Una strana scena, se si osserva in video senza avere un utile quanto evidente prospettiva di riferimento. L’atmosfera è quella di una spiaggia, in cui la gente sembra essere impegnata in un particolare tipo di maratona. Alcuni corrono, gioiosi, verso l’obiettivo. Le loro braccia che si agitano mentre laboriosamente tentano di rimanere in equilibrio, i piedi sollevati a malapena prima di avanzare un altro passo verso l’obiettivo non del tutto chiaro. E in senso opposto, stranamente, un gruppo in chiara contrapposizione, di turisti in fila indiana o che tale potrebbe essere definita. Se non fosse, più che altro, una fila di orsi o di primati, che arrancando a quattro zampe tengono la testa china, concentrati in quello che parrebbe a tutti gli effetti essere un compito particolarmente gravoso. Una metafora dell’intero ciclo dell’esistenza umana, dalla gioventù alla vecchiaia? Oppure l’esito di un luogo in cui si spende fino all’ultimo scampolo d’energia residua, dovendo quindi ritornare al punto di partenza nell’unico modo a cui è ancora possibile far ricorso? In un certo senso, più la seconda ipotesi che la prima. Benché occorre precisare: è il viaggio stesso, l’obiettivo. E che viaggio… Una realtà che si palesa non appena l’occhio dell’osservatore digitalizzato viene mosso in direzione laterale. Rendendo fin troppo palese una pendenza dolorosamente prossima ai 45 gradi, di per se capace di estendersi per un dislivello pari a 50 metri. La cui esperienza, se fossimo in montagna, sarebbe giudicata un’impresa degna di essere chiamata vero alpinismo. Ma poiché siamo sulle coste del grande lago Michigan, il suo nome è Sleepin Bear Dune(s). La “Duna dell’Orsa Addormentata” con riferimento alla leggenda dei nativi Ojibwe, secondo cui la madre di una cucciolata di plantigradi che aveva attraversato le acque aspettò la propria prole sulla riva, per un tempo molto lungo, finché dovette rassegnarsi al loro improvvido annegamento. La che l’intercessione del Grande Spirito avrebbe trasformato loro in isole (South & North Manitou) e sepolto lei sotto la sabbia, affinché potesse continuare ad aspettarli per l’eternità. Non propriamente un lieto fine, a dirla tutta. Tranne che dal punto di vista di chi ama i paesaggi senza termini di paragone, meritevoli destinazioni per l’incrollabile entusiasmo del popolo di Instagram, così come lo erano stati per coloro che erano dotati degli strumenti simbolo della fotografia analogica convenzionale. Giacché non v’è luogo alternativo, in tutti gli Stati Uniti, in cui sia possibile discendere un declivio altrettanto scosceso in sicurezza. Sotto ogni punto di vista rilevante, tranne quello del possesso di energie residue sufficienti a risalire da dove si era venuti…
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Battaglia tra le piccole fessure del deserto: la formidabile presenza del planigale
Quando l’asse dell’inclinazione variò impercettibilmente, nel momento in cui la composizione dell’atmosfera terrestre mutò di alcuni atomi latenti, alla caduta di un corpo celeste come possono avvenirne dozzine all’interno di una singola era geologica, interi ecosistemi crollarono, gruppi di specie cessarono di esistere, l’equilibrio di forza tra le forme di vita venne scardinato via, letteralmente, dalle solide mura dell’edificio. Questo poiché la selezione naturale, di suo conto, non era preparata. Riuscite ad immaginare, da un punto di vista fisico, qualcosa di più forte di un tirannosauro? Le fauci gigantesche con le arcuate zampe, capaci di spingerlo all’indirizzo della preda con la velocità paragonabile a quella di uno scooter di piccola cilindrata. Possente, ma mai imbattibile. Poiché soltanto ad un’analisi superficiale, la presenza fisica riesce a costituire l’intero romanzo storico di un animale. La cui vicenda ed ultima risoluzione sono l’effettiva conseguenza, da un punto di vista pratico di multipli eminenti fattori di contesto. Non è il dominatore nessun altro, che il più terribile divoratore… Del suo contesto. E ciò che è molto piccolo può anche riuscire a sopravvivere. Dove creature molto più imponenti, già da molto tempo, avrebbero gettato la spugna dell’estinzione. Minuto, compatto, insignificante come il Planigale ingrami da 60 mm di lunghezza, 4,2 grammi di peso, tali da farne il più piccolo marsupiale dell’Australia e del mondo. Nonché il più piccolo mammifero, probabilmente. In quello che potremmo agevolmente definire come con caso di convergenza evolutiva nei confronti del topo pigmeo africano, le cui somiglianze in termine di dieta, comportamento e predisposizioni risultano del resto essere notevolmente diverse. Difficile in effetti immaginare, qui o in altre circostanze, un predatore più famelico ed al tempo stesso efficiente di questo, capace di suddividere i propri cicli diurni e notturni tra frequenti pause letargiche, come fatto dai pennuti colibrì americani, e frenetiche spedizioni di caccia, capaci di renderlo il terrore incontrastato di ragni, scorpioni, scarabei e millepiedi. Creature capaci di risultare, nel più arido e vasto continente meridionale, tanto spesso più grandi di lui. Ed è un vero spettacolo vedere l’agile aggressore che gli balza addosso, agguantandoli con le sue manine dai metatarsi allungati, mentre si affretta ad ucciderli con uno o due morsi della mandibola dalla forma piatta ed allargata. Incorporata nel progetto di un cranio che potremmo definire tra i più aerodinamici del mondo naturale, la cui sommità non supera i 4 mm di distanza dal suolo, come accorgimento particolare a intraprendere il tipo di avventura che l’animale, nella maggior parte delle circostanze, è stato preparato a intraprendere in una nicchia ecologica estremamente definita: escursioni tra il duro terreno spaccato dal sole del Territorio del Nord ed il Queensland, unico luogo riparato dal calore accumulato nelle ore diurne persino dopo il calar del sole, quando iniziano le ore preferite dal piccolo aggressore d’insetti del sostrato latente. Incolpevoli soggetti della predazione, cionondimeno condannati dalle caratteristiche inerenti del proprio stesso luogo di permanenza…
Le affilate zanne del ragno che ha fatto dell’assassinio il suo stile di vita
Il pellicano costituisce, per qualsiasi animale di mare o di terra che sia più piccolo della sua bocca, un pericolo pressoché costante. Non che l’aspetto di uno degli uccelli volanti più imponenti al mondo incoraggi a concedergli alcun tipo di fiducia, con gli occhi fissi, il grosso becco dalla parte inferiore rigonfia e la postura oscillante, che lo vede brandirlo come un surreale spadaccino. Innumerevoli sono i filmati, reperibili online, in cui la creatura in questione agguanta e ingurgita creature come un temibile gabbiano sovradimensionato. Non c’è nulla di più orribile ad immaginarsi, proprio in funzione di questo, che la perfetta via di mezzo tra un simile predatore aviario e il ragno, l’apparente risposta della natura alla domanda “Come posso coniugare assieme la combinazione di fenotipi evolutivi del più inarrestabile, ingegnoso, implacabile tra i predatori privi di una spina dorsale?” Una visione non così ipotetica e del tutto degna di essere considerata preoccupante per chiunque incluso l’uomo, se non stessimo parlando di creature non più imponenti di un singolo chicco di riso. La cui stessa vita ed intera esistenza, d’altra parte, paiono profondamente dedicate al perfezionamento di un tecnica di caccia dei propri simili introdotta a questo mondo dal periodo alquanto significativo di 40 milioni di anni. Così lungo, che ad una presa di coscienza cronologicamente approfondita sarà possibile trarre la conclusione che proprio il nostro ottuplice amico sia in effetti assai più antico dell’eponimo pennuto di riferimento. Al punto che sarebbe formalmente più corretto chiamare quest’ultimo “uccello-Archaeidae” piuttosto che il contrario. Il che appare oggettivamente poco probabile, visto come il piccolo predatore non assomigli poi così tanto alla controparte, fatta eccezione per il lungo “collo” specifiche situazioni in cui le proprie zanne raptatorie, concettualmente non così dissimili da quelle di una mantide religiosa, non si trovino raccolte assieme e puntate rigorosamente verso il basso, alla stessa maniera del becco menzionato nei paragrafi precedenti. Pur trattandosi, come avrete capito a questo punto, di due arti nettamente distinti ed indipendenti, nel caso specifico corrispondenti alla definizione dei cheliceri, impiegati dalla stragrande maggioranza degli aracnidi per poter introdurre il cibo all’interno delle proprie bocche affamate. O come in questo caso… Catturarlo. Con un approccio strategico utilizzato indifferentemente dai maschi che le femmine di questo gruppo di circa 90 specie, il cui dimorfismo proporzionale risulta essere d’altronde molto inferiore a quello di altri esponenti della classe dei ragni. Un chiaro requisito, per permettere anche ai maschi di effettuare l’accurato assalto strategico nei confronti dei malcapitati rappresentanti dello stesso gruppo d’ipotetici tessitori di ragnatela… Benché costui possa vantare, nella maggior parte dei casi, molto di meglio da fare.
La pianta carnivora trasformata dall’evoluzione in vespasiano dei toporagni
Tra tutte le creature preistoriche addomesticate per semplificare la vita alla famiglia Flintstones, i protagonisti del cartoon “Gli Antenati”, ce n’è sempre stata una in grado di suscitare un certo grado di compassione da coloro che sapevano cogliere le implicazioni latenti. Poiché necessariamente presente, benché mai mostrata, al pari del pellicano che lavava i piatti e il mini-dinosauro con l’incarico di aspirapolvere, doveva figurare in casa un animale parlante pronto ad esclamare alla telecamera “Odio il mio lavoro!” dopo aver permesso a un utilizzatore umano di espletare uno dei propri bisogni fondamentali nel massimo del comfort, senza dover fare ricorso ad implementi anacronistici quali lo sciacquone, o l’acquedotto. O magari, perché no, una pianta. Forse per accentuare l’effetto comico o poca flessibilità creativa, gli originali sceneggiatori degli anni ’60 della serie (ed i loro molti Progenitori) evitarono tendenzialmente a personificare o dotare di sentimenti le presenze radicate prese in prestito della giungla selvaggia e piena di misteri, che necessariamente avrebbe dovuto circondare il gremito insediamento di Bedrock. Un errore, a dire il vero, in alcun modo indotto o agevolato dalla natura, specie quando si considera l’effettiva esistenza, in uno dei luoghi rimasti più prossimi a quel mondo ancora scevro di sostanze inquinanti o stabilimenti industriali pesanti, di una pianta in particolare che parrebbe aver dedicato la sua lunga e articolata vita alla raccolta sistematica degli escrementi. Con una metodologia precisa, la cui efficacia potrebbe indurre anche i più entusiastici cultori dei miracoli capaci di ottimizzazione autonoma all’intervento, per lo meno preliminare, di un Gran Disegno. Poiché chi, se non un saggio Demiurgo, avrebbe potuto concepire qualcosa di straordinariamente ingegnoso quanto il processo ultra-specializzato della Nepenthes rajah, calice vegetativo concentrato unicamente sopra l’oasi verticale del monte Kinabalu, il singolo massiccio più svettante del Borneo? Una di quelle piante costruite come un recipiente, che per certi versi ricordano un’orchidea pur non dovendo ricorrere allo stesso stile subdolo di procura delle sostanze nutritive, estratte da quest’ultime stritolando e togliendo forza alle piante più grandi. Il che non significa, d’altronde, che le appartenenti a questo verde genere siano del tutto prive di un intento subdolo nascosto, vista la loro propensione ben nota a lasciar cadere malcapitati insetti all’interno dello spazio deputato, per poi lasciarli affogare nel proprio nettare al fine di digerirne la preziosa essenza. Il che costituisce di suo conto il nocciolo della questione, poiché se questa specie, rara e preziosa, forma dei bicchieri della morte alti fino a 40 cm, e tenendo in considerazione la marcata preferenza dell’evoluzione per la conservazione dell’energia in eccesso, è del tutto lecito chiedersi quale possa essere l’artropode abbastanza grande da doverci cadere all’interno. Almeno finché il primo naturalista non ha notato, con sua suprema sorpresa, la frequenza con cui gli esponenti di una distintiva specie di toporagno, il Tupaia montana simile a uno scoiattolo per abitudini e comportamento (pur non essendo, affatto, un roditore) erano soliti recarsi sopra la suprema foglia, per leccare con trasporto il nettare fruttato che appositamente ricopriva il suo elegante coperchio. Pur essendo troppo grandi, ed agili, per caderci all’interno. Il che d’altra parte non valeva per quanto concerne per i loro piccoli ma preziosi escrementi…