle barre di controllo infatti, essendo un metallo solido e pesante, inizia piuttosto a fondersi, coinvolgendo nel processo anche il cemento, l’acciaio ed il terreno sottostante. Il tutto forma una colata pseudo-lavica che alla sua temperatura di diverse migliaia di gradi inizia a disgregare il pavimento, colando in modo inesorabile verso i piani interrati della centrale. Quindi il blob, liberatosi dell’energia termica in eccedenza, si solidifica di nuovo in una forma simile a una coda di lumaca. O per usare il termine di paragone più comune, il piede corrugato di un titanico elefante. E quella massa ancora giace, lì. Perché la sua eminenza grigiastra, nei fatti, rappresenta quello che potrebbe definirsi il singolo oggetto artificiale più pericoloso della Terra,  con un’emanazione di onde disgregatrici che superava, all’epoca immediatamente successiva all’incidente, 10.000 roentgen l’ora, più che sufficienti ad uccidere sul posto una persona adulta nel giro di 300 secondi. O condannarlo a morte nel giro di un paio di giorni dopo un singolo minuto. Persino quarant’anni dopo, oltrepassare la misura di sicurezza del sarcofago ed avvicinarsi a questo folle monumento, restando in sua presenza per qualche minuto, basterebbe a garantire conseguenze gravi. Eppure, non c’è nulla di maggiormente innocuo, all’apparenza, ed immobile e insignificante, di un simile ammasso di pietra metallifera, abbandonato giù nel buio di quei sotterranei in rovina. Le radiazioni sono state definite, con ottime ragioni, “il killer invisibile” perché non lasciano alcun tipo di effetto nello spettro visibile dall’occhio umano, almeno, non lo fanno in condizioni…Normali.
Nel 1894, il fisico scozzese Charles Thomson Rees Wilson si trovava per lavoro in prossimità della cima del Ben Nevis, la singola montagna più alta della Gran Bretagna. La giornata volgeva al termine, ed il cielo era tutt’altro che sereno, al punto che con lo stagliarsi del massiccio contro il Sole, avvenne un fenomeno piuttosto interessante nonché raro, comunemente definito dello “Spettro di Bracken”. In termini più diretti, l’ombra del Nevis venne proiettata contro quella di una nuvola distante, riproducendo la sua sagoma a mezz’aria: “Che bello!” avremmo detto noi. Ma lui, che era uno scienziato, pensò invece qualcosa sulla linea di: “Ciò dimostra chiaramente come sia possibile osservare una cosa inconoscibile, quale la luce dell’astro solare, non direttamente, bensì piuttosto attraverso l’effetto che produce sull’ambiente circostante! Dovrò riprodurre questa progressione in laboratorio…” Wilson era infatti impegnato, in quegli anni, nello studio delle particelle subatomiche, ed in particolare nell’effetto che quest’ultime potevano avere sull’ambiente circostante. Così, di ritorno dalla sua escursione, costruì il prototipo che gli sarebbe valso il premio Nobel, e che qui vediamo riprodotto ed impiegato in video, con un approccio costruttivo più moderno: la camera a nebbia, o cloud chamber. Un dispositivo che consente, introducendo al suo interno una fonte minerale o un gas in corso di decadimento, di visualizzare finalmente nel vapore d’alcol la tempesta letterale di proiettili, protoni, neutroni ed elettroni, che costantemente minaccia l’integrità delle nostre preziose cellule, quelle che ci permettono di camminare, parlare ed osservare il mondo.

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L’epica battaglia dei cuochi di cartone

Boxwars

Preparare un pasto per le diverse centinaia di persone presenti alla grande festa campestre di Tallarook, nella parte meridionale dello stato australiano di Victoria, sarebbe già abbastanza complicato senza doversi accontentare di pentole, mestoli, forchette, ciotole ingredienti, forni, padelle, mattarelli e coltelli fatti in spessa cellulosa corrugata, ovvero quello stesso materiale con cui Amazon spedisce le sue cose. Non c’è dunque molto da meravigliarsi, in tali circostanze, che il nervosismo possa crescere fino ad un punto di rottura, con i pluripremiati chef chiamati per l’occasione (già vincitori di molti confronti precedenti) che finiscono per sottrarsi le risorse a vicenda, in un crescendo di reciproci dispetti che ben presto sfocia, come spesso capita da queste parti, in una zuffa dalle proporzioni cosmiche e spettacolari. La data è lo scorso 8 settembre e questa è la ventunesima edizione del Boxwars, un evento di “creatività e distruzione” patrocinato dall’omonimo comitato di due persone, Hoss & Ross Koger, che l’inventarono nell’ormai distante 2002, nella loro città di Melbourne, fin troppo ricolma d’invitante e splendido cartone. Come del resto, tutte le altre. Il materiale rigido dal costo inferiore al mondo, che fluendo da cartiere in luoghi raramente definiti percorre ogni sentiero a sua disposizione, per giungere in fine, benvoluto o meno, nelle nostre case dallo spazio limitato. In scatole oblunghe oppure cubiche, di molte fogge o dimensioni e poi che fare? Qualcuno lo conserva, colpito dalla sua presenza un tempo funzionale, finché la quantità e l’ingombro superano il mero senso del “un giorno mi servirà”. Altri, più spietati, lo piegano brutalmente su se stesso, poi lo gettano nel cassonetto più vicino. È una legge, essenzialmente, di natura: tutto ciò che può essere riciclato, dovrà fluire, fino ai luoghi di rinascita a vantaggio della collettività. Ma da un punto all’altro di questa filiera, tra una vita e quella successiva, è possibile trovare strade parallele per l’arricchimento degli antichi presupposti. Ciò costituisce, essenzialmente, un simile contesto battagliero.
Una Boxwars, per come è stata definita dai suoi creatori e poi perpetuata dalle sedi periferiche dell’associazione, di cui ce n’è almeno una in Canada ed un’altra in Inghilterra, ha ben poche regole fondamentali: la prima è che l’evento è assolutamente gratuito ed aperto a tutti, con un incoraggiamento a mettersi comunque in discussione, che si rivolge in particolare a coloro che non hanno esperienze creative precedenti. Poi si vieta l’impiego, per ovvi motivi, di punti metallici, puntine, fascette in materiale plastico o altri sistemi potenzialmente lesivi di rifinitura del costume. Sono ammessi solo colla (a caldo o meno) e scotch. È infine severamente vietato lasciare in giro la propria spazzatura o i “resti” di quanto si era scelto da indossare al termine della battaglia, che per di più si dovrebbe, idealmente, trasportare fino a un punto di raccolta. Viene quindi suggerito un tema. E ce ne sono stati diversi di memorabili, tra cui l’antica Roma, i pirati dei Caraibi, il Medioevo, le automobili mutanti del film Mad Max, la prima e seconda guerra mondiale, l’invasione dei robot… Altre volte, si tratta di concetti più figurativi e fantasiosi, come “la ribellione contro l’ordine costituito” oppure “la rinascita del mondo dalle ceneri della sua fine”. Ma i tre precetti più importanti dell’intera serie di eventi, definiti non a caso leggi, sono i seguenti: 1 – Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; (ma questa già la sapevamo) 2 – L’unica competizione è nella creatività; 3 – [Massimo] Buon Senso; soprattutto quest’ultimo valore appare fondamentale, in un contesto in cui dozzine di adulti intabarrati si spintonano l’un l’altro, spingendosi a terra vicendevolmente come demoni invasati. Per le ragioni o i pretesti più diversi. Interessante è stata in modo particolare quest’ultima edizione, per la scelta di un tema alquanto inaspettato: una parodia, o riproposizione, del celebre programma di cucina della Tv giapponese Iron Chef (Ryōri no Tetsujin) in cui cuochi di fama si confrontano nella preparazione di pietanze attorno a un ingrediente comune, il quale si è qui rivelato una colossale, spaventosa aragosta marrone…

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