L’inventore della barca tonda spiega le ragioni del suo successo

Quale miglior modo di iniziare il 2017, che rinnovando la propria immagine e visibilità online? Come nel caso delle piccole aziende startup, spesso fondate grazie all’iniziativa di una singola persona, che su Internet sono diventate celebri e nel tempo rischiano di essere dimenticate, a meno che non ci sia una continua produzione di video pubblicitari o un botta e risposta coi propri clienti, magari con l’offerta di approfonditi materiali esplicativi. Così è capitato, in queste due prime settimane dell’anno, che uno dei personaggi più celebri in determinati ambienti del sovra-portale Reddit sia letteralmente ritornato alla fonte del suo improvviso successo, facendosi (nuovamente) anfitrione di quel particolare evento che prende il nome di IamA, ovvero una sorta di intervista collettiva con le domande direttamente proposte dagli utenti. Ma prima di analizzarne il contenuto, vediamo brevemente ciò di cui stiamo effettivamente parlando.
Sotto molti punti di vista, lo scenario odierno dei mezzi di trasporto più innovativi ruota integralmente attorno ad un singolo concetto: il mantenimento automatico della posizione eretta. A partire dall’invenzione ormai più che decennale del Segway PT, il “monopattino” a motore in grado di anticipare i movimenti del pilota e spostarsi di conseguenza, c’è stato un tripudio di apparati simili, scooter, hoverboard e persino l’attuale concetto di drone telecomandato, che non si basa su nient’altro che l’impiego di un giroscopio ed un computer di bordo, in grado di determinare in autonomia l’inclinazione necessaria a raggiungere l’obiettivo. Terra e cielo dunque, ma stranamente, almeno fino ad un paio d’anni fa sembrava che nessuna grande azienda, inventore o produttore di meccanismi, fosse venuto in mente di applicare lo stesso concetto alla navigazione. La ragione, in realtà, era di natura prettamente tecnica, rivolta alle specifiche dell’elemento in questione e a quanto già potevamo dire che questo offrisse ai suoi percorritori. Poiché l’acqua è essenzialmente, grazie al principio di Archimede, un fluido che tende già a far spingere le cose verso l’alto, con una forza regolare che soltanto le onde, o una distribuzione impropria del peso, possono modificare in modo deleterio, provocando l’eventuale cappottamento. Eppure l’esperienza, coadiuvata dall’universale legge di Murphy, ci insegna che tutto ciò che può succedere tenderà a verificarsi, a meno che non sia impossibile, sotto ogni punto di vista, porre in moto gli ingranaggi dell’impellente disastro. E sotto questo punto di vista Ultraskiff, l’invenzione dalla forma circolare di Jeff Lizzio, musicista e precedentemente barista di Dunedin, in Florida, offre caratteristiche davvero interessanti. Immessa sul mercato per la prima volta nel 2014, a seguito del successo virale su Internet dei video del prototipo e con un immediata risposta positiva da parte del grande pubblico, la barca in questione è un dispositivo concepito primariamente per la pesca, adatto all’uso di un singolo passeggero. Il quale proprio nelle specifiche di tale configurazione riesce a trovare il modulo del suo successo.
Basta vederne all’opera un esemplare per comprendere ciò di cui stiamo effettivamente parlando: come un UFO o un sottobicchiere di 1,8 metri, l’oggetto navigante non identificato si stacca dal molo oppure dalla riva, a una velocità massima di  8 Km/h (vorrete mica spaventare i pesci?) spinto innanzi da un piccolo motore elettrico direzionabile del tipo spesso impiegato sui kayak americani. Nel centro esatto del natante, in corrispondenza di un apposito pilone ammortizzato è collocato uno sgabello, o sedile a seconda delle preferenze, sopra il quale sarà seduto il capitano della futuribile micro-nave. Da tale postazione privilegiata, egli può raggiungere facilmente ogni recesso dell’imbarcazione, a partire dal timone di propulsione, passando per i tre capienti compartimenti calpestabili di trasporto per i pesci o l’equipaggiamento, fino all’immancabile sostegno per la fidata ed irrinunciabile canna da pesca. Ma l’aspetto più fondamentale dell’intera soluzione, ovvero ciò che colpisce senza falla ogni osservatore dell’occasione di utilizzo, è la maniera in cui non importa quanto costui si agiti o sposti sul suo natante, questo resta sempre in posizione rigidamente eretta ovvero perfettamente controllabile e priva di oscillazioni. L’Ultraskiff completo di persona a bordo ci appare dunque come una di quelle tazze magiche da fondo appesantito vendute alle madri dei bambini più burrascosi, che non si rovesciano neppure a seguito di un urto tutt’altro che accidentale. La ragione di una tale caratteristica è sufficiente a comprendere il genio innegabile del progettista, ed offre un esempio di studio idrodinamico davvero encomiabile nella sua efficientissima semplicità: la forma della barca, infatti, non corrisponde affatto tra parte inferiore e superficie del ponte. Poiché nella prima, non visibile durante la navigazione, essa presenta lo scafo a punta di una comune barca, che gli permette di orientarsi con sicurezza nella direzione opposta al propulsore. Mentre per quanto concerne il secondo, questo è ovviamente tondo, ma sopratutto concavo verso la sua parte centrale. Ovvero non stiamo davvero parlando di un disco, bensì di una ciotola sovradimensionata. La differenza è importante ed a quanto si è scoperto, va tutta a vantaggio dell’utilizzatore…

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Obbligo di catene anti-fuoco su ruote giganti

Il calore raggiunge un livello quasi insopportabile, mentre la pala caricatrice con ruote di gomma, grande come un edificio di un piano e mezzo, fa il suo ingresso nel capannone della titanica acciaieria. Fumi mefitici la avvolgono e la nascondono, mentre una luce infernale la illumina dal basso, traendo l’origine da un punto niente affatto apparente. Finché agli occhi dell’ultimo assunto, non si palesa l’impossibile, tremenda verità: che il pavimento è lava, e brucia, brucia al calor rosso incandescente e ad una temperatura tale da poter cuocere un uovo in una manciata di secondi. Questo perché è letteralmente ricoperto di slag, le scorie simili a vetro fuso, che risultano in gran quantità dalla purificazione industriale su larga scala di acciaio, il metallo sinonimo della modernità. Nessuno potrebbe inoltrarsi, a piedi, in un tale ambiente infernale. Eppure, la sostanza di cui sono fatte le ruote del mostro che DEVE farlo non sembra squagliarsi, né riportare alcun tipo di danno sull’immediato. Com’è possibile tutto ciò?
Nell’antichità europea, i cavalieri andavano in battaglia facendo affidamento su due strati metallici di protezione. Il primo strato era  la rigida armatura a piastre, costituita da uno strato di metallo ribattuto dal fabbro nella forma del corpo umano. Esso era completamente impervio ai colpi vibrati di taglio: nessuna lama inventata dall’uomo, in parole povere, poteva penetrarlo. Nel caso in cui il nemico fosse armato di un’arma concepita appositamente per penetrare, tuttavia come una lancia o un pesante stocco da guerra, esso non aveva ancora la vittoria in pugno: poiché sotto quel duro guscio, nello spazio interstiziale prima delle pesanti vesti di lino (o più raramente, cotone) imbottito, i guerrieri portavano la maglia di ferro. Nient’altro che centinaia, migliaia di anelli, intrecciati l’uno con l’altro in un complicato pattern dall’assoluta regolarità, che offriva un ottimo grado di protezione ulteriore, vestendo comunque meglio di un qualsiasi corpetto di cuoio bollito. Presentando, inoltre, il significativo vantaggio della riparabilità. Immaginate voi, l’effetto di un cuneo che penetra il metallo, giungendo fin quasi al prezioso contenuto umano. La scocca bucata, con i bordi frastagliati come quelli di un coperchio di latta, e poi l’intreccio spezzato in corrispondenza di un singolo, fondamentale anello. Per la parte esterna, c’è ben poco che possa essere fatto “sul campo”. Eppure, tutto ciò che occorrerà fare per quanto concerne lo strato inferiore, sarà forgiare un singolo cerchio di metallo, sostituendo quello danneggiato, affinché il tessuto risulti essere completamente ripristinato. È sopratutto per questo, dunque, che l’armatura a piastre è sparita dal mondo della tecnologia, mentre la maglia resiste ancora, nei guanti da lavoro, per proteggere chi lavora in condizioni estreme, o da portare persino sopra la muta, nel caso in cui s’intenda immergersi in presenza di squali (ebbene, c’è a chi piace!) Per proteggere, in primo luogo, se stessi. Ma anche ciò a cui si tiene particolarmente. E sapete qual’è una delle variabili di costi maggiormente fuori dal controllo umano, nell’industria metallurgica, mineraria ed in qualsiasi altra in cui sia richiesto l’uso di mezzi pesanti NON cingolati? L’usura degli pneumatici OTR (Off the Road) ruote che possono arrivare a costare fino a 40.000 dollari a pezzo e non durano, generalmente, più di sei mesi.
Sarà facile comprendere, a questo punto, la strettezza dei margini di guadagno affinché una di queste aziende possa dire di essere effettivamente redditizia. E le gravissime conseguenze che possono derivare, nel momento del consumo totale e conseguente distruzione di una di queste ruote, da un’eccessivo ritardo nella risoluzione del problema. Gli approcci risolutivi, a tal proposito, sono molteplici a partire da un complesso processo di riparazione (vedi precedente articolo) passando per la rigenerazione del battistrada, ovvero scavare dei nuovi solchi su pneumatici che talvolta non hanno neppure una camera d’aria, ma sono blocchi compatti di gomma sagomata nella forma di una ruota, per giungere fino alla soluzione forse più risolutiva: prevenire il danno, rinviandolo per quanto possibile più in là nel tempo. E su questo fronte, l’unico metodo che porti vantaggi misurabili e significativi e l’impiego di una versione sovradimensionata della tipologia dell’armatura citata, ricorrendo all’equivalente veicolare dei ferri per proteggere gli zoccoli dei cavalli: catene, molti metri di catene intrecciate, unite tra loro mediante una serie di metodi diversamente funzionali. L’ovvia analogia, per l’automobilista medio, sarà quella con l’implemento da usare nei mesi invernali, per incrementare la capacità di trazione del mezzo in presenza di ghiaccio e neve, ed in effetti una funzionalità simile è comunque presente in questa classe di prodotti per l’uso professionale. Benché non costituisca, salvo specifiche eccezioni, l’obiettivo principale dello strumento. La cui ampia diffusione deriva invece da considerazioni più prettamente dirette al prolungare la vita dei costosi, enormi pneumatici in presenza schegge, pietre appuntite, frammenti di minerale, sbarre metalliche contenute nel cemento armato di qualche cantiere di demolizione e così via… Renderle, se vogliamo, del tutto impervie all’influsso del Male.

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L’unico ponte con le catene da neve incorporate

C’era un tratto, nella corsa dei Pods su Tatooine nel primo prequel di Guerre Stellari, in cui i sabbipodi prendevano di mira i concorrenti con i loro fucili. Non si trattava di un incidente, per lo meno nella mente degli organizzatori, ma di una semplice caratteristica del percorso. Come il caldo di un pianeta desertico con due Soli, popolato di rettili carnivori, gigantesche formicheleoni ed a quanto pareva, pericolosi predoni delle sabbie. Semplice colore locale. Sono ragazzi, fateli giocare! Una politica simile, a quanto pare, a quella adottata in origine dall’ente pubblico per la gestione dei trasporti nella Columbia Britannica, particolarmente in merito al nuovo tratto di miglioramento autostradale dal nome in codice di Gateway Program, che aveva visto includere nel suo budget di 3 milioni di dollari la spesa, niente affatto indifferente, per sostituire un ponte lungo due chilometri sul grande fiume Fraser, uno dei maggiori di tutta la nazione canadese, sito poco più a est della grande città di Vancouver. Ma il Fato malevolo si trovava in agguato, sui lunghi cavi del nuovo cavalcavia, appartenente alla classe dei ponti strallati più o meno come quello celeberrimo che collega Manhattan al quartiere di Brooklyn. Per capire bene cosa intendo, ritorniamo per un attimo al 19 dicembre del 2012, quando la Sig.ra Caryl-Lee Obrecht si trovava ad attraversare questa meraviglia della tecnica recentemente inaugurata nel ruolo di passeggera, all’interno della Ford Focus guidata da suo marito. I due procedevano serenamente in direzione est, quando qualcosa di strano iniziò a succedere dinnanzi a loro, sulla carreggiata: grossi oggetti, semi-trasparenti, che rovinavano dall’alto con fragorosi impatti, andando in frantumi sull’asfalto semi-ghiacciato. Io non credo che molti di noi possano immaginare il senso di assoluto terrore derivante dall’essere sottoposti a un bombardamento, mentre si tenta di mantenere solida la disperata stretta sul volante. Uno, due, tre impatti sempre più vicini. Finché, all’apice estremo del terrore, un vero e proprio mini-iceberg non cadde fragorosamente nel centro esatto del parabrezza, mandandolo in frantumi. Il vento gelido che penetra nell’abitacolo, con la consapevolezza che non è assolutamente possibile fermarsi per raccogliere le idee o tentare di arginare il danno, finché non si saranno percorsi i restanti due terzi della (non tanto) stretta passerella di cemento sulla grande voragine del nulla. Ma la parte peggiore della loro giornata, a quanto ci viene narrato, non era ancora terminata. Niente affatto. Perché nel giro di pochi secondi, un altro pezzo di ghiaccio colpì la macchina, mandando in frantumi il tettuccio apribile della stessa. Ed infine un terzo, che colpì dritto in testa la malcapitata Sig.ra Obrecht. Nella relazione presentato per fare causa ai progettisti del ponte nei mesi successivi all’incidente, è descritta accuratamente l’intera esperienza: lei che sanguinando copiosamente dal cuoio capelluto lacerato, si puntella coi piedi in alto sul sedile, nel tentativo disperato di impedire al tettuccio di ripiegarsi sull’abitacolo, schiacciandola del tutto. E il marito sconvolto alla guida, che riesce miracolosamente a trarre in salvo se stesso e la consorte dall’incubo di questo inferno congelato.
La loro esperienza di quell’inverno dannato, come potrete facilmente immaginare, non fu l’unica: stiamo parlando, dopo tutto, di un ponte costruito sulla base di un’effettiva necessità della popolazione, che può facilmente raggiungere i 100.000 attraversamenti GIORNALIERI. E fu così che prima della fine di dicembre, furono segnalati alle assicurazioni almeno 300 incidenti da “bombe di ghiaccio” con danni di varia entità, più diversi feriti, benché nessuno con la stessa gravità della casistica fin qui descritta. Fu allora che il BC Public Service (l’ente responsabile) capì di avere tra le mani un significativo problema, e che dato che non era certamente possibile, giunti a quel punto, cambiare la soluzione tecnica dei cavi che passavano sopra la carreggiata, né si poteva chiudere questa fondamentale via di transito per periodi prolungati, occorreva trovare al più presto una perfetta soluzione. Ne andava della sicurezza della popolazione stessa, la più importante risorsa del Canada intero. Venne istituita con estrema rapidità una commissione di valutazione strategica, con alcuni dei migliori ingegneri, tecnici e scienziati di tutta l’area di Vancouver. Furono studiate le casistiche pregresse, benché fossero molto pochi, in effetti, i ponti strallati di simili proporzioni a dover affrontare il gelo estremo in particolari periodi dell’anno.  E si giunse ad una conclusione che sostanzialmente pareva cancellare fino all’ultimo baluginio di speranza: dal punto di vista ingegneristico, non esisteva una singola valida soluzione che potesse risolvere il problema. E tutti gli abitanti della Columbia Britannica avrebbero dovuto rinforzare in modo significativo il tettuccio delle loro automobili. A meno che…

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Il suono formidabile di un’emergenza nucleare

Qui al liceo di Glen Rose non organizziamo gite coi ragazzi, ma esperienze a 360°, che permettano di sperimentare a pieno almeno un particolare aspetto della loro vita futura: come ad esempio, la MORTE. Di ogni pregressa aspettativa. Quando ci si trova in un particolare campo di battaglia esagonale, la postazione coi computer posta in centro, la luce soffusa delle lampade dietro i pannelli trasparenti, milioni di quadranti, schermi e superfici di controllo posti tutto attorno, dalla specifica funzione sconosciuta. E la dantesca guida con maglietta color salmone facente parte del personale locale, non senza un evidente ghigno d’aspettativa, spiega brevemente ciò che sta per verificarsi. Quando nulla in effetti, avrebbe mai potuto prepararvi a ciò che viene dopo. Poi con ferrea risolutezza, l’uomo si china in avanti e da il comando di “GO!” Le luci si spengono, la stanza inizia a gridare, tutto quel che può farlo, lampeggia freneticamente…
C’è una ragione scontata, per cui una tale scena assume un senso ed un’inevitabilità pressoché assolute: dove mai sarebbe possibile addestrare un tecnico per la sicurezza delle centrali nucleari? Se non dentro, per l’appunto, una centrale nucleare… Come quella di Comanche Peak a Somervell County, Texas, dove a quanto pare ci sono (almeno) due diverse sale di controllo principali. La prima usata per, beh, CONTROLLARE le cose mentre l’altra serve a simulare, simulare, recitare. Mettere paura ai visitatori. Le diverse parti di un preciso copione, relativo alle ragioni dell’Evento, l’unico per quanto vario nelle cause, quella situazione, occasionalmente ricorrente, che induce la necessità di porre un freno alla fissione degli atomi nell’irresistibile barile. Ovverosia un transiente, così come lo chiama chi lavora nel settore. Le origini della crisi possono essere svariate: forse la temperatura era salita eccessivamente, oppure l’output energetico era fuoriuscito per un attimo dai valori ritenuti sicuri per il particolare impianto. O ancora, c’era stata un incertezza momentanea degli strumenti collegati alla distribuzione del liquido di raffreddamento. Il che porta, immancabilmente allo SCRAM. Ovvero il reactor trip, l’arresto del reattore. Vorreste conoscere l’origine del termine? Ci arriveremo presto. Ma nel frattempo, rassicuratevi così: il più delle volte, previa accurata e rapida verifica, non si tratta di nulla di grave e tutto ciò che devono fare gli operatori, per riprendere la produzione di energia, è premere un pulsante che ripristina la situazione di normalità. A meno che il transiente in questione non sia stato del tipo peggiore, quello che porta le luci della stanza, anche soltanto per un attimo, a perdere vistosamente di potenza. Perché ciò significa che sono entrati in funzione i generatori d’emergenza, ovvero in altri termini, c’è stato un Loss of Offsite Power. Ovvero la centrale nucleare, per soltanto alcuni attimi, non ha più ricevuto energia dall’esterno. “Ma come…” Mi sembra quasi di sentirlo, il primo/la prima della classe a margine del capannello degli alunni: “…può mancare l’energia in un luogo che la PRODUCE?” La risposta è un clamoroso, rimbombante: SI… Più o meno. Perché naturalmente, un’installazione di questo tipo è in grado di isolarsi dalla rete, se quest’ultima presenta delle gravi, temporanee carenze distributive, ma ciò che assolutamente non può fare, è percorrere una tale strada durante il delicato processo di spegnimento. Perché è proprio a quel punto, che si presenta la più grave necessità, di un nocciolo che continua per lunghi minuti, ed ore, a produrre temperature di una generosa frazione di quelle dello stesso Dio Sole, minacciando d’andare incontro a fusione parziale o completa del carburante. E c’è soltanto un certo margine di manovra con le pompe dell’acqua di raffreddamento, quando si opera mediante le batterie di un gigantesco gruppo di continuità! Proprio per questo, nella maggior parte degli impianti, in assenza di corrente viene indotto immediatamente lo SCRAM.
Non è certo un caso se la prima capacità che viene coltivata attraverso l’addestramento del tecnico addetto alla sicurezza nucleare è la capacità di mantenersi calmi sotto pressione. Quando un’alta quantità di segnali, contemporanei e spesso contrastanti, si accende presso la parete di propria competenza, e tutto quello che resta da fare è estrarre il raccoglitore d’ordinanza sotto i controlli (potete vederli chiaramente nel video) per verificare se una simile combinazione, in effetti, si sia già verificata in precedenza. In quei momenti, sono molte le cose da verificare: gli apparati di sicurezza sono entrati in funzione correttamente? Le turbine a vapore si sono arrestate? Bastano 3-5 secondi di funzionamento delle stesse, in assenza di produzione di vapore per effetto della fissione, perché si vada a incontro a danneggiamenti per un’entità di svariati milioni di dollari. Ma soprattutto, occorre affrettarsi presso il pannello, anch’esso convenzionalmente esagonale come la stanza stessa, che indica lo stato dell’inserimento delle barre di contenimento, l’unica spada in grado di deviare il colpo di coda del furioso drago radioattivo. Lentamente, inesorabilmente, il materiale assorbitore di neutroni (argento, cadmio o boro) viene introdotto in ciascuna cella dell’ambiente di fissione, inducendo progressivamente il silenzio. Almeno, se non è il 1979, e se non vi trovate, per vostra massima sfortuna, presso la famosa centrale nucleare di Three Miles Island…

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