Un drone accoglie la Cina nel suo quinto millennio

Scene magnifiche di una natura incontaminata: il fiume rapido dello Yangtze, sopra cui aleggia un sottile strato di misteriosa foschia. E i picchi montani del parco naturale di Zhangjiajie, diretti ispiratori del film Avatar in tutto tranne che nei draghi-pterodattili volanti (quelli locali, infatti, non avevano le ali). Seguiti dagli antichi monumenti… La celebre Grande Muraglia, voluta dal sommo despota Huangdi per proteggere il suo regno dalle incursioni dei temuti barbari del nord. Prima che fosse lui stesso ad avvelenarsi, bevendo il mercurio che avrebbe dovuto dargli l’immortalità. I terrazzamenti delle coltivazioni di riso di Dazhai, soprannominate il dorso del drago ed i palazzi tondi degli Hakka di Fujian. Seguiti da visioni di un futuro incomprensibile, palazzi sghembi e abbandonati, torreggianti grattacieli sulle coste di un oceano sconfinato. Posti in giustapposizione con il volto colossale di un giovane Mao Tse-tung, che decora lo skyline della moderna metropoli di Changsha, capoluogo dello Hunan.
Attraverso il flusso delle epoche, fluttuando sopra le ali della fantasia, il Cosmopavone incontrava i grandi personaggi del passato, trasformandosi nei loro oggetti più famosi: la mela di Newton, il vaso di Pandora… Era soltanto la storia di Yattodetaman, il quinto libro giapponese della serie Time Bokan nonché l’omonimo cartone animato, adattato per l’Italia con il titolo Calendar Man. Niente di simile ebbe mai modo di verificarsi. Ma qualcosa di simile, secondo la mitologia… Nella zona occidentale della decima provincia cinese per estensione, l’Hunan, due fenici volavano sopra le valli e i monti della Cina primordiale. I loro occhi spaziavano per i domini degli umani, mentre le rispettive code, lucide e flessuose come arcobaleni, disegnavano figure nell’azzurro cielo. Finché all’improvviso, al di là dell’orizzonte, non prese a palesarsi la principale città del popolo dei Miao. Nulla di simile era mai esistito su questa Terra: gli alti edifici sulle palafitte, noti come diaojiaolou, sorgevano sugli argini di uno splendente fiume, mentre barche con la testa di drago lo percorrevano liberamente, trasportando le fragranti merci di ogni parte dell’impero. Le donne del luogo, vestite in abito azzurro e ricoperte di gioielli, indossavano vistose sciarpe azzurre, come complemento delle complicate acconciature caratteristiche della loro etnia. In prossimità di un ansa, il castello di Huang Si Qiao svettava sopra il popolo in festa, intento in quel giorno sacro a celebrare la dea della creazione Nüwa. D’un tratto, come un fermito parve percorrere le piume fiammeggianti dell’uccello più grande: “Craa!” Lanciò un grido. E “Cra-Kraa!” Rispose lei. Quindi i due fantastici animali si fermarono nell’aere, emanando una luce intensa come quella di un mattino d’inverno. Quando essa ebbe modo di diradarsi, al loro posto sorgeva una montagna colossale. I locali, ripresosi dall’iniziale spaesamento, compresero cos’era successo, e da un confronto tra i locali, fu possibile trovargli anche un nome: il massiccio eterno di Feng (la Fenice Maschio) e Huang (la Fenice Femmina). E da quel giorno leggendario, anche la città divenne nota con il nome di Fenghuang.
Già, ma quando ebbe modo di verificarsi “quel giorno”? Quanto è antica, esattamente, la Cina? Senza inoltrarci troppo sul sentiero delle varie scuole di pensiero, iniziamo col definirla come una delle ancestrali culle dell’umana civiltà. I suoi mitici fondatori, figure al confine tra il folklore e vaghi riferimenti proto-storici, si perdono nelle nebbie del tempo, al suono di nomi splendidi ed altisonanti: Shennong il saggio, sovrano della Preistoria, che acquisendo una conoscenza approfondita del corpo umano, si dice avesse creato il concetto stesso della medicina. Qualcuno lo chiamava Tiānhuáng, il sovrano del cielo, e sarebbe stato pronto a giurare che avesse 12 teste, la capacità di usare la sua magia per riempire il cielo e la terra e un’aspettativa di vita pienamente soddisfatta di “appena” 8.000 anni. Ma potrebbe anche essersi trattato di una vaga… Esagerazione. E poi, ovviamente, lei: Nüwa, la dea serpente madre dell’umanità. Venerata anche dai cinesi non appartenenti all’etnia dei Miao, benché lì associata soprattutto a una specifica ed importante storia. Secondo cui ella non era totalmente sola, nel pianeta delle origini, ma viveva assieme ad un fratello maggiore, Fu Xi, con il quale fu costretta a sposarsi, per il semplice fatto che non c’erano altri uomini assieme a cui popolare il mondo. Incidentalmente, si dice che proprio da questo fatto, ebbe l’origine l’usanza per la sposa di coprirsi il volto con un ventaglio, come fece lei in quell’occasione, per superare almeno in parte l’imbarazzo dell’incesto. Fu il primo dei suoi figli, quindi, il grande Imperatore Giallo, a dare inizio alla dinastia degli Xia. Era il 2070 a.C, secolo più, secolo meno.

Leggi tutto

L’esercito invisibile della città di Graz

“Per ordine del vescovo di Roma, il Capo della Chiesa e vicario di Cristo in Terra, sono qui a portare in questo esercito la voce della ragione. Cessate, Sire, i questo assalto ingiustificato contro il vostro Imperatore.” Le parole latine usate da Bartolomeo Maraschi, vescovo di città di castello e legato papale, riecheggiarono per il campo dell’assedio di Graz. Il dito alzato in un ammonimento, il pastorale come un parafulmine contro gli sguardi ed il potere transitorio dei viventi. Era l’anno del Signore 1482, quando Matthias Corvinus, re dell’Ungheria, fece la sua mossa per riscuotere il debito contratto da Federico III d’Asburgo, l’austriaco che attualmente rivestiva il manto di protettore in terra dell’intera Cristianità. Il lunghi capelli che scendevano fino alle spalle ricadendo sul mantello rosso, la corazza in un solo pezzo di splendente acciaio lavorato e i guanti d’arme, l’uno dei quali ricadeva, quasi per caso, in prossimità del pomolo della sua spada lunga due spanne. L’altro poggiato sul destriero di Brabant, coperto dalla rigida bardatura a piastre. L’elmo incrostato di gemme e con l’immagine della sacra croce dorata dinnanzi alla visiera, ancora da una parte, tenuto in mano con reverenza dal fedele scudiero. Ci fu un attimo di assoluto silenzio, tra i fidati luogotenenti riuniti in consiglio informale prima di condurre l’ultimo assalto. L’arrivo del rappresentante del Vaticano era atteso, ma nonostante questo, sopraggiunse come un fulmine sopra le tombe dei soldati morti durante la sanguinosa campagna. Tirando un lungo sospiro, il re parlò: “L’Austria brucia, Eminenza. Questo è un fatto. Dieci anni fa, ricacciai i turchi dalla Moravia e dalla Wallachia, quindi marciai con il mio esercito fino in Polonia. Fu l’Imperatore stesso, allora, a stipulare con me la pace in cambio di un’indennità di guerra che non mi è stata mai concessa.” Soltanto allora re Corvinus passò le redini al suo servitore, quindi si inchinò profondamene alla figura religiosa: “In verità vi dico, se un governante non è in grado di mantenere la sua parola, che si faccia da parte. Egli non è degno di difendere la cristianità.”
La Styria: terra di confine. Un luogo in cui, attraverso i secoli, nazioni ed armate mercenarie, austriaci ed ottomani, cristiani e musulmani si combatterono strenuamente, finché di ogni città di questo Land non restò altro che un cumulo fumante di macerie. Tutte, tranne una: nella valle del fiume Mur, all’ombra dello Schlossberg, il “monte castello” fortificato originariamente dagli sloveni, Graz si era dimostrata imprendibile persino ai colpi dei più moderni e terribili cannoni. Nessuno, non importa quanto preparato, si era dimostrato in grado di oltrepassare quelle spesse mura. Fino a quel momento! Rialzatosi voltando le spalle al vescovo, il sovrano passò in rassegna i più fidati tra le sue truppe: la temuta Armata Nera d’Ungheria, composta dagli eredi stessi dei guerrieri delle antiche steppe, in una schiera di armature brunite cupe come la notte stessa, punteggiate con l’occasionale vessillo rosso e bianco dalla doppia croce, un simbolo mutuato dai commerci pregressi con il decaduto regno di Bisanzio. Ciascuno armato di una spada, una mazza e una picca, ed uno ogni quattro di ciò che li aveva resi imbattuti in una buona metà dell’Europa d’Oriente: il temutissimo archibugio. In un’epoca in cui ancora tutti si chiedevano cosa ci fosse di tanto utile, in un’arma che imitava malamente l’arco o la balestra senza averne la stessa affidabilità, Corvinus aveva compreso soprattutto il suo potere psicologico, del rombo che diventava come un grido di guerra, gettando lo sconforto dentro il cuore dei suoi nemici. Ormai a cavallo da cinque minuti, la mano destra alzata in un gesto imperioso, il re gridò il segnale prestabilito, che venne fatto riecheggiare per le schiere come l’eco di una riscossa sulle ragioni del Fato. Avanti, miei prodi, andate avanti. Il capo di un popolo cavalca innanzi ai suoi guerrieri, ma non certo durante gli assedi. E a molti altri, tra i nobili, era concesso di pensarla nello stesso modo. Fu una lunga cavalcata… Quando finalmente lo stemma degli Asburgo comparve chiaro sopra la porta della città, saldamente serrata con la doppia anta in legno di quercia, esso lo fece accompagnato da una seconda visione, ben più preoccupante. Centinaia, anzi migliaia di persone tra le merlature, ciascuna delle quali intenta nello scrutare l’orizzonte. Nessuno di loro poteva vantare l’aspetto di un soldato. Erano artigiani, mercanti, contadini. Soltanto alcun indossavano l’armatura. Ma nel momento in cui la schiera degli ungheresi fu finalmente a tiro, accanto al volto di ognuno prese a sollevarsi l’arma con cui si addestravano da lunghe settimane: un fucile della più pregiata forgiatura, oppure una pistola con la lunga miccia scintillante. Sembrava invero che l’intera popolazione della capitale regionale fosse pronta a fare fuoco contro gli assalitori in arme provenienti da Est. Fu proprio allora, se vogliamo continuare in questa fantasia, che Matthias Corvinus ebbe una visione. L’arcangelo Michele in persona, probabilmente richiamato dalle parole del legato papale, comparve in una sfera fiammeggiante sopra la polvere dell’antica strada di fattura romana: “Saggio governante, ricevi la mia profezia: oggi Graz non cadrà. Oggi, non cadrà.” Gli occhi strabuzzati, richiamato lo scudiero al suo fianco, il re chiese di suonare la ritirata. Torante indietro, indietro fino in Ungheria…

Leggi tutto

Il pianeta che morì per formare la Terra

theia-planet

Mentre la tiepida temperatura autunnale abbandona l’anima delle nostre case, spinta via dal freddo candido che è sempre stato prossimo al Natale, sarebbe anche lecito porsi un interrogativo fondamentale di base: perché mai succede questo? O meglio, qual’è la sua genesi remota? Noi ben conosciamo l’alternanza di estate/inverno, con i due stati intermedi (benché le mezze stagioni, si sa…) così come il fatto che l’asse terrestre, prima ancora che esistessero gli oceani, è inclinato di 23 gradi, ponendo alternativamente l’uno oppure l’altro emisfero in posizione di vicinanza al Sole, nel corso della grande corsa sul circuito ellittico che dura pressoché un anno. Eppure, se è vero che questo pianeta si è formato per concrezione delle polveri di un’ancestrale nebulosa, saldamente unitesi in funzione delle forze gravitazionali, ciò dev’essere per forza avvenuto sul piano di un disco roteante, com’è provato dalle attuali orbite di questo e gli altri corpi planetari. La palla gira, dunque, e nel contempo rotola in maniera regolare. Questo era primario, del resto, per la formazione della vita. Ma tutto punterebbe a un movimento di rotazione coplanare con la rivoluzione attorno al nostra stella… Resta il mistero, a questo punto, dell’origine di questa dissonanza. Perché mai la Terra è sbilenca? Esistono diverse teorie. Ma c’è n’è una particolarmente affascinante, perché funzionale anche a chiarire l’origine di un altro mistero, l’esistenza del nostro satellite comparabilmente sovradimensionato, la Luna. Si riassume così: circa 4,5 miliardi di anni fa, poco prima dell’inizio dell’intenso bombardamento tardivo durante il quale il nostro pianeta sarebbe stato colpito da una quantità spropositata di asteroidi, esso fu raggiunto dal più grande bolide della sua storia: Theia, un corpo della dimensione approssimativa di Marte. In un vortice di fiamme e magma, l’intera superficie della proto-Terra venne sconquassata nella sua stessa essenza. Tutta l’acqua, accumulata attraverso gli eoni grazie all’impatto di remote comete, si prosciugò istantaneamente. Il nucleo di ferro pesante nascosto nell’invasore spaziale penetrò come un proiettile all’interno di crosta e mantello, sprofondando fino al centro del pianeta dove si fuse con il suo gemello pre-esistente. I frammenti di roccia e altri materiali più leggeri, invece, si suddivisero equamente tra il suolo, dove andarono a formare il tessuto stesso dei futuri continenti, e di rimbalzo l’oscurità cosmica, dove sarebbero di nuovo stati catturati dalla nostra gravità. Su stima che la massa complessiva della Terra, quel giorno, aumentò in percentuale considerevole. Lo sciame esterno quindi, nuovamente congregato per la forza d’attrazione naturale in un anello, in un tempo medio avrebbe assunto quell’aspetto familiare dell’astro di Selene, la dea che illumina le nostre notti fin dall’alba dei tempi. Lasciando sotto il suo distaccato sguardo, la più assoluta rovina risultante da una catastrofe del tutto senza precedenti.
Stella, pianeta ed asteroide: vediamo per quanto possibile cos’era Theia, da dove veniva e soprattutto perché, nonostante l’ingloriosa fine, la scienza sia disposta a considerarla dal punto di vista della nomenclatura alla pari della nostra culla verde-azzurra. Il punto principale da considerare a tal proposito è una distinzione in tre parti: ciò che insiste, ciò che esiste e ciò che sussiste. Il primo insieme, associabile al gruppo delle nostre cosiddette stelle fisse (che poi fisse, in effetti, non sono) è occupato da corpi celesti talmente massivi che il peso specifico dei loro elementi genera una costante reazione atomica dall’energia spropositata. Essi bruciano, fino al momento in cui molti miliardi d’anno dopo, esaurito il carburante, iniziano a  sfogare l’energia residua aumentando le proprie dimensioni, per poi esplodere come delle mostruose bombe. Supernova, si chiama questo effetto, e sprigiona nel cosmo dei fasci di raggi gamma colossali, il cui passaggio può essere del tutto sufficiente a eliminare, in un istante, l’intera vita di un sistema stellare. Il pianeta, dal canto suo, è quel corpo sufficientemente piccolo da non dover subire un simile destino, ma anche abbastanza grande da acquisire una sua orbita stabile e sopratutto mantenerla, potenzialmente nella “zona di Riccioli d’Oro” (non troppo calda, non troppo fredda…) all’interno della quale può anche nascere, se il caso vuole, una pluri-millenaria civiltà. Ancora diverso, invece, è il destino dell’asteroide. Che si forma nello stesso modo, ma si trova in una posizione in cui la sua massa generalmente inferiore risulta influenzata dalle più grandi forze in gioco. Dando l’origine ad eventi come quello descritto nella cosiddetta teoria del Grande Impatto…

Leggi tutto

L’incredibile potenza del cavallo brabantino

brabant-horse

Nelle tipiche illustrazioni fantasy, come quelle del popolare videogioco World of Warcraft o dello strategico con le miniature da tavolo che l’ha ispirato, ricorre un particolare stile nel raffigurare i personaggi, tutt’altro che realistico nella maggior parte dei casi: i guerrieri hanno spalle larghissime, con protezioni sovradimensionate e dei lineamenti straordinariamente pronunciati, simili a quelli di un uomo primitivo. Le mani son enormi, mentre le membra sono corte e tozze, per accentuarne la muscolatura, tanto che sembra quasi di trovarsi di fronte a un’ibrido uomo-gorilla. E non entriamo nel merito delle proporzioni femminili, che è meglio… Il che del resto ha un senso nella ricerca di una grafica che possa dirsi caratteristica e divertente. Nel caso degli orchi, elfi e gli altri meta-umani, tra l’altro, tutto appare più che mai giustificato. Per quanto concerne invece i cavalli forniti ai giocatori, fondamentale mezzo di trasporto in una società d’ispirazione medievale, sarebbe difficile pensarci fuori dalle regioni della più pura invenzione: essi appaiono infatti lunghi e massicci, le zampe larghe come quelle di un rinoceronte. Il muso corto ed una testa piccolissima, posta sulla sommità di un petto squadrato almeno quanto quello di un pitbull, mentre i quarti posteriori, tondeggianti e solidi come la roccia, ricordano da vicino il sedere di un cane corgi. Questi esseri così diversi da un moderno purosangue, come dal tipico ronzino che tutt’ora serve nelle fattorie, galoppano con piena bardatura di metallo, vere e proprie parti d’armatura a piastre, nonché sulla sella riccamente ornata, un cavaliere grosso e forte, a sua volta abbigliato grosso modo come Jeeg Robot d’acciaio con le corna da vichingo, armato di spada, mazza, lancia e così via… 200, 300 Kg complessivi? Possibile. Tutt’altro che irrealistico. Perché lasciate che vi dica la realtà insospettata: quel tipo di cavallo esiste davvero, viene dal Belgio e… Potrebbe farcela davvero. Niente, nella storia pregressa di questa razza, è mai riuscito a far crollare la sua straordinaria determinazione.
E questo è un aspetto, io credo, a cui non si pensa tanto spesso. Che le cavalcature più pregiate delle epoche trascorse non erano certo gli antenati diretti di quelli che vediamo oggi all’ippodromo, straordinariamente fragili e veloci. Ma dei veri carri armati del regno animale, costruiti come macchine da guerra: il destriero, il palafreno, il corsiero, l’hunter. Tutti termini d’uso comune non tanto riferiti a specifiche linee genetiche, bensì al ruolo che questi quadrupedi assumevano nella loro vita con gli umani, particolarmente nel momento di scendere in battaglia. Se soltanto potessimo vederne uno da vicino, oggi, non avremmo il benché minimo dubbio: queste sono bestie da fatica, ovvero, da tiro. Animali concepiti per lo sforzo, tutt’altro che aggraziati in termini generali eppure, se soltanto li si guarda con l’occhio critico innato, dotati di una loro grazia e bellezza assai difficile da trascurare. Oggi il Gran Cavallo, come ancora lo chiamava Leonardo da Vinci nel 1482, nel progetto che doveva servire per la statua mai realizzata di Ludovico il Moro, è sostanzialmente sparito, benché persistano su questa Terra alcuni suoi remoti discendenti. E primo fra tutti, come avrete certamente capito dal video di apertura e l’accenno fatto poco sopra, è lui, il cavallo Belga da tiro. O come viene talvolta chiamato, il cavallo (della regione) di Brabant, o Brabantino. Una bestia formidabile e pacata, standardizzata soltanto a partire dal XIX secolo in tre varianti di altezza progressivamente maggiore: il Gros de la Deandre, il Gros di Hainaut e il Colosses de la Mehaique. Fin dalle soglie del ‘900, poi, alcuni esemplari importati negli Stati Uniti vennero selezionati per creare una versione dai tratti atipici meno accentuati, sostanzialmente simile a un cavallo normale di colore esclusivamente marrone. Ma grosso, enorme persino: gli esemplari maschi superano spesso la tonnellata di peso. Il più grande Brabantino presente o passato di cui abbiamo notizia è Big Jake, un castrato di 9 anni originario Wisconsin, misurante la cifra vertiginosa di 210 cm senza indossare i ferri. Trascinare un tronco per lui sarebbe un gioco da ragazzi, per non parlare di…Altre cose…

Leggi tutto