Dentro allo stomaco di un rampicante

Nepenthes

Sugli alberi delle foreste tropicali, abbarbicate ai tronchi degli arbusti centenari, ci sono fiori rossi dall’odore penetrante. Li chiamano bicchieri delle scimmie, perché pare che queste ultime, talvolta, li usino per dissetarsi. Non prendetemi in parola, provateci anche voi. Ma controllate, prima, che all’interno non sia inclusa una sorpresa. Moscerini? Mosche della frutta? Vespe? Api? Calabroni? Falene? Ragni? Scorpioni? Nella nepenthe può esserci ogni sorta di creatura zampettante, volante o strisciante, presa da un compito davvero impegnativo: farsi digerire. È un procedimento molto semplice, benché al tempo stesso alquanto spaventoso. La truffa più crudele dell’intero mondo vegetale, da un significativo punto di vista, quello delle vittime innocenti: gli artropodi di tutti i tipi, ma qualche volta anche i rettili di minori dimensioni (si hanno notizie di ranocchie o lucertole che sono state catturate dalla pianta) che si avvicinano all’invitante attrezzo del demonio. Perché percepiscono chiaramente l’irresistibile richiamo di quella sostanza zuccherina che si trova in fondo al buco vegetale. Però ad un certo punto, se faranno soamente un altro passo, sarà la fine. Il bordo della nepenthe è sdrucciolevole e stondato, come il labbro di una bocca piena di saliva. Viene detto peristoma. Ed il coperchio sempre umido, simile a una foglia, è ricoperto di un tremendo nettare colloso. La preda che dovesse apporci la sua zampa incauta, cadrà dentro. Finendo per languire nel bel mezzo di uno splendido banchetto, bevendo e godendo dei soavi succhi della pianta, dimenticando i suoi problemi percepiti ed ogni presupposto della vita quotidiana. Il futuro stesso, verso il crepuscolo dei sensi. Fino a che sfinita, ma felice, si addormenterà. Per non svegliarsi più. I biopolimeri viscoelastici nel fluido dell’angusto stomaco di clorofilla, quindi, ne scomporranno la preziosa essenza. E lentamente, inesorabilmente, la trasformano in pregevoli sostanze nutritive, per la maggiore gloria dell’imperituro Regno Vegetale.
Non vi fa un po’ rabbia? Non suscita in vuoi un sentimento d’istintiva…Diffidenza? Voglio dire, le piante dovrebbero costituire una risorsa. Come un faggio, che svettando placido dal denso sottobosco, offra volentieri la sua ombra e il buon ossigeno che crea dall’aria. Come un pino silvestre, pacifico e profumato, tra i cui rami vivono gli uccelli. E tra le cui radici, operose, si avventurano formiche tagliafoglie; senza mai dover temere, se anche ne avessero la predisposizione, la dolce eutanasia di una spietata succhiatrice. Ah, che ingiustizia! Ecco dunque il giardiniere del canale Brads Greenhouse, specializzato in piante tropicali ed orchidee, che ci offre l’opportunità di sfogo. Con le forbici della scienza, verso una migliore comprensione delle cose orribili e meravigliose…

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La cosa che divora i nostri cari pescecani

Smithsonian Channel Tag
Pubblicato da Smithsonian Channel

Chissà cosa avrà provato il ricercatore marino Dave Riggs, sulla bianca spiaggia di un’Australia incontaminata, nel momento fatidico in cui recuperava la targhetta usata per l’amica carcarodonte, la ruvida ragazza comunemente detta Grande Squalo(a) Bianco(a). Certamente avrà pensato a quanto saldamente l’aveva assicurato, quel dispositivo, sulla candida pinna dorsale della ricevente, mediante l’utilizzo dell’apposito bastone. La memoria di una fiocina pietosa, questa, che rimandava giustappunto lì vicino: a sole due miglia e mezzo di distanza. E poi l’uomo avrà iniziato, perché no, a congratularsi con se stesso per il successo della sua operazione etologica/marina, portata a termine proprio in quei preziosi giorni. Attività, questa, concepita per studiare i movimenti degli squali attorno alle isole dell’Oceania. Un altra scatola nera da scartare, miracolosamente ritrovata grazie al GPS! Il profilo termico, i movimenti verso il ripido fondale…Che meraviglia, wow, la tecnologia. Finché: ohibò, però, strano! Avrà esclamato strabuzzando gli occhi: “Lei dov’è?”
Una domanda veramente preoccupante.
Nelle paludi ristagnanti dell’isola di Sumatra, tra vegetazione putrida e arbusti marcescenti, nuotano i paedocypris progenetica. Non c’è alcun pesce, in tutto il mondo, dal profilo meno significativo. La femmina di questa specie misura meno di otto millimetri, mentre il maschio, al massimo, se vogliamo esagerare, una decina. Muovendosi all’ombra delle serpeggianti radici di mangrovia, le due piccole metà si nutrono di organismi microscopici, pseudo-plankton d’acqua dolce, gamberetti non più grandi di un pidocchio. O altri peduncoli invisibili, per noi bipedi quadrìmani, senza l’uso di una lente. Quindi, al culmine della loro breve vita, questi ciprinidi depongono le 20 uova trasparenti. E sono immortali per definizione, simili creature grame, proprio perché insignificanti, degne per un pelo solamente, d’essere eucariote. Se la loro membrana cellulare fosse stata un poco più sottile o la spina dorsale meno sviluppata, probabilmente, non li avremmo neanche detti “pesci”. Stanno a un passo prima dell’artropode ameboide. E questo è certamente il minimo comune denominatore, di un qualunque ipotetico contesto evolutivo. Anche extraterrestre. Mentre l’opposto, il culminare delle cose gigantesche, ebbene…Non lo conosciamo affatto! Ossa ponderose, lunghe quanto sommergibili, ci parlano di bestie titaniche, dimenticate. Al tempo del Devoniano, o ancora prima, sul finire del remoto Siluriano, i pesci avevano mascelle corazzate. Erano detti placodermi, simili possenti nuotatori, ed avevano la dentatura comparabile a quella di un futuro discendente operativo: il tirannosauro. Torniamo per un attimo a 370 milioni di anni fa, per dire, giusto l’altro ieri: presso le coste del neonato continente Nordamericano, come a largo dell’Europa, si aggirava un mostro marino lungo 10 metri, dal peso niente affatto trascurabile. Fino a 7 tonnellate. Era lento, l’impervio dunkleosteus, quanto inesorabile. Nessuna piovra delle origini, né affamato iper-carnivoro avrebbe mai potuto penetrare le sue placche ossee, mentre lui, tranquillamente, divorava il mondo intero. E lo fece, fino all’ultimo dei suoi perduti giorni. 

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Per il potere nanoscopico dei nostri stessi occhi

Double slit

Che l’infinito possa veramente definirsi inconoscibile, nonché inavvicinabile da mente umana, è uno dei più tragici fraintendimenti dell’empirismo. L’infinitamente grande può essere scrutato con un telescopio. E l’infinitamente piccolo…. Basandosi soltanto sulla forza ponderosa della teoria matematica, il prodotto derivante dalla mente pura, chiunque fallirebbe nel comprendere l’epocale esperimento delle doppia fenditura. Flussi concentrici, particelle? Oppure tutte e due le cose, a seconda del minuto? Finché la realtà stessa non diviene come un’onda fuori controllo, da cavalcare sulla tavola periodica degli elementi. Fu, questa dimostrazione, la trovata senza precedenti di un singolare individuo, Thomas Young della Royal Society di Londra, ovvero colui che, sul principio del XIX, fu il precursore di una scienza Nuova. Quella che, fra tutte quante, rassomiglia maggiormente alla filosofia: la meccanica quantistica, stregoneria dei nostri tempi.
Non che lui avesse mai provato a definirla in questo modo. Semmai l’esigenza problematica, per lui, fu guidata dalla necessità di contraddire un gran maestro: nella stessa Inghilterra di suo padre, quacchero convinto, c’era stato l’uomo della Mela. Non Steve Jobs (mancavano parecchi anni) bensì Isaac Newton (1642-1727) lo scienziato con i femori incrociati sullo stemma, longevo, prolifico, l’arguto sperimentatore, alchimista misterioso, presunto inventore dell’analisi numerica, alias geometria descrittiva alias calculus. Leibniz permettendo. Figura che, da genio quale era, operava in molti campi. Non fu questo il primo caso di un polimata, ne certamente l’ultimo. Di contrario la natura di una simile figura, per noi italiani, è immediatamente associabile ad un preciso nome con tanto di toponimo: Da Vinci, Leonardo. Siamo stati infatti condizionati, soprattutto dallo studio del Rinascimento, a collocare le mentalità profondamente poliedriche, almeno in parte, nel regno delle discipline umanistiche o liberali. Come se lo studio del disegno, questo modulo di raffigurazione delle cose, donasse un senso di comprensione totale, fin da subito applicabile nell’arte scultorea, pittorica e infine, quasi incidentalmente, nell’invenzione delle cose pratiche per tutti i giorni. Ciò facilita il progresso, di parecchio. Perché quando uno scienziato puro viene percepito come l’uomo universale, che si staglia maestoso contro lo sfondo fulgido delle galassie, il suo lavoro si trasforma in sacro verbo, fin troppo difficile da confutare. Questa è fossilizzazione: l’aver avuto un predecessore in grado di enunciare spledide teorie, tanto accattivanti da poter contraddire l’evidenza. Cosa che avvenne almeno in un caso: l’Etere Luminifero, presunta inconoscibile sostanza, l’errore più vistoso di quell’uomo.

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Un tempio di cubetti sulle rive del Mar Morto

Cubi di sale

Gli antichi Egizi usavano visitare queste stesse rive, in cerca di una mitica sostanza. Il nero, tiepido bitume, la colla usata per stuccare i molti buchi delle mummie. Un vero nettare dell’immortalità, questo ammasso maleodorante, che riaffiorava da profonde pozzanghere nel suolo. Oggi ci vorrei portar le capre, per analogia con i cavalli troppo golosi. Allo scopo di provare il gusto di un cubetto molto nuovo e niente affatto zuccherino.
Se la vita è il mantenersi operativo di un complesso organismo funzionale, che si nutre, defeca e risveglia ogni mattina anche a molti anni di distanza dalla nascita, allora dipartita vuole dire mutamento. Al-Baḥr al-Mayyit per gli Arabi, Thálatta asphaltĩtēs per i GreciYām ha-Mizraḥî oppure Yām ha-‘Ărāvâ negli antichi testi degli Ebrei: sono tutti nomi del più basso punto non oceanico del nostro pianeta, l’inospitale, unico Mare senza pesci. Il Morto, amava chiamarlo qualche intrepido poeta. C’era sempre un valido perché: fra tutti i laghi ipersalini, nessuno è tanto vasto, così profondo e privo di abitanti pluricellulari. Nonché misterioso nelle sue trasformazioni. Intorno agli anni ’60 dello scorso secolo, per l’effetto di un programma di irrigazioni lungo tutto il corso del fiume di Giordania, che fu fatto partire proprio in concomitanza con un calo significativo delle piogge stagionali, l’antico bacino idrico subì una significativa metamorfosi. Dove non poté arrivare l’inarrestabile geologia, fummo noi, bipedi pensanti ed operosi, a fare il danno senza precedenti. Fin dalle origini delle ancestrali civiltà, il Mar Morto era ben diviso in due strati molto differenti: quello superiore, con una salinità di 342 parti per migliaio e una temperatura che poteva raggiungere anche i 37 gradi centigradi, e la parte inferiore degli abissi semi-tenebrosi al di sotto dei 35  metri, non più caldi di 22 gradi. Qui, nel mezzo di una saturazione assoluta di molecole NaCl (cloruro di sodio) così tanto diffuso che le precipitazioni dalla superficie non potevano aggregarsi ulteriormente all’acqua, finendo sul fondale, si nascondevano alcune timide forme di vita, come l’alga dunaliella e gli halobacteria, micro-organismi che si nutrono di rara luce ultravioletta, la cui membrana cellulare, cosa fuori dal comune, resisteva alle ruvidità di un tale ambiente. Un potere straordinario dato dall’evoluzione. Ma gli ecosistemi rari sono delicati per definizione, e l’improvviso venire a mancare di un apporto tanto ingente di acqua fresca e pura cambiò i rapporti di potenza fra le parti in gioco.
La sostanza della superficie, improvvisamente raffreddata, perse il suo primato di minore densità, cadendo inarrestabile verso il profondo e mescolandosi come l’oceano latteo della mitologia indiana. Si stima che entro il 1978-79, dove prima c’erano due zuppe, ne era rimasta solamente una.

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