I turbamenti cromatici del metallo sottoposto alla tensione elettrolitica incostante

La dura legge del metallo detta regole implacabilmente solide, prive della tiepida clemenza delle cose viventi. Prima regola: un colore resta quello, se pure può essere chiamato tale, essendo meramente grigio, al massimo argentato, soltanto in un caso, oro splendente. Eppure non è certo questo il caso della menacanite, scoperta in natura dal reverendo William Gregor nel 1791, in una valle della Cornovaglia. E in seguito ribattezzato con il nome dei più imponenti titani mitologici, ad opera del tedesco Heinrich Klaproth: titan, titanium, titanio. Leggero, resistente, reattivo. Sia con elementi prossimi nella sua stessa sezione centrale ed a sinistra della tavola periodica, che altri non direttamente collegati, vedi l’O(ssigeno) che permea l’atmosfera del nostro stesso pianeta. Il che significa, nelle sgradite contingenze, che il suddetto può essere soggetto ad arrugginimento. Ma significa anche molte altre cose. Poiché ciò che non può dirsi, da ogni punto di vista, del tutto inerte non può essere del tutto privo di quella scintilla dell’esistenza, che in maniera metaforica siamo inclini a definire “vita” ovvero il regno dei sublimi mutamenti. Anche qualora siano indotti, con tecniche specifiche, tramite fattori ed intenzioni esterne. Ah, la contingenza elettrica: potere indotto tramite l’eccitazione delle particelle, moto d’attrazione e repulsione in alternanza o del tutto contemporaneo, l’origine di un ricco repertorio di processi. O come in questo caso, la fine pratica ed incontrovertibile di altri. Avete mai provato, per esempio, a intingere il terminale ritorto in fil di ferro di un assemblaggio di batterie all’interno di una bacinella conduttiva, entro cui siano stati immersi preventivamente dei bulloni, anelli o altri componenti del metallo figlio poetico di Oceano, Giapeto ed Iperione? Certamente avrete in quel momento visionato con i vostri occhi quel fenomeno, che in tempi meno tecnologici vi avrebbe messo di traverso ai promotori dell’incessante processo per stregoneria e delle arti oscure. Mentre la chincaglieria in questione diventava, in un progressivo florilegio di stupore e meraviglia: viola, azzurra, gialla, rosa, fucsia, verde opalescente e sul finire del fenomeno pomeridiano, nera come un lucido carbone ultramondano. Ancorché non sia del tutto necessario che un arcobaleno simile incontrasse il proprio termine eminente. Poiché continuando ad aumentare la tensione, sempre che vi fosse stato possibile nello scenario della nostra delicata ipotesi pre-moderna, la sequenza di colori avrebbe ricominciato da capo… Certo: questa è la terza regola dell’anodizzazione. Ove la prima è non parlare mai dell’anodizzazione. Per condurci alla seconda, tradizionalmente posta in forma di domanda ovvero, come diavolo funziona esattamente, l’anodizzazione?

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Il pingo: un cumulo di terra. E sotto ad esso, l’iceberg che non puoi vedere

Milioni di facce sepolte sotto un guscio friabile ma saldo. La membrana che pur camminandoci tendiamo a definire “crosta”, quasi a sottolineare come sia soltanto un velo dietro il quale nulla è ciò che sembra, ma ogni cosa latita in un complicato caos di effetti reciprocamente agevolati: fuoco, fiamme, impermanenza delle forme. Per sempre sepolte, ma mai realmente sopite. Eppure, qualche volta, risvegliate. Poiché non è forse questo il senso di un dinamico quanto compatto promontorio? Che compare sollevandosi, nel giro di una quantità variabile di anni? Per svettare come nulla fosse, unico punto di riferimento, negli spazi senza tronchi e senza rocce dell’eterno permafrost del grande Nord… Oh, dirà il geologo tra il pubblico di questa introduzione. Sussistono creazioni come queste. Grazie a insoliti processi che potremmo facilmente mettere a confronto con il vulcanismo… Pur trovandosi all’estremo opposto di quel nucleo fiammeggiante che brucia l’anima e le mani. Un frutto freddo, se vogliamo. Ma non per questo, meno interessante o rappresentativo di quell’iter proceduralmente perpetrato che orgogliosamente definiamo, tra noi stessi ed a vantaggio d’ipotetiche creature, terrestre.
Eppure molto poco in termini di approccio scientifico, tralasciando la spiegazione di massima e un accenno di concause collegate al mutamento climatico di cui possono costituire l’indicatore, gravita attorno a queste insolite collinette, capaci di raggiungere i 70 metri di altezza ed i 1.000 di diametro, tradizionalmente utilizzate dagli Inuvialuit (o Inuktuk settentrionali) del continente americano per orientarsi. Soprattutto presso la penisola canadese di Tuktoyaktuk con il suo celebre Monumento Nazionale dei Pingo, ove ne sorgono all’incirca 1.350 in buona parte ben differenziati tra loro, incluso il secondo più alto del mondo, l’Ibyuk di 49 metri (il suo fratello maggiore si chiama Kadleroshilik ed è situato in Alaska, raggiungendone i 54). Gobbe di un cammello senza tempo e senza nome, ricoperto da una verdeggiante pelliccia erbosa. Simboli di vita dunque, che racchiudono all’interno e ben nascosto un simbolo di morte, il bianco gelo stretto in una morsa che non può conoscere alcun tipo di quartiere. Per il modo stesso in cui tali strutture tendono a manifestarsi, unicamente in luoghi dove il gelo è un’implacabile stato dei fatti. E in luoghi segreti, esso si concentra in modo ancor più ferreo in un possente pugno che attraverso decadi, se non singoli anni, può bucare e fuoriuscire dal terreno che appariva precedentemente privo disturbi nello stato del paesaggio esistente. Da che l’appellativo preso in prestito dal greco di “idrolaccolite”, idro- “acqua” e lakkos (cavità) + lithos (pietra). Il che costituisce se vogliamo un’eccessiva semplificazione o mera antonomasia. Laddove il pingo è fatto per lo più di ghiaccio, avvolto nella terra che riesce a nasconderlo eccellentemente. Senza che la pietra entri necessariamente, o frequentemente, nell’equazione…

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L’adorabile groviglio di tentacoli scovato grazie ai video amatoriali dello stretto indonesiano

Sebbene ci siano molti animali dall’aspetto notevole nel mondo, è decisamente alquanto raro che singole specie vantino un appellativo che parrebbe uscito da un fumetto dei supereroi. L’incredibile… Wunderpus, invisibile cervello manipolatore degli ambienti abissali. Che li protegge dagli agguerriti nemici della natura? D’altronde, va pur detto che la maggior parte delle volte le categorie genetiche tendono ad essere identificate grazie ad analisi fenotipiche o all’interno di asettici laboratori, dove l’uso della nomenclatura binomiale con generoso uso di parole greche o latine viene considerato un orgoglioso marchio di fabbrica nell’ambiente della scienza accademica e quelli che si muovo al suo interno. Perennemente attenti, sempre indaffarati, intenti a manipolare attrezzatura, provette, terminali e microscopi più o meno elettronici, spesso allo stesso tempo. Cui farebbe indubbiamente comodo, tra tutti, la saliente dotazione di quattro paia di braccia. Il che potrebbe spiegare, almeno in parte, il fascino innato posseduto dall’intero ordine degli Octopoda e più in particolare, nel distintivo gruppo capace di mimetizzarsi, cambiare forma ed un cervello abbastanza complesso da farne buon uso. Ecco un esempio, se vogliamo, delle maniere imprevedibili in cui opera l’evoluzione: fino alla creazione di una creatura dal corpo molle, quasi totalmente priva di difese degne di nota e totalmente vulnerabile per quanto concerne i predatori. Ma infinitamente più scaltra, rispetto a loro. Un tipo di dicotomia ancor più applicabile nel caso della specie in oggetto, scoperta formalmente nel 2006 pur essendo ritenuta quanto meno probabile da un tempo esponenzialmente più lungo, vista la ridotta efficienza del suo organo produttore d’inchiostro, nei fatti non più funzionale al fine di creare la caratteristica nube di dissimulazione tipica dei cefalopodi soggetti a fattori di pericolo o disturbo. Più volte comparso e casualmente noto come “polpo dai tentacoli sottili” all’interno d’infiniti filmati di vacanze indonesiane girati all’interno del biodiverso stretto di Lembeh, ma anche nelle Filippine o presso l’isola di Vanuatu, il Wunderpus photogenicus (che ci crediate o meno, questo è il chiaro sottotesto del suo cognome) era inoltre riconoscibile per un’altra prerogativa almeno in apparenza controproducente alle sue prerogative di sopravvivenza. Sto parlando del possesso di una colorazione a strisce color mattone ragionevolmente riconoscibile anche una volta cambiato colore grazie all’uso dei fotofori, andando ad inficiare proprio quelle caratteristiche di mimetismo giudicate normalmente necessarie allo stile di vita ottuplice degli abissi marini. Lasciando come unica strategia disponibile al nostro amico quella dell’autotomia e successiva rigenerazione di uno dei propri preziosi arti serpeggianti, cui non è propriamente conveniente far ricorso a meno che si tratti dell’ultima residua possibilità di salvezza. Nessuno aveva mai pensato, in fin dei conti, che la vita dei molluschi potesse risultare semplice, sotto la coperta perpetua delle onde oceaniche del tutto indifferenti allo splendore dei loro abitanti…

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L’assioma del falchetto che usurpa le dimore dei pennuti africani

In una superficiale, ma formalmente corretta affermazione pronunciata da un personaggio di una recente serie di fantascienza (possibilmente o meno estratta dall’originale romanzo cinese) lo scienziato parte dell’iniziativa extra-terrestre affermava: “La lingua degli uccelli prevede soltanto due tipi di affermazioni: sono io, sono io. Oppure, accoppiamoci, accoppiamoci.” Egli tralasciava tuttavia, più o meno volontariamente, la terza tipologia di affermazioni dei volatili: “Se fai soltanto un altro passo, te ne pentirai.” Ed appartiene molto chiaramente a questo ambito la dimostrazione squillante effettuata pressoché continuamente dagli appartenenti alla compatta specie Polihierax semitorquatus, più comunemente detti falchi pigmei, rapaci straordinariamente affascinanti che possiedono il quasi-primato di essere i secondi più piccoli al mondo. Ma non per questo meno intimidatori verso topi o altri piccoli mammiferi, con i loro artigli uncinati, il becco appuntito ed il fiero cipiglio di un sergente consumato sulla linea del fronte di un’antica battaglia. Quella per la sopravvivenza, s’intende, che porta simili creature non più lunghe di 20 cm (circa i due terzi di un comune piccione) a sfidare enfaticamente esseri più grandi di loro, così come l’istinto gli ha insegnato a fare per proteggere i confini del proprio territorio e quando ne hanno donde, la preziosa dimora con il prevedibile corredo di uova. Il che non significa che lancino il proprio grido di sfida, accompagnato dalla danza guerresca che li porta a sollevarsi ed abbassarsi ritmicamente, per ogni minuto che trascorrono di veglia; naturalmente, dovranno anche cercare una compagna e procacciarsi il cibo. Ma di certo, tendono comunemente a farlo ogni qual volta un essere umano ne prende in mano uno e lo solleva innanzi all’obiettivo di una videocamera, il che può anche essere immediatamente interpretato come un senso di fastidio o di disagio per esser stati sottratti alle comuni circostanze della propria giornata in cattività. C’è del resto molto, nello stile di vita di questi uccelli perfettamente adattati alle oscillazioni climatiche della perturbazione di El Niño meridionale, che non può essere riprodotto fuori dai loro territori legittimi di appartenenza, che ne vedono due popolazioni distinte nella parte orientale d’Africa (Sudan, Somalia, Uganda) e i dintorni della punta di quel continente nell’emisfero australe (Angola, Sud Africa). Primo aspetto in assoluto, il loro particolare metodo di metter su famiglia all’interno di un luogo degno di essere chiamato casa, sufficiente a farne a tutti gli effetti una forma particolarmente funzionale, nonché predatoria e carnivora, di parassiti. Per il modo in cui s’insinuano una volta in età riproduttiva, senza particolari remore o esitazioni, all’interno di un condominio arboricolo gremito. Ma non prima di aver sfrattato, o più semplicemente ucciso, una piccola parte dei loro incolpevoli abitanti…

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