Il fucile proibito che uccideva 100 anatre in un colpo solo

Nonostante la ferocia delle battaglie, e il costo in termini di vite pennute, non fu mai dichiarata una vera e propria guerra. Ma noi umani combattevamo con la ferocia di chi vede in gioco la sua stessa sopravvivenza: o noi o loro, la carne o la morte. Il più delle volte, la morte. Grazie alle più potenti, spietate armi che l’ingegno di un fabbricante poteva giungere a concepire. Era pressapoco il termine del secolo XIX, quando la leggendaria figura del cacciatore professionista Ray Todd, assieme a tre altrettanto determinati colleghi, si avviò per la sua leggendaria battuta nei dintorni delle acque paludose di Chesapeake Bay. Sulla Costa Orientale degli Stati Uniti, dove gli uccelli acquatici si fermavano per riposare nel corso delle loro lunghe migrazioni, a bordo di barche prive di chiglie, per non incagliarsi, e pesantemente rinforzate in ogni aspetto della loro struttura. Di certo, c’era un ottimo motivo: spesso si sussurrava, nei luoghi di ritrovo e nei pub costruiti sul modello irlandese, di come più di un incauto sparatore locale si fosse visto sfuggire il fucile di mano, mandando quest’ultimo a impattare contro la murata posteriore della piccola punt (imbarcazione sospinta col palo) e affondandola immediatamente. Ci sono cose che possono rovinarti la giornata. Altre ancora, privarti del tuo stesso implemento economico di sopravvivenza. E di sicuro nessuno avrebbe mai pensato di mettersi a scherzare, di fronte all’orripilante potenza di una punt gun.
Possiamo immaginarci questa scena nei dintorni cronologici del tramonto, quando i volatili si fanno più coraggiosi, e puntando sulla sicurezza del numero si posano in massa alla ricerca di nutrimento: “Qualunque cosa succeda, non potranno ucciderci tutti, giusto?” Hmmm… Rispondevano gli osservatori galleggianti nelle profondità dei loro pensieri, da una distanza di sicurezza, nel soppesare il modo migliore di avvicinarsi. Dinnanzi a loro, uno degli stormi più impressionanti che avevano mai visto, di un’estensione approssimativa di mezzo miglio. I quattro dell’Apocalisse si scambiarono uno sguardo carico di sottintesi. Tirato in barca il palo, un sistema di propulsione troppo rumoroso, si dotarono ciascuno di un paio di piccoli remi, usati con cautela per fare breccia nella superficie intonsa della palude. Un poco alla volta, ciascuno di loro prese posizione in campo aperto, da dove prendere di mira un’intero angolo della moltitudine starnazzante. Nessuno, tra gli animali presenti, educati dalle leggi ferree e misericordiose della natura, poteva realmente comprendere ciò che stava per capitare. I cacciatori, a quel punto, rivolsero la loro attenzione al principale elemento delle piccole imbarcazioni: un tubo di ferro lungo tra i 2 e i 2,5 metri, dal diametro di fino a 5 cm. Al termine di ciascun tubo, c’era un meccanismo di sparo, bastante ad interpretare gli oggetti come altrettanti, giganteschi fucili. I quali erano stati già caricati prima della partenza, per non fare rumore, con una quantità approssimativa di mezzo chilo di pallini, abbastanza grandi da crivellare un’intero branco dei bisonti di Buffalo Bill. Anche l’effetto in termini d’estinzione incipiente, tutto considerato, era ragionevolmente comparabile a quello. Ray Todd tirò i piccoli remi in barca, prima di alzare leggermente il braccio destro, voltandosi al rallentatore per assicurarsi che i suoi compagni avessero fatto lo stesso. Ciascuno di loro, evidentemente, era pronto a far fuoco al suo comando. Allora il cacciatore calò di nuovo la mano, portandola ad impattare sulla prua del natante. Sull’intera baia, improvvisamente, calò il silenzio. Le anatre percettive, cessando di muoversi disordinatamente, avevano alzato la testa e si guardavano intorno preoccupate. Era il momento: premette il grilletto, sparò.
Ci sono state armi, nel corso della storia, che costrinsero i governanti a cambiare le regole stesse dei conflitti. Strumenti troppo spaventosi (la mitragliatrice Gatling) crudeli (il lanciafiamme) o semplicemente devastanti (la Bomba di tutte le bombe…) perché il loro utilizzo potesse continuare senza alcun tipo di condizionamento. La punt gun fu una di esse, trasferite nel campo relativamente coscienzioso della caccia di 150, 200 anni fa. Il celebre resoconto del cacciatore americano in effetti, la cui opera viene normalmente citata ogni qualvolta ci si ritrova a discutere l’argomento, trova la sua giustificazione e logica nelle cifre riportate a margine della novella: 419 anatre stecchite, al primo colpo sparato di concerto. Ed ancor più col proseguire di una lunga notte, fino ad un totale stimato di 1.000, successivamente rivendute con buon profitto al mercato di Baltimora. La potenza e l’efficacia di questi veri e propri cannoni, impiegati assiduamente anche all’altro capo dell’oceano e in modo particolare in Gran Bretagna, fu tale da costringere i governi, già a partire dal 1860, a promulgare una serie di leggi mirate a limitare il loro utilizzo. Ma l’effettivo divieto non sarebbe arrivato che molti, moltissimi anni dopo….

Leggi tutto

L’albero coperto di caviale brasiliano

La luce dell’alba illuminava di traverso le acque del fiume Arinos, affluente di seconda generazione a partire dal grande corso del Rio delle Amazzoni. Se un membro dei vicini popoli Tupinambà o Aimoré, di cui ancora permanevano alcune comunità isolate nel profondo di questa foresta ragionevolmente incontaminata, avesse deciso di sporgersi oltre  gli argini lievemente scoscesi, avrebbe intravisto attraverso il fluido  trasparente la più fantastica varietà di pesci, larve d’insetti e almeno una dozzina di riconoscibili dorsi delle tartarughe dalle orecchie vermiglie, Trachemys scripta, intente, ad un ritmo per loro frenetico, nella ricerca di prede o possibili fonti di cibo. Diciamo di trovarci, in effetti, sul finire dell’autunno, quando persino a queste latitudini tropicali, la temperatura iniziava a calare, e le giornate a farsi progressivamente più brevi. Era il momento, volendo esser chiari, in cui la cognizione del rettile iniziava ad avvisarlo di accumulare una riserva di grassi, sufficiente ad iniziare un lungo periodo di dormiveglia. Non un vero e proprio letargo, sconosciuto per gli animali originari di climi tanto caldi, ma il cosiddetto processo di brumazione, una riduzione dei processi metabolici con attività estremamente ridotta per molti mesi. Comunque abbastanza significativo, da un punto di vista dei ritmi dell’organismo, da poter costare la vita agli esemplari più deboli e privi di nutrizione. Il nostro ipotetico indio, dunque, avrebbe potuto seguire il susseguirsi di gusci scuri, fino al punto in cui essi, tra l’erba di media altezza, sembravano disegnare un percorso a guisa di processione. Come una lenta fila di formiche, verso l’unico possibile obiettivo del loro desiderio: quello che in lingua Tupi viene correntemente definito il jabuti o jaboticaba (a seconda della trascrizione) ovvero letteralmente “luogo delle tartarughe” che ai nostri occhi inesperti, si sarebbe presentato essenzialmente a guisa di un albero, dell’altezza non indifferente di una quindicina di metri. Il più singolare, e magnifico, tra tutti gli arbusti del territorio.
La prima reazione di chi scruta sul campo per la prima volta il bizzarro tronco di questa pianta, purché si tratti di un esemplare adulto e in epoca successiva alla fioritura, è di evidente sorpresa, seguita talvolta da un comprensibile senso d’inquietudine. Questo perché l’arbusto in questione, il cui nome scientifico è Plinia cauliflora, può apparire letteralmente ricoperto da quelle che sembrano a tutti gli effetti a delle uova di una qualche misteriosa creatura, attaccate come quelle dei pesci sulla ruvida superficie di scogli sottomarini. I suoi rami, carichi di fronde verde intenso o color salmone, non hanno in effetti l’accompagnamento di alcun tipo di frutto né fiore. Parti che si trovano rappresentante, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, lungo lo spazio verticale del tronco stesso, attraverso la scorza coriacea di una corteccia strappata in più punti. Globi, su globi, su globi, di un nero lucido che cattura l’anima, e l’assorbe attraverso il ritmo ed il canto del desiderio. Un odore sottile ma percepibile a grandi distanze, carico di un sentore zuccherino, tale da risultare irresistibile per il naso attento delle tartarughe vermiglie ed altre… Più singolari specie. Tornando così al nostro accompagnatore in questo fantastico mondo di misteri, egli avrebbe scoperto il raduno delle compatte creature, intente a consumare il mare di bacche mature già cadute a terra. Tra tutte loro, quindi, sarebbe comparsa la forma di un essere notevolmente avvantaggiato: la càgado de serra, o tartaruga dal collo serpentino. La quale, protendendosi alla massima estensione permessa dalla sua flessibile spina dorsale, piuttosto che afferrare l’oggetto del desiderio dal suolo erboso, riusciva a farlo direttamente dal tronco, acquisendo per se le primizie migliori. Che fosse proprio questo, il segno cercato dall’indio? Sorridendo tra se e se, l’uomo estrae dalla sacca il suo flauto tradizionale, intagliato nella forma del pesce apapà, col quale emette un fischio attentamente modulato, il cui significato era “Venite, accorruomini. L’yvapurũ è pronto. L’ora del raccolto è già su di noi.” Sarà meglio che si affrettino, pensò tra se e se. Mentre le tartarughe, imperterrite, continuavano a masticare, purũ-purũ, purũ-purũ…

Leggi tutto

Assassini preistorici sotto i ghiacci del Polo Sud

Una normale stella marina ha cinque braccia. Questa, molto spesso, può vantarne 50. Le altre appartenenti alla sua genìa, al massimo, strisciano sul fondale. Lei si arrampica nel punto più alto, per sporgersi e tentare di afferrare al volo chi fosse tanto folle da nuotare nei dintorni. Le sue cugine sono letteralmente ricoperte, nella parte inferiore, di peduncoli ambulacrali, usati per un lento ma inesorabile movimento. A chiara differenza di un simile mostro, che possiede migliaia di minuscoli artigli spinosi e trappole triangolari chiamate pedicellariae, capaci di serrarsi come altrettante devastanti tagliole per orsi. Ah, dimenticavo: misura “appena” un metro. Pensate alla vostra reazione, se doveste incontrarla in un vicolo buio…
Nel momento in cui qualcuno vi chiedesse “Qual’è la creatura che domina la Terra” non credo che esitereste troppo a lungo nell’indicare voi stessi, ultimi depositari della discendenza iniziata coi primi ominidi, che ci ha condotto in epoche geologicamente recenti ai più alti livelli tecnologici e sociali della specie Homo s. sapiens. Oppure potreste chiedervi, deviando almeno in parte dal pensiero comune, quale dovrebbe realmente essere la metrica utile a definire la buona riuscita di un percorso evolutivo. La posizione nella catena alimentare? La forza e il coraggio? Piuttosto che, in maniera molto più semplice e soggettiva, il peso complessivo degli esemplari viventi, intesa come biomassa totale di ciò che brulica, si nutre ed opera nel campo imprescindibile della riproduzione… Proviamo, per un attimo, a prendere in considerazione un simile approccio. Secondo il quale ogni dubbio sparisce: il vincitore è il krill dell’Antartico, Euphausia superba. Il cui numero magico si aggira sui 500 milioni di tonnellate, contro i nostri 100 appena. Questo ha una logica, se ci pensate: il predatore non è mai più prevalente della preda. Poiché una singola tigre, un leone, dovranno mangiare nel corso della loro vita un centinaio di gazzelle. Ma se ce ne fossero esattamente cento, dopo una o due generazioni, che fine avrebbe fatto la gazzella? Così sono gli umili, a moltiplicarsi in maniera estrema. E ancor più di loro, le piante, cibo di tutti ancor prima che il primo carnivoro facesse la sua comparsa su questa Terra. Ma un conto è prenderne atto, tutt’altro vederlo coi propri occhi…
Questa è la spedizione del naturalista Jon Copley, realizzata con l’aiuto di Ocean X per il documentario della BBC Our Blue Planet, nel quale una piccola parte ma importante parte della troupe, salendo a bordo del batiscafo facente parte della dotazione della loro nave oceanografica, supera agevolmente il record dell’immersione a profondità maggiore nell’area geografica comunemente definita come Antartide, dove notoriamente, soltanto gli esseri più resistenti riescono a sopravvivere e prosperare. Così nessuno resterà sorpreso quando, nei primi minuti del breve spezzone promozionale, le telecamere non riescono a riprendere null’altro che un’ambiente torbido e ombroso, nel quale gli unici movimenti sono quelli indotti dalle correnti oceaniche. Finché, continuando a scendere fino ai 1.000 metri, non raggiungono la superficie ondulata di un misterioso fondale. Dove la luce del riflettore integrato, rimbalzando sulla sabbia millenaria, rivela finalmente l’incredibile verità: il particolato in sospensione nel brodo, questa polvere che circonda il veicolo, non era altro che materiale biologico. Pezzi, scorie, rimanenze, di una pluralità d’esseri, che persino adesso, li circondano completamente. Minuscoli gamberi brulicanti… Gli occhi fissi, la coda segmentata. Nella quantità d’infiniti miliardi. Ecco, quindi, che cosa succede quando le condizioni climatiche estreme, o la semplice anomalia di un particolare habitat, non permettono lo sviluppo diffuso di specie voraci che possano sterminare i “piccoli”. Eppure, persino qui, anche adesso, lo scenario biologico non è del tutto pacifico. Ma vi sono, piuttosto alcune specie in grado d’imporsi almeno in parte sugli sciami di crostacei, attraverso metodi molto particolari. Prima fra tutte, quella che Copley non esita a definire, con chiara citazione cinematografica, la sua Stella Assassina (Death Star). Dando seguito, ancora una volta, alla netta corrispondenza ideale tra gli abissi e lo spazio siderale, già presente nella nomenclatura dei più diffusi echinodermi (sapete di chi sto parlando) che in ambito scientifico vengono definiti, facendo ricorso alla lingua latina, Asteroidea. Le stelle marine che sono ovunque eppure rispondono tutte, in linea di massima, alla stesso schema ecologico: raschiare il fondale, agendo come spazzini di quanto nessun altro si prefigge di consumare. Ovunque, tranne che nei fondali distanti, circostanti dai ghiacci eterni della penisola Antartica. Perché questa, signori, è la Labidiaster annulatus, una creatura dall’intento killer e lo scheletro calcareo flessibile, capace di muoversi molto agilmente…

Leggi tutto

Gli alberi che strisciano sul Meridiano di Ferro

Prendete per un attimo in considerazione, se vi va, la difficile esistenza del bonsai giapponese. Alberello costretto a crescere in maniera limitata, per l’effetto delle attente manipolazioni del giardiniere, e talvolta portato ad assumere forme completamente fuori dalle aspettative comuni: diagonali, orizzontali, ad angolo, con rami contorti che s’intrecciano e annodano tra di loro… Quale impossibile, o almeno improbabile alterazione della strada più semplice preferita dalla natura! Eppure, vi sono dei luoghi. In cui persino in forza di un tale preconcetto, per l’effetto delle semplici forze che ci condizionano tutti allo stesso modo, qualcosa di simile può avvenire. Su una scala decisamente diversa. Si tratta dello spettacolo di una terra che ci ha chiesto con insistenza, attraverso gli anni, di essere visitata in prima persona…
Sette isole, nient’altro che questo, fatta eccezione per la collezione di scogli ed altre piccole rocce emerse, a largo nel mare Atlantico, non troppo distanti dagli estremi confini del deserto del Sahara. Ed una in particolare, tra queste: El Hierro, la terra (dai monti composti di) pietra e ferro. Nota fin dal tempo degli antichi per gli affioramenti di preziosi minerali, dovuti alla forte attività vulcanica pregressa, e relativamente recente, di questa intera regione. Ma anche per il fatto stesso che il geografo ed astronomo Tolomeo, già nel secondo secolo d.C, l’avesse identificata come punto in cui far passare il meridiano 0 dello sferoide  terrestre, una soluzione scelta a durare nel tempo poiché consentiva di avere coordinate numericamente positive per l’intero continente europeo. Stiamo parlando, per intenderci, della più occidentale di tutte le Canarie, facenti ufficiosamente parte del territorio spagnolo fin dalla spedizione di Jean de Béthencourt del 1402, che sottomise e fece vendere come schiavi molti rappresentanti delle popolazioni aborigene locali. Incluse le pacifiche tribù dei Bimbache, abitanti del più remoto dei luoghi, abituati a vivere con un’economia di sussistenza sotto l’egida legale della famiglia del loro re. Il cui stesso fratello, secondo una leggenda, si alleò e fece da interprete ai coloni europei, velocizzando un processo comunque inesorabile della storia. Fu pressoché allora che, per la prima volta, gli spagnoli notarono un importante presagio sulle coste dell’isola: un’intera foresta che pareva inchinarsi, come il suo popolo, alla maestà di Enrico III di Castiglia, andando contro la loro stessa natura di arbusti con cento e più anni di età.
Sarebbe in effetti possibile affermare, senza deviare eccessivamente dalla verità dei fatti, che la terra di El Hierro sia stata creata e venga costantemente resa abitabile per l’effetto dei venti. I possenti Alisei provenienti dal nord-est, capaci di trasportare l’umidità che permette l’esistenza di una biosfera accogliente, in questo luogo piuttosto secco a causa della sua natura geologicamente vulcanica e piuttosto recente, per non parlare della latitudine quasi perfettamente corrispondente alla linea di demarcazione del Tropico del Cancro. Correnti d’aria senza tregua capaci di formare la condensa che grava sull’isola, nelle mattine d’inverno, carica di nebbia vivificatrice, ma anche di colpire con forza le zone più esposte del territorio, causando modifiche importanti al loro aspetto passato, presente e futuro. Come nel caso del famoso Sabinar della Dehesa, ovvero per usare una terminologia italiano, il ginepraio della vasta pianura erbosa della parte nord-est del triangolo formato da El Hierro, i cui principali abitanti vegetali, costituiti da piante appartenenti alla specie dei ginepri fenici (Juniperus phoenicea) sembrano emergere dal terreno per molto meno dei 5-8 metri che normalmente li caratterizzano. Questo perché si trovano sviluppati, in maniera marcatamente atipica, lungo un senso per lo più orizzontale. Per chi dovesse osservare un simile spettacolo con un occhio aperto alle ipotesi più sfrenate, potrebbe persino sembrare che l’intero gruppo di alberi si sia addormentato in un singolo magico momento, per effetto dell’incantesimo di uno stregone o ninfa, restando in attesa della prossima rotazione della grande ruota delle Ere. Dal punto di vista biologico tuttavia non si tratta di un miracolo, bensì di un esempi da manuale di plasticità fenotipica, ovvero la capacità di un organismo di adattarsi ai fattori ambientali, senza perdere necessariamente i tratti evolutivi acquisiti in precedenza. Il che significa che questi alberi sono si, dei ginepri e tutti gli effetti, ma anche delle creature completamente diverse dai loro simili continentali, il cui legno si è fatto flessibile e i processi di distribuzione della linfa non devono più contrastare la forza di gravità. Qualcosa che sembra, contrariamente alle aspettative, aver migliorato le loro condizioni di salute, visto il rigoglio esibito nonostante una metà abbondante della loro chioma, per inevitabile della loro posizione, finisca per crescere senza mai poter ricevere direttamente la luce del sole. Con un’esibizione di tenacia che sembrava riprendere quella degli antichi abitanti locali, capaci di istituire strutture sociali complesse in un luogo in cui la natura era stata tutto fuorché clemente, consentendo principalmente il solo allevamento degli animali, alla base di un’economia di baratto che venne completamente distrutta dall’arrivo degli spagnoli….

Leggi tutto