Molti di voi probabilmente non se lo ricorderanno, oppure non l’avranno mai visto. In fondo, ormai il problema è stato risolto. Ma quando Twitter era un sito in rapida crescita che non riusciva a far fronte all’alto numero di accessi, era solito mostrare un caratteristico messaggio di errore: “Mr. T è sovraccarico!” Diceva in inglese, con sotto l’immagine della prototipica balena fiabesca (sembrava quella di Pinocchio) faticosamente sollevata in aria, mediante delle funi strette nei becchi di una certa quantità di uccellini arancioni. La metafora, se vogliamo, era piuttosto chiara. E si trattava anche di una figura accattivante, sopratutto per la sua capacità di appellarsi al nostro spirito d’empatia: chi è che non ha mai desiderato di volare? Come un mammifero marino, oppure un sito web?! Sopratutto e nel caso specifico, tutt’altro che infrequente ai ritmi assurdi dell’attuale quotidianità, di trovarsi in ritardo per un importante appuntamento, trovandosi a tirare fuori il cellulare per chiamare l’altro…Quando all’improvviso… Prende forma un impossibile pensiero… “Se soltanto potessi superare il traffico, trovandomi a destinazione in un minuto.” Attenzione. Una rivelazione. La realtà che appare fra le pieghe dello spazio tempo: se vogliamo, possiamo avere un’anteprima del futuro. Basterà installare le giuste App sul cellulare. Dal che deriva quindi, la questione fondamentale: affidereste la vostra vita a Firefox, a Google Chrome? A Facebook? A Clash of Clans? Beh! “Se soltanto ciò potesse portarmi un minimo vantaggio personale, semplificando la seconda parte della faticosa settimana…” Sembra aver pensato quest’uomo dalla barba straordinaria, pienamente disposto a far da cavia per le nuove generazioni. Sopratutto visto il ruolo interpretato nel video di presentazione dell’Ehang 184 (una persona, 8 rotori, quattro piloni) il dron-one dell’omonima compagnia cinese di Pechino, destinato a spiccare il volo entro quest’estate nei già affollatissimi cieli di Dubai.
È una trovata, in effetti, tutt’altro che insignificante. Molti ormai hanno sperimentato la semplicità d’impiego e l’affidabilità superiore alle aspettative del diretto erede degli antichi modellini radiocomandati, un micro-velivolo che è al tempo stesso un hobby, un importante strumento video e qualche volta, ancora adesso, la tremenda arma militare che era stato da principio. Nel cui immediato domani, come continua enfaticamente ad illustrarci Amazon, potrebbe trovar posto il ruolo dell’autonomo corriere che consegna i nostri pacchi direttamente nel cortile di casa, in corrispondenza di un enorme QR Code. Vicini col cannone spara-rete permettendo, per non parlare di falchi, aquile, cani, gatti e i molti altri pericoli del mondo urbano trans-oceanico e trans-continentale. Però ecco, a ben pensarci, quale potrà mai essere la differenza, dal punto di vista dell’oggetto in se, tra il trasportare cose inanimate o esseri viventi? Umani, persino? Beh, tanto per cominciare, la scala dell’oggetto. Sollevare fino a 100 chili con una configurazione multi-rotore, e l’alimentazione solamente elettrica per contenere il peso, non è esattamente un qualcosa che il mercato consumer fosse preparato a fare, almeno fino gennaio dello scorso 2016. Quando si è iniziato a parlare, presso le fiere tecnologiche e i vicini ambienti di settore, del sogno finalmente realizzato col prototipo di Huazhi Hu, CEO della Ehang, che aveva perso in rapida sequenza un caro amico in un incidente con l’ultraleggero, subito seguìto dal suo insegnante di volo con l’elicottero. Portandolo a giurare che entro breve, grazie all’esperienza maturata tramite l’immissione sul mercato del suo drone radiocomandato di successo Ghost, egli avrebbe prodotto il metodo più sicuro, e moderno, per staccarsi da terra nell’assoluta e più totale serenità. Il che voleva dire, in parole povere, rinunciare del tutto ai comandi di volo. No, davvero! Aspettate a dire “È una follia!” Tutto nasce da un preciso calcolo dei rischi e dei possibili imprevisti. Giacché lo studio delle statistiche, su scala pressoché globale, ci dimostra come la prima causa di incidenti aerei sia l’errore degli umani. Perché non fare il possibile, dunque, per eliminarli dall’equazione…Così.
La cravatta omessa per ovvie ragioni di sicurezza relative all’imbarco su un velivolo con i rotori all’altezza delle caviglie, il fascinoso uomo d’affari carica quindi la sua valigetta nel portabagagli. Con un sorriso che denuncia grande sicurezza, apre lo sportello e si accomoda sul sedile di volo con mega-tablet incorporato. Meditando per pochi secondi, preme un paio d’icone, guarda dritto verso l’orizzonte e preme GO. Se doveste avere il coraggio di seguirlo, scoprirete molte cose…
ingegneria
Il ponte inclinabile che sembra fare l’occhiolino
Fu un momento memorabile, in grado di attrarre decine di migliaia di abitanti provenienti dalla città e le campagne circostanti. Sua Maestà la Regina che, durante le celebrazioni per il Giubileo d’Oro, giungeva in visita presso uno dei centri abitati principali del Northumberland assieme al marito, per assolvere a svariati compiti istituzionali: l’inaugurazione della statua di un cardinale cattolico nato da queste parti, nel primo caso di un simile onore reso da parte della guida spirituale della Chiesa anglicana dall’epoca della Riforma protestante; assistere al passaggio del solito benché imprevisto uomo nudo, prontamente (brutalmente) arrestato dalla polizia locale; effettuare la pressione di un grosso pulsante rosso, posto su un piedistallo giustamente ornato di fiori. Il quale, collegato attraverso un lungo cavo ad una scatola d’acciaio ad alto tasso tecnologico, a sua volta incastonata in un parallelepipedo di cemento, avrebbe dato il “La” ad un’evento totalmente senza precedenti nella storia DEL MONDO (se si escludono le molte prove effettuate in-situ poco prima di questo storico momento). Un’imbarcazione posizionata ad arte suonò la sirena, il Principe Filippo si lasciò sfuggire un sorriso, il vento agitò lievemente il fiore di stoffa sull’amabile cappellino d’ordinanza. Un agglomerato di 800 tonnellate di acciaio, cemento e vetro prese quindi a roteare su se stesso senza un suono, ricreando il movimento di un’ala di gabbiano. Ma se voi foste stati sospesi sopra l’onde, in mezzo all’incresparsi delle acque ancora fresche in pieno maggio, non sarebbe stata questa la metafora destinata a colpirvi. Bensì un’altra ancor più calzante: l’occhio senza palpebra di Sauron, sommo signore dell’oscurità, trascinato dalla cime della torre al fondo della via transitabile con nave. *Meno le fiamme infernali e il suono d’organo vibrato tendente all’acuto finale.
Molte delle cose che diamo per scontate nascono da una diretta applicazione del principio di convenienza: ogni curva nella strada è motivata dalla forma del paesaggio, la presenza di edifici oppure il bisogno di correggere una deviazione precedente. E le città che sorgono sulle due sponde di un corso d’acqua, senza troppo cogitare, fanno affidamento su metodi collaudati per far di ciò che era diviso, un solido tutt’uno. Sistemi di collegamento come i molti ponti sul Tyne, parola che in lingua celtica voleva ipoteticamente dire “il fiume”, a riconferma di quanto fosse determinante una simile barriera geografica nei loro viaggi, spostamenti e commerci. Come molto chiaramente, lo è tutt’ora. Tanto da aver fatto del vecchio e omonimo arco di metallo, il beneamato Tyne Bridge del 1928, il soggetto d’innumerevoli fotografie e un personaggio ricorrente sullo sfondo di serie Tv e film. Pari, nella mente degli abitanti locali, a un punto di riferimento come il Golden Gate. E sembrava che nessuna struttura simile costruita nei pressi, passata, presente o ancora da venire, dovesse superare il suo fascino senza tempo: non il Redheugh, né il King Edward o lo Scotswood. E neppure le alternative dall’estetica più marcata e particolare, quali l’antico High Bridge (1989) riaperto nel 2008 dopo una lunga serie di restauri, dal succedersi di arcate dall’estetica monumentale, oppure lo Swing Bridge, montato su un perno centrale e in grado di spostarsi in senso longitudinale, al fine di lasciar scorrere le navi; finché nel 2001, tramite lo stesso progetto responsabile di tanti nuovi simboli della città di Londra, ovvero la Millennium Commission finanziata con i soldi della Lotteria Nazionale, non venne deciso di donare alla città un qualcosa di radicalmente innovativo e mai visto prima. Furono quindi chiamati, tra gli altri, i rinomati architetti dello studio WilkinsonEyre, che con la collaborazione della ditta ingegneristica Gifford, seppero fare una proposta in grado di stravincere sopra la concorrenza: niente di cui stupirsi. Si trattava, dopo tutto, di un’interpretazione completamente nuova del concetto stesso di ponte. Destinato ad essere inserito nei libri di architettura come primo esempio esistente della classe, tutt’ora piuttosto rara, dei cosiddetti tilt bridge: i ponti che si inclinano, per lasciar passare i natanti. Ma non sarebbe stato tanto facile, questo è certo, superare la semplice bellezza estetica di una simile creazione…
Boeing inaugura una nuova generazione di tute spaziali
C’è una foto particolarmente impressionante dei membri dell’equipaggio dello Shuttle Challenger, deceduti nel fatale secondo in cui la loro nave spaziale si disintegrò durante il decollo il 28 gennaio 1986, a causa del guasto di una guarnizione di uno dei razzi a propellente solido facenti parte della missione: i cinque uomini e le due donne, tutti sorridenti, sono in posa per la telecamera. Indossano una tuta di volo azzurra, senza guanti, e ciascuno tiene in mano un semplice casco dai colori americani, non dissimile da quello che potrebbe indossare qualsiasi pilota di aereo militare. In un primo momento, ciò che colpisce nella scena è la loro spontaneità ed esplicita naturalezza: non c’è nulla della rigidità tipica degli astronauti, incapsulati nelle pesanti protezioni con visiere cupe e i grossi zaini del supporto vitale. Quindi, lentamente, si arriva a comprendere la verità: queste persone furono effettivamente lanciate verso lo spazio, a bordo di un velivolo destinato a sorpassare abbondantemente i 7.000 metri al secondo, con soltanto un tale grado di protezione personale. Ovvero sostanzialmente, nessuna. Ora, nessuno di loro avrebbe potuto fare nulla nella specifica configurazione di quel disastro, troppo improvviso e devastante, ma è chiaro che sarebbe bastata anche la benché minima decompressione in cabina, per mettere a rischio la loro immediata sopravvivenza. Del resto, a quell’epoca si faceva così: per tutte e 28 le missioni del primo orbiter Columbia (1981-2003, vittima del secondo ed ultimo disastro del programma) e le prime 10 del Challenger fatta eccezione per alcuni test di volo, a nessuno era venuto in mente d’impiegare una tuta concepita per proteggere gli astronauti durante il decollo ed il rientro. A tal punto, il concetto di un’astronave riutilizzabile più volte aveva reso consueti e banali i viaggi al di fuori dall’atmosfera terrestre.
Quindi, dopo la morte improvvisa ed inevitabile di quelli che sarebbero diventati dei veri e propri eroi americani, tutto cambiò. Entro il 1988, la Nasa si era rivolta alla David Clark Company del Massachusetts, compagnia famosa per le sue cuffie ad impiego aeronautico, affinché realizzasse una tenuta in grado di mantenere l’atmosfera indipendentemente dall’ambiente, benché non potesse nei fatti essere completamente pressurizzata. Il suo nome era LES (Launch Entry Suit) e sarebbe rimasta in uso fino al 1994, quando finalmente gli Stati Uniti guardarono indietro a quanto avevano fatto di buono in passato, decidendo di dotare l’equipaggio dello Shuttle di una versione riveduta e corretta della tuta usata per l’aereo spia SR-71 Blackbird e gli astronauti del programma spaziale Gemini, poco prima dell’invio della capsula Apollo verso la Luna. L’immancabile acronimo era ACES (Advanced Crew Escape Suit) ed essa ha costituito, fino ad oggi, quanto di meglio abbiamo avuto nel settore, fatta eccezione potenzialmente per l’ottima tuta Sokol dei cosmonauti russi. Ora, tuttavia, le cose stanno per cambiare. Del resto, i margini di miglioramento non mancavano di certo: questa intera classe di tenute spaziali presenta un elevato grado di complessità, con molti componenti il cui malfunzionamento potrebbe causare grossi problemi ai membri dell’equipaggio in volo. Dissipare il calore generato dall’occupante, ad esempio, richiede un sistema di raffreddamento liquido e la goffagine imposta dal doppio strato di protezione, per ciascuna parte del corpo inclusi i guanti, richiede un lungo periodo di addestramento per imparare ad usare i controlli dell’astronave. Prendete in analisi, per comparazione, quanto abbiamo visto attraverso generazioni di film di fantascienza. La differenza tra quanto è considerato desiderabile, e quello che si è riusciti effettivamente ad ottenere, apparirà lampante dinnanzi agli occhi di tutti noi.
Posta di fronte alla sfida di creare un nuovo sistema per il trasporto di personale fino alla Stazione Spaziale Internazionale, per un finanziamento totale giunto fino ad ora attorno ai 4.800 milioni di dollari, la grande compagnia aeronautica Boeing ha quindi ricominciato dal principio stesso, assolutamente fondamentale, di cosa far indossare agli occupanti del suo modulo orbitale. Il risultato è questa Starliner Spacesuit (dal nome della nave spaziale stessa, CST-100 Starliner) che sembra una copia più o meno diretta della stessa identica tenuta dei protagonisti di Odissea nello Spazio, fatta eccezione per il colore di un azzurro intenso (il “blu Boeing”) invece che rosso vermiglio. Le innovazioni sono numerose e tutte quasi altrettanto significative…
Le torri indistruttibili del Terzo Reich
Che cosa devono aver provato, gli abitanti comprensibilmente preoccupati di Berlino, Amburgo e Vienna al sorgere del primo mostro grigiastro nel 1940, la vera e propria montagna di cemento concepita per costituire l’equivalente moderno di un’inespugnabile fortezza… C’è un punto, un momento neanche troppo remoto in qualsiasi grande guerra, in cui ogni preconcetto cessa di esistere, lasciando il posto al basilare istinto e ed al bisogno di un grado ragionevole di sicurezza. Credo a tal proposito che in molti, tra la popolazione civile che sperava di essere lasciata in pace, tra gli ebrei segreti e le altre potenziali vittime del regime, persino tra i pochi prigionieri di guerra trasportati fin qui dai più remoti campi di battaglia, si siano silenziosamente congratulati con colui che si era dimostrato in grado di farsi venire l’idea. Senza però sapere, perché non rientrava tra le cognizioni più frequentemente discusse, che quell’individuo altri non era che Hitler in persona. Esistono del resto i disegni, che lui stesso aveva tracciato sulla carta progettuale a guisa di castelli da incubo fuoriusciti direttamente dal Signore degli Anelli, con guglie gotiche sormontate da vertiginosi abbaini, dall’interno dei quali si affacciavano i possenti cannoni posti a difesa delle metropoli più scintillanti dell’intero territorio del Reich. Tre città, come tre coppie di torri, con tre tipi di armi, disposte geometricamente nella forma del quadrato e del cerchio. L’occultista che si nascondeva all’interno dell’uomo più spietato che il mondo abbia fin’ora conosciuto doveva trarre un sinistro piacere in tali corrispondenze numerologiche latrici di un presagio. Ma l’architetto Friedrich Tamms, uno stretto collaboratore di quel Fritz Todt che aveva diretto la creazione della linea Siegried come fortificazione al confine col Belgio, poté seguire soltanto in parte le direttive del Führer, giungendo alla conclusione che l’unico modello possibile per tali strutture fosse quello dell’architettura brutalista, in cui l’estetica si ritrovasse subordinata all’assoluta funzionalità. Ed il risultato possiamo ancora ammirarlo, per così dire, ad Amburgo e Vienna ma non più presso la capitale, dove gli Alleati attorno al 1946 e ’47, a fronte di un dispendio considerevole e svariati tentativi non riusciti di demolizione, finirono per seppellire simili giganti sotto metri cubici di terra, trasformandoli, di fatto, in colline.
Il male può essere sepolto. Ma, come ci insegnò lo stesso Tolkien, mai del tutto eliminato. E lo stesso valeva, a quanto ci è dato di comprendere, per le 16 Flaktürme, o torri contraeree, la massima espressione storica del concetto di una fortezza imprendibile, tanto che la più famosa di esse, quella dello zoo berlinese, poté resistere per quasi un mese al bombardamento dell’artiglieria e dei carri armati sovietici, fermamente intenzionati a mettere la parola fine sulla battaglia decisiva di una guerra che pareva non finire mai. Proprio così: un assedio medievale a tutti gli effetti, nel 1945, con dietro le mura asserragliate svariate migliaia dei membri residui delle SA ed SS, un contingente della gioventù hitleriana, opere d’arte inestimabili tra cui il fregio dell’altare di Zeus sottratto a Pergamo e quantità ancor superiori di civili da sfamare. Essi avevano, sostanzialmente, di tutto un po’: cibo in abbondanza, pozzi ed elettricità indipendenti, recinti sotterranei con bestiame. Ed in effetti la situazione di stallo si sarebbe estesa parecchio nel tempo, se gli ufficiali dell’esercito assediante non si fossero accordati all’interno, per non uccidere sommariamente i militari a capo dell resistenza, in cambio dell’apertura dell’imprendibile castello tedesco. Accordo che in realtà si rivelò essere uno stratagemma, quando i loro colleghi della torre di Humboldthain all’altro capo del fiume Sprea, la notte del primo maggio, approfittarono del cessate il fuoco per fuggire con un intero contingente corazzato con tanto di Tiger ancora in perfetto stato di funzionamento, poco prima che si diffondesse la notizia sulla morte di Hitler e fosse ordinata la resa totale del paese. A quel punto, tutto sembro futile, e la guerra finì.
Se le cose fossero andate diversamente, è probabile che l’unico modo di annientare le torri sarebbe stato affamare i loro abitanti. Poiché non c’era nulla nell’armamentario russo, americano e inglese salvo forse alcuni tipi di bomba sovradimensionata (incluse le atomiche, ma non scherziamo…) che potesse facilmente abbattere delle pareti di cemento spesse tra i 2 e i 3,5 metri, senza considerare l’armamento più terrificante delle Flaktürme, le quattro bocche da fuoco dei cannoni 12,8 cm FlaK 40, in grado di abbattere un bombardiere fino a 15 Km di distanza. Le quali, secondo alcune versioni della storia, all’ultimo furono puntate verso il basso e usate per forare la leggendaria corazzatura dei carri armati russi, trasformata dalla loro impressionante potenza in poco più che semplice carta velina. Wikipedia italiana cita uno studio di F. M. Puddu secondo cui ciò non sarebbe stato possibile, per l’arco di tiro limitato delle armi, mentre la sua controparte in lingua inglese riporta un articolo del War Tourist Magazine pronto a giurare sul verificarsi di questa particolare contingenza. Di certo, se ciò fosse vero, accrescerebbe ulteriormente la leggenda dei mostruosi mastodonti…