Fluttuare, pensare, forse addirittura immaginare. Nel nugolo formato dai nostri stessi fratelli, appena coscienti dell’energia cinetica gentilmente offerta dalla corrente. Tutti assieme scaturiti dalle uova, poste all’ombra dell’enorme struttura semovente della propria stessa madre. Un’ombra superna? La massa dell’inconoscibile gigante? Eppure gli occhi ancora parzialmente sviluppati, primitivi anche allo stadio della propria completezza generazionale, già riuscivano a vedere il passo di quel futuro. Nell’attività di quelli che, per propria predisposizione genetica, già avevano compiuto la prima delle proprie mutazioni al compiersi di soli 18 giorni, piuttosto che 20 o 21. Tutto è relativo, questo è certo; così come le “piccole” aragoste striscianti sul fondale, allo sguardo dei propri precursori, appaiono dell’approssimativa dimensione di una station wagon atlantidea… 15, 20 cm. Non che le zoee, forma primordiale di un adulto molto più notevole, avessero la cognizione di automobili, città perdute sotto i flutti o a dire il vero anche gli stadi successivi della propria vita destinata a durare approssimativamente 50-100 anni. Un secolo durante il quale molte cose avrebbero potuto accadere. Tra cui essere mangiati, un’enorme quantità di volte, al dipanarsi di frangenti sfortunati della propria gioventù infinitesimale. E fino al raggiungimento dell’optimum, corrispondente a una larghezza tra le due chele pari ad un computo di 3,8 metri. Fluttuando, pensando, immaginando, i piccoli si volgono allo stesso tempo nella direzione della luce. “Dacci un po’ di forza” sembrano affermare. Affinché il nostro fato possa compiersi, fino al raggiungimento del predestinato predominio delle profondità.
La verità esteriore del Macrocheira kaempferi, granceola o granchio gigante dei mari d’Oriente, è che essa viene amichevolmente definita come un kaiju (mostro cinematografico giapponese) per le sue dimensioni e le infondate voci in merito ad un’improbabile aggressività. Mentre molto più corretto sarebbe in fin dei conti, nella grande varietà degli esseri fantastici adatti al paragone, riferirsi ai camminatori immaginati per la prima volta da H.G. Wells per il suo romanzo La Guerra dei Mondi (1897) sopiti al di sotto della superficie terrestre in attesa di essere risvegliati da un occulto segnale alieno. In bilico sulle possenti zampe, capaci di muoversi soltanto al rallentatore, in una lenta, inesorabile marcia di distruzione. Ed anche in assenza di raggi laser puntati ed emessi dalla solida corazza del loro corpo centrale, ci sono in effetti ben pochi dubbi che il takāshigani (タカアシガニ – Granchio ragno) sia perfettamente in grado di farsi rispettare all’interno del proprio ambiente, soprattutto vista la grandezza superiore a quella dei molti potenziali predatori. Poiché ben pochi polipi, razze, mante o pesci avrebbero il coraggio di tentare la fortuna con qualcosa di così massiccio ed inquietante. Sebbene, vista l’indole in realtà mansueta di queste creature, le apparenze possano frequentemente trarre in inganno gli osservatori…
scienza
Il segreto super-predatore che si annida sotto i ghiacci più profondi della Patagonia
La natura del tardigrado ha per lungo tempo messo in discussione ogni acquisito punto fermo in merito alle limitazioni della vita e quello che può essere, idealmente, sopportato da esseri creati con l’esplicito mandato di riuscire a prosperare pressoché ovunque. Il che costituisce un significativo tratto di distinzione, laddove la maggior parte degli estremofili sono creature dall’alto grado di specializzazione, adattate unicamente a una particolare tipologia di ambiente convenzionalmente molto inospitale, al di fuori del quale perdono ogni ereditata prerogativa e inclinazione alla presunta invulnerabilità. Questione largamente esemplificata, per dire, dall’areale assai specifico di determinati artropodi, esseri derivati dal più vasto e variegato phylum della Terra, che cionondimeno sembrano essersi evoluti all’interno di un vuoto, inteso come isolamento tassonomico e territoriale da ogni possibile ascendenza evolutiva adiacente. Ed è soprattutto per questo che l’altisonante soprannome del principale plecottero sub-glaciale sudamericano, il cosiddetto Drago della Patagonia, appare tanto appropriato nonché pregno di significato, nonostante la misura massima capace di aggirarsi attorno al centimetro e mezzo. Nonché l’aspetto generalmente riconducibile, in senso lato, a una piccola aragosta del tutto priva di chele, grosse mandibole o agli artigli sul finire delle zampe tipici delle altre stonefly o “mosche della pietra”, come viene chiamata dagli anglofoni questa intera famiglia d’insetti. Che non è l’unico né più significativo tratto di distinzione, sebbene sia tutt’altro che inaudita la sua seconda e più importante privazione, quella di un paio d’ali conduttivi al sopracitato inserimento tassonomico nella macro-categoria delle “mosche”. Ma l’Andiperla willinki, con il suo nome scientifico riferito al presunto scopritore nel 1956, l’entomologo ed esploratore olandese Abraham Willink (1920-1998) non parrebbe possedere alcuna percezione della propria unicità, nel modo in cui semplicemente pascola e si riproduce, laddove ben pochi altri esseri a questo mondo potrebbero immaginare di riuscire idealmente ad adattarsi. Nelle profondità di ghiacciai come quello di Uppsala, dove furono trovati i primi esemplari descritti scientificamente, sotto uno spesso strato di ghiaccio e nell’oscurità dove riescono a vedere grazie agli occhi estremamente ben sviluppati, per emergere soltanto temporaneamente nel corso delle ore notturne, al fine di procacciarsi agevolmente il cibo. Costituito in parti pressoché uguali, in base a quanto è stato determinato, da strati di alghe microscopiche presenti all’interno della crioconite, la polvere biologica trasportata dal vento, e sfortunati collemboli che sono giunti fino a simili recessi inospitali del territorio. Il che fa effettivamente del piccolo predatore il più aggressivo e vorace essere nel suo territorio d’elezione, ove ben pochi altri potrebbero riuscire ad adattarsi efficacemente. Eppure come dicevamo, il drago della Patagonia è una creatura estremamente selettiva, capace di raggiungere l’età della riproduzione soltanto se la temperatura si trova tra i -10 e zero gradi, al di sopra dei quali inizia ad avere difficoltà a nutrirsi, quindi deperisce ed infine va incontro ad un’irrimediabile dipartita. Così come si riteneva fosse capitato alla stragrande maggioranza della sua specie, causa il mutamento climatico e conseguente ridursi del territorio utile di Uppsala soprattutto a partire dall’ultimo ventennio, finché popolazioni numerose del nostro amico non furono scovate coerentemente in altri luoghi elevati e gelidi in territorio cileno, tra cui la formazione glaciale di 250 Km quadrati del ghiacciaio Perito Moreno, una delle poche riserve di ghiaccio capaci di mantenere la propria estensione attraverso il turbolento e mutevole progredire delle decadi odierne. Essendo destinati a diventare, molto inaspettatamente, un’importante attrazione turistica locale…
Scoprendo per due volte la tentacolare società sommersa di Jervis Bay
Da un punto di vista evolutivo l’assoluta realizzazione tangibile del bisogno di essere lasciati stare, il timido mollusco nel suo guscio ha lungamente atteso il giorno della sua rivalsa sullo spietato sistema naturale di sopravvivenza. Questo finché attorno al Medio Cambriano (all’incirca 500 milioni di anni fa) ad un particolare ramo divergente dal corso principale di quel phylum non venne in mente di abbandonare totalmente ogni possibile strumento di protezione. Il che, per una creatura dal corpo totalmente molle nonché flessibile, significava lasciarsi alle spalle qualsiasi limite dato per acquisito in merito agli obiettivi da essa perseguibili, creando un vasto spazio da riempire con i propri sogni ed ambizioni terrene. Arti che si allungano e moltiplicano, mentre la capacità cogitativa cresce allo stesso tempo con il fine di massimizzarne un impiego sufficientemente utile nella costante ricerca della più importante materia prima dell’esistenza. L’energia, in forma di cibo, nel pratico formato di prede inconsapevoli e incapaci di salvarsi la vita. Perciò in tal senso, è possibile affermare che il cefalopode in quanto tale rappresenti la perfetta manifestazione di una creatura abile nell’attacco ma del tutto incapace di difendersi da un aggressore, una volta che dovesse essere stata colta coi tentacoli, per così dire, “nella biscottiera dei mitocondri”. SE d’altronde riuscirà a qualcuno, o qualcosa, di trovarla. Non è dunque molto complicato comprendere per quale ragione un essere che fa primariamente affidamento sul mimetismo e la furtività per riuscire a vivere un altro giorno, sia anche naturalmente scorbutico nei confronti dei propri simili, preferendo l’assoluta solitudine per la maggior parte del tempo, con l’unica necessaria eccezione dell’accoppiamento, che comunque non si estende per il maschio oltre i pochi minuti necessari per fecondare le uova precedentemente deposte dalla consorte. Dopo di che, grazie e arrivederci, a meno in base alle cognizioni largamente date per buone dal mondo accademico sulle linee guida del know-how guadagnato dai biologi all’interno di questo settore non propriamente incline a generare significative sorprese. Che di per se non restano, d’altronde, totalmente sconosciute nella maniera chiaramente esemplificata dalla scoperta della piccola “città” nota col nome di Octlantis, di per se una replica, piuttosto che versione sovradimensionata, della già nota Octopolis all’interno della stessa baia di Jervis. Un’insenatura marittima ragionevolmente protetta dai predatori, situata non troppo distante dall’omonimo villaggio sulla costa dell’Australia sud-orientale (Nuovo Galles del Sud) e famosa per il possesso di quella che viene convenzionalmente definita la sabbia più bianca del mondo. Assieme a una nutrita popolazione del cosiddetto polpo cupo di Sydney o Octopus tetricus, un tipico rappresentante della sua classe con lunghezza complessiva di 60 cm di cui soltanto 14 rappresentanti dal mantello centrale, con operosi tentacoli che s’irradiano in tutte le direzioni. Utili per raccogliere ed aprire le proprie prede principali, varie tipologie di molluschi bivalvi e qualche granchio, i cui gusci vuoti tende tradizionalmente a rigettare tutto attorno alla propria tana, generando un letterale cerchio rivelatore largamente ignorato dai pesci di passaggio. Ma non dalle persone, e di certo non da Matthew Lawrence, il primo sub a notare nel 2009 la presenza di un accumulo eccezionalmente grande di tale materiale di scarto, tanto che difficilmente poteva essere la risultanza dell’operato di un singolo esemplare di questa specie. Dal che, osservando attentamente il sito nel corso di diverse ore e giornate, scoprì attorno ad esso l’inaspettata convivenza di almeno 15 tentacolati abitanti degli abissi, intenti a fare quello che tanto strettamente siamo soliti associare alla vita condominiale: discutere, combattere, scacciarsi via a vicenda. Una chiara dimostrazione, se mai ce ne fosse stato il bisogno, dell’effettiva somiglianza della loro mente alla nostra…
Nativo eloquente dimostra lo schiocco tonante delle diverse consonanti sudafricane
All’origine della vicenda umana sulla Terra, le persone iniziarono a convergere l’una in prossimità dell’altra. Per proteggersi dai predatori, le intemperie e gli altri pericoli della natura, cominciarono perciò a cooperare. Ma come possiamo facilmente comprendere, non può esserci lavoro di concerto senza un qualche tipo di comunicazione. Taluni gruppi etnici, e l’intera specie soltanto vagamente imparentata alla nostra degli uomini di Neanderthal, utilizzarono perciò i gesti. Mentre altri, ben presto imitati dalla maggioranza, iniziarono da subito a impiegare lo spropositato potenziale dell’apparato fonatorio umano. O forse sarebbe più preciso definirlo, in questa fase, l’unione meramente pratica di naso, gola e bocca, capaci come nella maggior parte delle specie animali di articolare e manipolare il passaggio udibile dell’aria al loro interno. Guidata tuttavia, per la prima e significativa volta, dall’acuta intelligenza che conduce ad una pletora di applicazioni parallele, ciascuna improntata alla specifiche necessità di una particolare società, diversa in vari modi da ciascuna delle altre. Forse il più importante fondamento della scienza linguistica contemporanea, tuttavia, è che le caratteristiche fondamentali delle sopracitate strutture anatomiche, finalizzate nel contempo ad assolvere il non meno importante compito di mantenere in vita i loro proprietari, restano sostanzialmente invariate nell’intero ventaglio conseguente dall’originale diaspora geografica compiuta dai primi cacciatori-raccoglitori in Africa ed i loro discendenti, gli agricoltori. Ed è sulla base di questo che il particolare impiego dei fonemi utilizzati in un antico gruppo di lingue, situate nella parte meridionale di quel continente, viene giudicato “inusuale” nella maniera in cui devia da talune regole tanto diffuse da poter risalire, idealmente, all’ignoto idioma della prototipica Eva mitocondriale. La prima donna (o fino a 20.000 donne vissute allo stesso tempo) da cui discenderebbero le intere moltitudini dell’odierno consorzio parlante. E se invece, d’altra parte, fosse vero l’esatto contrario? Che quanto messo in pratica nel qui presente affascinante video di Sakhile, guida culturale del suo popolo, gli Zulu, fosse la strada maestra della comunicazione, soltanto per un mero caso del destino, abbandonato dalle moltitudini migranti delle famiglie umane?
Lo studio sistematico dei linguaggi, nato sul piano semiotico alla fine del XIX secolo, iniziò quindi dal sopracitato punto di partenza a descrivere una serie d’insiemi interconnessi, affini alle diverse famiglie tassonomiche impiegate nello studio della biologia. Individuando nella parte meridionale del più antico dei continenti ad essere popolato due realtà sostanzialmente distinte: le lingue cosiddette Khoisan, che accomunavano per l’appunto i Khoi (o Khoikhoi, letteralmente: veri uomini) ed i San (più comunemente detti boscimani) nella parte occidentale della “punta” africana, contrapposti a un altro gruppo di quattro idiomi noti come Nguni o con il termine imposto dall’alto di Bantù, giunti fino a questi luoghi nel corso delle ripetute diaspore e conflitti subiti dai gruppi etnici della regione dei Grandi Laghi (Victoria e Tanganyika) a seguito delle conquiste e saccheggi culminati nel grande conflitto etnico dello Mfecane, che si era esteso per trent’anni a partire dal 1810. Quando il grande capo tribale Shaka kaSenzangakhona, facendo onore alla primordiale tradizione bellica del suo popolo, elaborò strategie e tattiche non solo in grado di garantirgli la conquista dei suoi vicini, ma anche di resistere, per un tempo breve quanto significativo, alla potenza coloniale dell’Impero Inglese. Difficile non notare, d’altra parte, almeno un quantum dell’originale eloquenza appartenuta un tempo a un personaggio di quel calibro, nello stile laconico ed il naturale carisma tranquillo del nostro Virgilio nell’inconoscibile profondità dei linguaggi…