Lo sapevi. Lo sapevi, dannazione! Che non avresti dovuto passare la sera a leggere Guerra e Pace, con la finestra aperta e la luce accesa. Soltanto per addormentarti al capitolo in cui Anatole tenta e fallisce nel disonorare la bella Nataša Rostova, lasciando delicatamente scivolare il libro a lato del cuscino. Ma senza chiudere la finestra e soprattutto, senza spegnere la lampada del comodino! E ora, ti sei svegliato con uno strano presentimento. O forse hai sentito un rumore. Perfettamente immobile, apri gli occhi e la vedi. Lì, che si staglia contro l’intonaco bianco del soffitto. Una forma perfettamente simmetrica dalla funzione incerta. Quasi al rallentatore, la strana visione si anima e inizia delicatamente a planare. Mentre quelle che si rivelano essere delle ali, marroni ed intricate, sembrano cambiare la loro tonalità in base all’orientamento dei fotoni prodotti dal vecchio abat–jour. Cerchi di alzarti ma non ci riesci. Gridi un esclamazione, ma tutto quello che esce dal profondo della tua gola è un appena udibile: “Ah, frafr, farfr…la” mentre il pipistrello alieno appoggia se stesso sulla tua faccia e ti sigilla le labbra, con sei grosse zampe dai lunghi e sottili peli. La forma, quindi, si dispiega in tutta la sua magnificenza, rivelando l’aspetto finale. Due serpenti si allargano ai lati del tuo campo visivo, gli occhi fissi a guardare di lato, la bocca serrata a nascondere zanne indubbiamente letali. All’altezza del punto in cui potrebbe trovarsi il loro cuore, una finestra perfettamente trasparente. Attraverso cui, stranamente, ti sembra quasi di vedere la Luna.
Curiosamente, non abbiamo descritto una creatura giunta dall’Empireo per risucchiare via l’anima di chicchessia, bensì l’effettivo aspetto delle ali, ed ulteriori elementi esteriori, della falena Atlante o farfalla cobra (si, anche gli entomologi confondono le due cose) il cui appellativo scientifico recita Attacus atlas. Dalla parola latina per il concetto di “locusta” unito al nome di uno dei più importanti titani della mitologia greca, condannato da Zeus vincitore a sostenere il peso della Terra per un tempo infinito, le membra fiaccate dal compito ingrato e l’odio covato sotto un letto di braci mai veramente estinte. Questo in funzione essenzialmente di due fattori, il primo dei quali sono le dimensioni. Questo insetto rientra in effetti facilmente tra i maggiori al mondo, ed è stato considerato per lungo tempo quello con la superficie alare in assoluto maggiore, con i suoi 262 mm di larghezza dalla punta di un’escrescenza serpentiforme all’altra. Finché a qualcuno non è riuscito di misurare un esemplare da record di Thysania agrippina, la “strega bianca” delle foreste brasiliane, attribuendogli quegli ulteriori 30 mm che fanno inevitabilmente la differenza. Ma è la seconda ragione del nome, contestualmente, a rendere questa la falena più intrigante delle due: l’atlante, per così dire, che compare sulle sue ali e costituisce la seconda giustificazione del nome; poiché tradizionalmente, si dice che esse ricordino una cartina geografica. Tanto complessa e variegata risulta essere la sua livrea. Sui toni del marrone, il rossiccio, il bianco, il giallo ed il nero, con marcate finalità mimetiche e d’intimidazione (nel caso dei due cobra fittizi, ovviamente) finalizzati a scongiurare l’assalto di un predatore. Che risulterebbe, a dir poco, esiziale, visto il poco tempo concesso a una simile creatura su questa terra, poco meno di una settimana, a dir tanto, per trovare il/la partner, e produrre le circa 200 uova destinate a schiudersi nel giro di 10-14 giorni. Affinché il bruco cominci immediatamente a mangiare, e nutrirsi in preparazione dell’attimo in cui spiccherà il volo. A partire dal quale, non potrà nutrirsi mai più.
La fobia innata che molte persone provano nei confronti dei lepidotteri, soprattutto nel contesto notturno, appare così straordinariamente immotivata da giungere a sfidare l’immaginazione. Animali così totalmente innocui da non poter far altro che succhiare il nettare tramite la loro proboscide estensibile o talvolta, come nel caso della Attacus, neppure quello. Eppure bisogna ammettere che su questa scala, con il suo corpo tozzo e pesante, la volata un po’ sghemba che la porta ad urtare di qua e di là, l’immagine di una farfalla cobra che ti entra in casa possa suscitare un certo grado d’inquietudine. Fortunatamente, l’insetto vive soltanto nel Sud Est Asiatico, primariamente in Malesia, e una simile evenienza risulterebbe dunque piuttosto improbabile qui da noi…
natura
Le corna tra le foglie che nascondono una rana
Gente superstiziosa, i nostri albergatori, eppure non fecero una piega. “Cara, te lo dico per l’ultima volta: quella dannata foglia si è mossa.” Guardo intorno a me nella hall, e noto almeno tre portafortuna cinesi: il quadro alla parete recante il numero 888, la targhetta con dicitura in cinese “对我生财” (Produci soldi per me) Una piccola ananas di legno sul bancone, simbolo della buona sorte perché ông-lâi () suona simile a ōng (旺) – “fortuna” + lâi (來) – “arriva”. Mentre mimo a gesti ancora una volta l’accaduto, l’albergatore sorride e pronuncia una frase in lingua malese rivolgendosi a sua moglie, che si copre la bocca con la mano. Anna alza un’altra volta le sopracciglia: “Ascolta, siamo già in ritardo per il tour dei sette templi di Kuala Lumpur. Lo sai quanto ci ho messo ad elaborarlo. È proprio necessario andare a fondo alla cosa?” Senza perdere tempo a rispondere, varco la porta verso il cortile dell’hotel. Quindi giro l’angolo, e lo vedo: il mucchio di foglie di Kleinhovia hospita, anche detto l’albero degli ospiti, radunate ieri verso sera dal giardiniere. Esattamente dinnanzi alla finestra della nostra stanza. Assolutamente niente di strano, a vedersi. “Eppure si è mossa.” Ripetei di nuovo fra me e me, pensando intensamente al richiamo notturno delle rane, croce e delizia di questo intero soggiorno, tra cui una voce, una singola voce stridula, sembrava avermi chiamato intensamente, dall’ora del vespro e per l’intero estendersi dell’arco notturno. Possibile che si sia trattato di una pontianak, lo spirito di una donna deceduta durante la gravidanza, tornata per tormentare i mortali di questa terra? “Oh no amor mio, che stai facendo?” Ignorando la mia moglie recentemente sposata (dopo tutto, si tratta della nostra luna di miele) avanzo con poche falcate verso il capanno degli attrezzi, e con gesto leggero, spalanco la porta di legno segnata dalle intemperie. E li, tra vecchi barattoli di vernice, lo vedo: un soffia-foglie a benzina. Mentre lo afferro capisco che già qualcuno ha recentemente fatto il pieno. Esco. Anna ha gli occhi spalancati dallo stupore e un latente sdegno verso di me. L’albergatore, che nel frattempo ha girato attorno al bancone e si trova in prossimità dell’ingresso, sembra ancora divertito, quasi come se questa non fosse la prima volta che assiste a una simile scena. D’un tratto, la mia sicurezza vacilla. Avanzo pensieroso verso il cumulo di foglie, ma ormai è troppo tardi per tirarsi indietro. Tiro la corda di avviamento, mentre al suono rombante del piccolo motore fa seguito un getto d’aria possente, che sposta la materia vegetale un po’ ovunque: “Dopo dovrò anche rimetterla a posto” Penso tra me e me, vagamente in ritardo. Ma tra il turbine e il mulinello, in mezzo alla tempesta infernale, d’un tratto scorgo l’impensabile verità: un piccolo coboldo cornuto, il volto a punta come nelle migliori illustrazioni di Dungeons & Dragons, mi fissa con lo sguardo intenso ed infastidito, le mani sollevate in un gesto che sembra esprimere un concetto sulla linea di: “Perché mai mi fai questo?” Mi giro verso di lei, per scrutarne l’espressione rabbiosa: “La somiglianza… È impressionante.” Mentre mi affretto a spegnere il macchinario, l’essere sovrannaturale pronuncia la sua battuta: “RI- RI-RIBBIT” Oh, yes. Lo sapevo!
Ce ne sono migliaia. Ce ne sono dieci volte tante? Nonostante la costante minaccia verso il loro habitat naturale, dovuto all’intenso sfruttamento industriale e turistico della regione, non c’è essenzialmente nulla che sia riuscito a ridurre la popolazione delle Megophrys nasuta, anche dette rane-foglia malesi, rane cornute asiatiche, rane piede-di-pala. Eppure strano a credersi, nessuno normalmente le vede. Questo perché sono delle vere maestre del mimetismo. Rane ninja, se vogliamo. Che l’evoluzione ha trasformato nei molti secoli, per assomigliare il più possibile a uno degli oggetti più comuni del mondo: la foglia caduta dall’albero, che abbia finito per assumere i colori dell’autunno. È una visione stranamente convincente, con le tre protrusioni che modificano la linea e i contorni dell’animale, ovvero il lungo muso carnoso e le corna sopraccigliari, in grado di donare alla creatura un’aspetto marcatamente luciferino. Almeno, se riesci miracolosamente ad isolarla dal suo fondale. A stupire forse maggiormente il suo primo classificatore scientifico, l’ornitologo ed erpetologo Hermann Schlegel nel 1858, fu lo scoprire che il placido rettile non usa tanto tale vantaggio mimetico per nascondersi dai predatori. Quanto per ghermire, lui stesso, le sfortunate creature che colpisce con la lingua a forma di spatola, per poi aspirarle trasformandole nel suo gustosissimo pasto quotidiano.
L’arma segreta del verme di velluto
Non capita spesso di uscire una notte nella foresta pluviale della Costa Rica, con l’idea di farsi un tour auditivo dei versi di mille o più animali, soltanto per trovarsi dinnanzi alla forma brillante di quello che potrebbe costituire, dal punto di vista tassonomico, un piccolo fossile vivente. Onychophora, il verme di velluto dalle zampette tozze e paffute, che benché condivida la definizione col tipico anellide di terra, non condivide con lui che una parte minima dei suoi tratti biologici ed evolutivi. Ovvero la sua pelle morbida, priva di esoscheletro, e il bisogno di ricercare habitat caratterizzati da una microclima sotterraneo umido, per evitare di seccarsi e morire. Mentre per il resto, esteriormente, assomiglia ad un incrocio tra una lumaca ed un millepiedi, essendo per di più caratterizzato da uno stile di vita marcatamente predatorio. Il che lo ha portato, attraverso il percorso dell’evoluzione, a sviluppare degli organi di senso piuttosto rari nella sua classe di animali: occhi rudimentali, in grado di distinguere non soltanto la presenza di luce, ma anche le forme in movimento. Uniti ad un sofisticato sistema di rilevamento delle vibrazioni dell’aria, che si presenta come una serie di minuscole papille posizionate sull’epidermide, ciascuna dotata di un pelo infinitesimale che gli dona una qualità tattile direttamente paragonabile a quella della stoffa da cui prende il nome. E tutto questo per rilevare, e colpire, coleotteri o falene che individua al tramonto, tramite l’impiego di uno dei meccanismi d’attacco più originali dell’intero mondo animale.
Per usare un paragone noto, avete presente Spider-Man? Con la sua capacità d’intrappolare i nemici tramite un getto di quell’indistruttibile ragnatela, una capacità in effetti scoperta soltanto recentemente in alcuni aracnidi della famiglia degli Gnaphosidae o ragni di terra. Mentre lui, il verme di velluto, usa un simile approccio da almeno 490 milioni di anni (periodo Ordoviciano) come determinato da alcuni fossili ritrovati nell’argillite di Burgess, in pieno territorio canadese; laddove per inciso oggi, giammai potrebbe vivere una delle 200 specie attualmente note, vista la loro rinomata preferenza per climi e temperature marcatamente tropicali. Senza contare che lì troverebbe una quantità di prede decisamente minori. Ciò che la misteriosa creatura spara dalle due proboscidi direzionabili posizionate sotto gli occhi e le antenne, ad ogni modo, non è propriamente una semplice tela appiccicosa, bensì quello che viene definito dal punto di vista tecnico come uno slime: saliva densa, ed appiccicosa, in grado di intrappolare un artropode di dimensioni medie in maniera totale, nel giro di una frazione di secondo. Questo anche perché il verme, nel momento in cui fa fuoco comprimendo la complessa struttura muscolare delle papille orali, non mira direttamente al centro del bersaglio, bensì fa oscillare il tiro in tutte le direzioni, andando a costituire una sorta di rete gladiatoria, da cui liberarsi, sebbene non impossibile, risulta decisamente improbabile per la vittima designata. Tutto ciò che il feroce verme deve fare, a quel punto, è avanzare col suo passo leggero finché non è abbastanza vicino da perforarne la scorza con un dente speciale a forma di falce, dal quale procede quindi ad iniettare un secondo tipo di arma chimica, in grado di dissolvere l’organismo catturato a partire dai suoi organi interni. Per poi succhiarlo, assieme allo slime da recuperare, neanche si trattasse del più orrido dei frappé. Operazione completata la quale, il verme si affretterà nuovamente a tornare nella sua buca, sottraendosi il prima possibile dallo sguardo dei suoi molti potenziali nemici. Il che è la ragione per cui gli avvistamenti di Onychophora risultano essere così straordinariamente rari: si tratta di creature che escono allo scoperto soltanto per brevi periodi, principalmente durante o a seguito di una grande pioggia. Non esattamente un momento in cui gli esseri umani tendono a farsi un giro nella foresta pluviale. Il che è un vero peccato, visto come il verme di velluto che procede nel sottobosco costituisce uno degli spettacoli più incredibili della natura…
La barba che cresce sulle code della falena
È tutto iniziato con il post dell’utente giavanese di Facebook, Gandik, che il 19 ottobre all’ora italiana 14:08 ha postato la frase presumibilmente in indonesiano: “Nmbe tumon kupu macem kie” (traduzione, uhm…) accompagnata da foto e video di un insetto decisamente peculiare. Una falena dall’addome corpulento di colore arancione con puntini neri, le ali striate molto aerodinamiche, e una livrea sinuosa simile alla zampa di un tavolo ornato in prossimità della testa. E poi, quasi dimenticavo, quattro mostruosi tentacoli arcuati fuorusciti dalla parte posteriore del corpo, simili agli arti prensili di una creatura concepita per succhiare cervelli fuori dai padiglioni auricolari umani. Soltanto simili, s’intende. Voglio dire, l’aspetto della creatura è piuttosto insolito ed innegabilmente inquietante. Forse perché sembra a tutti gli effetti che sia stata infettata da uno o più parassiti, ricordando per certi versi la tipica scena dei vermi nematodi che fuoriescono dal corpo di un bruco o una sfortunata mantide religiosa. Ma la reazione collettiva di disgusto professata dalla maggior parte dei portali Internet e la blogosfera direi che appare appena un pelino esagerata, per un’animale che misura poco più di un centimetro di lunghezza: “Chiaro segno dell’Apocalisse avvistato online” oppure “Se lo vedessi brucerei istantaneamente la casa, ma che dico, la città…” Seguìto dal sempre popolare: “Gettate una bomba ATOMICA dall’orbita terrestre per eliminare questo araldo di Satana fra di noi.” È un po’ il gusto dell’iperbole che si sa, garantisce un numero maggiore di click. Non che questo giustifichi la quasi totale assenza di analisi scientifica nella trattazione reperibile tramite Google, che sembra essersi fermata al primo accenno offerto da Wikipedia in materia. Laddove, tra l’altro, la specie è nota: ciò che abbiamo visto coi nostri occhi increduli costituisce in effetti un esemplare maschio di Creatonotos gangis, nient’altro che uno dei Centuria Insectorum(100 insetti) descritti per la prima volta nell’omonimo testo tassonomico del 1763 compilato dal sempre rilevante Linneo. “Se non conosci il nome, muore anche la conoscenza delle cose.” Amava dire costui… Ma sapete cos’è ancora meglio, per ricordarselo? Associare un racconto al nome. Si tratta di una storia davvero importante. Forse la più importante di tutte…
Il momento culmine nella vita di questo lepidottero, diffuso in tutto il Sud-Est Asiatico ed in alcune regioni settentrionali dell’Australia, si verifica durante un periodo delle notti di primavera, quando fuoriesce dal duro bozzolo in cui ha trascorso l’inverno. Non più bruco strisciante e peloso, bensì un essere volante concepito primariamente per uno scopo ben preciso: trovare una femmina ed accoppiarsi con lei. Il che avviene attraverso un organo produttore di feromoni che l’entomologo Robinson, inventore della più celebre trappola per falene, definiva nel 1962 “Uno dei miracoli della natura.” Il nome dell’apparato artropode in questione è coremata e il suo aspetto dalle molteplici biforcazioni barbute, beh… Diciamo soltanto che suscita una certa quantità di domande. La prima delle quali nasce dalla semplice osservazione di come dette mostruose “code” siano a tutti gli effetti più lunghe dell’addome dell’animale. Come è possibile tutto ciò? La risposta, in un certo senso, fluttuava nell’aria. Gas incorporeo che la falena risucchia tramite l’apposito opercolo, gonfiando letteralmente un qualcosa che si rivela essere, dunque, nient’altro che la versione naturale di quelle maniche vagamente antropomorfe fatte sorgere in maniera pneumatica in occasione degli eventi e fiere di paese. La cui finalità non è però soltanto, né primariamente estetica, avendone una decisamente più funzionale: liberare un richiamo nell’atmosfera. Preparatevi quindi alla rivelazione che, forse, getterà nello sconforto il battito del vostro cuore: queste falene non arrivano mai da sole.