In determinati contesti religiosi, la gente l’avrebbe chiamato un evento miracoloso. In altre epoche, la manifestazione del volere di un Dio. Da quelle parti, dove la diffusione di una religione d’impianto rurale non sancisce un autorità di verifica e catalogazione, la gente si limita a cercare la propria spiegazione personale. Che il più delle volte finisce per essere di tipo per lo più razionale. Perché non è forse vero che talvolta, l’approccio della logica è anche una via d’accesso privilegiata verso la chiarezza e la fondamentale semplicità… Relativamente parlando. A nessuno verrebbe in mente di scrollare le spalle presso il villaggio di Dinoša, di fronte al fenomeno di un tronco scarno che sembra generare il mistico liquido trasparente, possibile panacea di tutti i mali. Ma soltanto l’applicazione dei principi dell’idraulica può svelare l’incredibile verità…
L’acqua scorre dai luoghi alti del Montenegro, paese sulla costa dell’Adriatico confinante con la Serbia e l’Albania. Ma non sempre in modo visibile, partendo da una fonte che si trova in cima ad una montagna. Poiché il terreno della regione, con forti componenti carsiche risalenti all’era geologica Devoniana, assomiglia a un dedalo di canali sommersi nel profondo, ciascuno dei quali contiene una falda acquifera che s’incrocia in maniera imprevedibile con le altre. Nessun geologo, europeo o d’altra provenienza, si è mai premurato di creare una mappa di un simile intrico, giungendo a una comprensione approfondita del suo funzionamento. Fatta eccezione per osservazioni generiche sulle caratteristiche del territorio di superficie, che includono valli, doline, affioramenti d’arenaria e profondi canyon, tutti elementi caratteristici di una situazione sotterranea certamente fuori dal comune. Eppure talvolta, che il pubblico riesca ad aspettarselo o meno, le implicazioni più remote di tutto questo sgorgano, letteralmente, nella piazza centrale del proprio villaggio. Avete presente il caso di un pozzo artesiano? L’acqua sotterranea, accumulata all’interno di un massiccio montuoso o alla collina simile alla gobba di un cammello, agisce generando pressione sul serbatoio sotterraneo, causando un affioramento. E non c’è bisogno che si tratti di geyser bollenti, o fenomeni simili, perché il popolo prenda nota e giunga alla conclusione che in fin dei conti, la natura è una cosa straordinariamente degna d’interesse. Anzi, simili anomalie venivano anticamente considerate una risorsa importantissima di determinate comunità, poiché gli permettevano di godere dell’approssimazione primitiva dell’odierna acqua corrente, una volta instradate con pozzi e acquedotti. Figuriamoci, invece, quello che può arrivare a “pensare” un albero come questo, trasformato suo malgrado nell’interfaccia tra il mondo ctonio e la superficie!
Il gelso è un arbusto altamente caratteristico dell’area mediterranea, diffuso in un alto numero di varietà che si trovano attestate anche nel Nord Africa e sulle coste del Medio Oriente. Famoso in Italia per l’impiego che ne viene fatto in Sicilia, dove le sue infruttescenze simili a grandi more (in realtà composizioni di molteplici frutti) sono impiegate nella creazione di dolciastre e saporite granite. Mentre nell’epoca medievale, questa pianta fu così strettamente associata all’area del Peloponneso in Grecia da far definire l’intero paese Morea. Attraverso i secoli, quindi, i suoi semi sono stati diffusi nell’intera area asiatica ed anche nel continente nord americano, in conseguenza di una sua rilevanza economica difficile da trascurare: l’utilità delle foglie come cibo ideale per i bachi da seta, il singolo insetto più sfruttato, e di maggior valore, nell’intera storia dell’umanità. Ciò detto, l’eccezionale sapore del gelso non ha fatto che procurargli problemi nel corso della sua evoluzione, rendendolo anche l’habitat ideale per altre tipologie d’animali infestanti, come le larve dei rodilegno rosso e giallo (Cossus cossus e Zeuzera pyrina) due specie di lepidotteri che prima di sfarfallare, scavano in profondità nella corteccia della pianta, ricreando un’approssimazione del sistema carsico sotterraneo del Montenegro. La quale poi riempiendosi d’acqua piovana, marcisce e ferisce l’albero in profondità. Eppure la straordinaria tenacia del gelso gli permette di rigenerare se stesso e continuare e crescere, noncurante dello spazio cavo che viene a crearsi, occasionalmente, al suo interno. Finché il manifestarsi di un fenomeno come questo non riporta l’evidenza, sotto gli occhi di un vasto pubblico, più o meno pronto a interpretarne i presagi…
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L’eccezionale curiosità dei cuccioli di licaone
Quando la scorsa primavera, la BBC diede inizio alla sua serie Spy in the Wild, basata sulla collocazione di alcuni pupazzi meccanici animatronic con videocamera in prossimità di gruppi di animali selvatici, scelse necessariamente di farlo coinvolgendo alcune delle specie dalle interazioni sociali più complesse e maggiormente simili alle nostre. Ciò per una ragione estremamente funzionale allo show: riprendere la loro reazione interessata, o vagamente confusa, di fronte ad un oggetto costruito per assomigliare il più possibile a loro ma che inviava segnali “sbagliati” come i movimenti scattosi, un odore, o assenza dello stesso, e/o la mancanza di adeguate vocalizzazioni. A questo punto intendiamoci, l’intero progetto non aveva in realtà particolari metodi scientifici, né divulgativi. Si potrebbe anzi affermare che i potenti obiettivi di cui dispone oggi l’industria videografica dei documentari, anche da centinaia di metri di distanza, potessero restituire un’immagine altrettanto chiara e definita delle creature al centro di ciascun episodio. Se non di più. Rappresentando piuttosto un modo per mostrare il loro comportamento in circostanze inedite, suscitando, nuovamente, l’interesse delle persone. Così tra scimmie, suricati, pinguini e castori, fu scelto di dedicare l’ultima puntata ad una delle creature più a rischio dell’intero continente africano, il cane selvatico di quelle terre, anche detto Lycaon pictus, o licaone. Occasione che diede l’opportunità di mostrare un lato inedito della sua condizione, ovvero la maniera in cui i piccoli del branco, durante le ore dedicate alla caccia, vengono lasciati occasionalmente soli in prossimità della tana. È un tratto altamente distintivo di questo animale, nel quale l’unica coppia a cui viene permesso di produrre una discendenza è quella dominante di ciascun gruppo di animali, con una quantità media di figli e figlie notevolmente superiore a quella del cane: 10-16, essenzialmente, abbastanza per costituire un nuovo branco subito dopo la nascita. Cosa che, in un certo senso e per lo più temporaneamente, avviene.
L’età giovanile è notoriamente un momento importante per gli animali carnivori, rappresentando la stagione della vita in cui gli viene concesso di giocare, facendo pratica per le loro successive cacce e l’implementazione della difficile regola della sopravvivenza. Difficile non ricordare le lotte inscenate dai tigrotti e leoncini, talvolta tra fratelli, qualche altra coinvolgendo gli stessi genitori, che con estrema pazienza si lasciano sottomettere dalla prole, sapendo istintivamente l’importanza che avrà nel loro futuro lo sviluppo di un’indole adeguatamente aggressiva. Il che implica, per il licaone, un’importante tratto di distinzione. Questo perché il canide in questione, che vive e soprattutto, caccia in branco, dovrà piuttosto curarsi di acquisire, già in tenera età, la capacità di capire il suo prossimo e cooperare con lui. Ecco perché tra tutte le scene del succitato documentario, forse una delle più memorabili resta questa usata nel promo di YouTube, in cui il pupazzo meccanico era stato riassemblato a guisa di un piccolo appartenente a questa specie. E ciò non soltanto perché l’esemplare adulto sarebbe stato più difficile e costoso da riprodurre (anche se questo può certamente essere stato un fattore) quanto per la ragione che dovrebbe animare, idealmente, ogni vero cultore della natura: mostrarla al suo meglio, evidenziare i tratti che maggiormente ci affascinano e colpiscono al nostra fantasia di umani.
È a questo punto, più o meno, che la sequenza ha inizio, con un primo piano del leggermente inquietante mecha-lycaon (vedi il concetto dell’uncanny valley, la somiglianza eccessiva, ma non perfetta, di ciò che imita la realtà). Il pupazzo, relativamente convincente da lontano, ha il suo punto forte nella passabile ricostruzione del manto maculato di questi canidi un tempo soprannominati “lupi dipinti”, ed è dotato di servomotori in grado di dargli un certo grado di vivacità. Ciò nonostante, difficilmente potrebbe superare uno scrutinio ravvicinato da parte di un bambino. Figuriamoci dunque, quello di un cucciolo della specie in questione, che a differenza di noi, possiede tutta una serie di segnali fisici e biologici per comunicare con i suoi simili precedentemente sconosciuti. Eppure nonostante questo, appare fin da subito chiaro che i piccoli di licaone non sono soltanto incuriositi, bensì addirittura socievoli nei confronti dell’intruso, mostrandosi più che mai intenzionati ad attirare la sua attenzione. C’è una netta differenza, con la reazione che potremmo aspettarci da parte di un animale territoriale verso qualcosa che non può realmente arrivare a comprendere, ovvero diffidenza, cautela, persino aggressività. Sentimenti sostituiti da una pacifica apertura che tra l’altro parrebbe estendersi, nella scena successiva, anche al comportamento dei cani adulti finalmente di ritorno dalle loro scorribande nella sconfinata savana dell’Africa subsahariana…
Il giardino sul fondo di un fiume brasiliano
Immagini affascinanti di un soggetto piuttosto chiaro: la foresta pluviale del Sudamerica, con la sua strabiliante varietà vegetale, fronde collocate ai lati del sentiero, poco prima che un piccolo ponte in legno, dall’impatto ecologico attentamente calibrato, conduca al di la di un non meglio definito corso d’acqua. Soltanto nella luce, il video mostra qualcosa di strano: questa cupezza bluastra, certamente d’atmosfera, che pare quasi la rappresentazione ideale di come dovrebbe apparire un boschetto mistico, avvolto dalle nebbie di Avalon qualche giorno prima della congiunzione d’inverno. Ma è una ripresa in prima persona, questa realizzata dalla guida turistica del Parco Rio da Prata Vera Waldemilson, che nasconde un segreto estremamente significativo. Che appare chiaro quando, nella sua carrellata documentaristica, la donna sposta l’inquadratura verso l’alto, mostrando quella che si presenta evidentemente, in maniera del tutto incontrovertibile, come la superficie dell’acqua poco distante. Come è possibile tutto questo? Soltanto in un modo: stavamo osservando fin dall’inizio, attraverso questa valida testimonianza a 60 frame al secondo, la scena di un sentiero allagato. L’evento che ha fatto notizia la settimana appena passata presso questo celebre angolo di Brasile nello stato del Mato Grosso del Sud, anche noto come la riserva per l’ecoturismo sostenibile di maggior successo tra i confini dell’intera nazione. Certo: niente di cui meravigliarsi, quando si prende in considerazione la cura organizzativa e l’attenzione all’ambiente dimostrata dalla gestione della Fazenda Cabeceira do Prata, inizialmente una fattoria con bovini e cavalli confinante con la municipalità di Bonito, poi trasformata in un vero e proprio parco naturale a gestione privata, con una funzionale catena di montaggio mirante a far conoscere, ai visitatori provenienti dall’estero, tutta l’eclettico ed originale splendore dell’ecosistema locale, caratterizzato da una biodiversità che trascende le aspettative del quotidiano.
Ma per quanto si possa organizzare ogni cosa fino ai più minimi dettagli, come si dice, gli imprevisti capitano ed è proprio di questo che si è trattato, lo scorso 19 febbraio, quando una serie di piogge particolarmente ingenti ha causato un garbato straripamento del corso d’acqua che da il nome alla riserva (Rio da Prata significa, letteralmente, Fiume d’Argento) inondando completamente il sentiero dove doveva passare il tour. Ora normalmente, un evento simile avrebbe letteralmente rovinato la gita delle 8 persone che avevano prenotato per quel giorno, se non fosse che, come componente fondamentale del sopralluogo, viene convenzionalmente prevista l’immersione delle limpide acque in questione, fornendo a tutti i partecipanti una maschera e la muta per fare snorkeling, nonostante le acque in questione mantengano un’accogliente temperatura di 20-25 gradi per tutto l’anno. Il che ha permesso, sostanzialmente, di continuare la parte terrigena della trasferta come se nulla fosse, potendo scegliere, per chi ne avesse il desiderio, di fare letteralmente come se non fosse successo nulla, ed inoltrarsi lungo il sentiero attentamente curato camminando direttamente sul fondale. Ciò che colpisce maggiormente nella sequenza decisamente mai vista prima, ad ogni modo, resta in primo luogo l’eccezionale trasparenza dell’acqua, tale da ricordare, addirittura, le famose piscine dove la NASA fa addestrare i suoi astronauti a muoversi con la tuta in situazioni di gravità zero, progettate appositamente per far sembrare di fluttuare liberamente nell’aria. Qualcosa di simile a quanto succede, comunemente, nel Rio da Prata (da non confondersi con il ben più celebre ed omonimo estuario dei fiumi Paranà ed Uruguay) per effetto di una condizione del tutto naturale ed assolutamente indipendente dalla mano dell’uomo: la depurazione spontanea delle foreste di tipo ripariale, uno dei 15, e forse il più importante a determinate latitudini, di tutti i biomi presenti sul pianeta Terra.
La furbizia del serpente che sa fingersi un ragno
Il canto ripetitivo della cappellaccia, uccello simile all’allodola, risuona spesso tra le foreste rade dei monti Zagros, la catena di rilievi più estesa nell’area geografica di Iran e Iraq. Questo luogo antico, un tempo noto come “porta dell’Impero Persiano”, tradizionalmente riconosciuto come luogo d’origine del popolo Curdo, presenta un clima ospitale di tipo Mediterraneo, con un’ampia quantità di specie vegetali ed erbivori, che non dimostrano di possedere l’intenzione, né gli strumenti, per disturbare il piccolo uccello. Per questo il suddetto passeriforme, dal nome scientifico di Galerida cristata, non si mostra particolarmente diffidente verso i potenziali pericoli, e sopratutto nel periodo in cui deve procacciare il cibo per i piccoli, piomba dall’alto su ogni possibile fonte di cibo: semi, vegetali e frutta, ma anche l’occasionale piccola preda, come un insetto o ancor più frequentemente, da queste parti, un aracnide di qualche tipo. Come dei piccoli esemplari di solifugo, l’ordine di pseudoragni dai grossi cheliceri (zanne) diventato famoso in passato per una foto scattata dai militari americani, in cui apparivano due esemplari uniti durante l’accoppiamento, sollevati con cautela mediante l’impiego di una canna di fucile. Ora il caso vuole, che se lo stesso gesto fosse stato effettuato in una zona pietrosa piuttosto che sabbiosa, il soldato avrebbe potuto avere davvero una pessima sorpresa. Basta vedere che fine fa l’uccello.
Voglio dire, possiamo davvero biasimarlo? L’abilità dello Pseudocerastes urarachnoides, o vipera cornuta dalla coda-ragno, sta tutta nella recitazione. Tutto quello che un’incauto passante aviario, o il milite in cerca di svago, potrebbero scorgere a una certa distanza, non è altro che una piccola creatura dalle molteplici zampe, che per qualche motivo sta correndo tutto attorno ad un una delle numerose crepe di minerale gypsum (gesso) che caratterizzano la regione. Finché avvicinandosi, non inizierà a notare qualcosa di strano. Ma per una creatura dotata di ali, che piomba velocemente dall’alto, a quel punto sarà già troppo tardi. È come la profezia sul finire del Macbeth shakespeariano sulla “foresta che cammina”. Quando la roccia si muove, qualcuno dovrà morire. Questo perché nel buco, o talvolta anche fuori dal buco (a tal punto la sua livrea perfettamente mimetica riesce a coprirla) c’è una vipera tra i 40 e i 70 cm di lunghezza, che con un movimento della durata di un secondo circa colpisce ed avvelena la preda, nella speranza di riuscire a mangiarsela in santa pace. Ora il veleno questa famiglia di serpenti, anche detti false vipere cornute, può avere effetti emorragici piuttosto marcati, anche se raramente porta a gravi conseguenze per gli umani. Ma un uccello dal peso di pochi grammi, passerà immediatamente a miglior vita. Con conseguente decesso per fame, e inspiegabile abbandono, della sua intera e incolpevole nidiata. Anche questa è la crudeltà della natura. E il malefico ingegno, prodotto da quello strumento diabolico che sembra essere, talvolta, l’evoluzione.
La prima osservazione di questo serpente si è verificata nel 1968 quando una spedizione scientifica americana riuscì a catturarne un esemplare, successivamente trasportato presso il Museo Field di Storia Naturale di Chicago, dove fu preservato in qualità di strana curiosità scientifica. L’opinione degli studiosi, infatti, era che si trattasse di un’anomalia causata da un’escrescenza tumorale sulla punta della coda, simile ad un bulbo ricoperto di scaglie stranamente allungate. E assai difficile sarebbe stato scambiare tale particolarità anatomica per un ragno in una situazione di quiete, ovvero senza il particolare effetto indotto dall’animale con movimenti perfezionati dalla sua specie attraverso secoli di tentativi. Finché nel 2006, al biologo Bostanchi (et al.) non venne in mente di rivedere tale ipotesi, coniugandola con quanto gli era riuscito di sapere in merito alle osservazioni aneddotiche dei rettili attestati nell’area iraniana. Fu così che nella primavera del 2008, armati della cognizione che potesse trattarsi di una nuova specie, a un’equipe di naturalisti giunti per effettuare rilievi nei dintorni di Chakar non capitò di riprendere direttamente la scena dell’incredibile serpente in caccia. Il video risultante pare prelevato direttamente da un film di fantascienza… O dell’orrore.