La terra TREMA quando questo uccello s’innamora

Flame Bowerbird

Perché nell’opinione della signora dell’uccello della pergola di fuoco, a quanto pare, non c’è niente di più attraente di un grazioso lui che si avvicina dondolandosi vistosamente, con la testa girata di lato, quindi si accovaccia e striscia sul tappeto di erbe, sterpaglia e licheni. Finché giunto nel punto determinato, egli non si trova tra due costruzioni artificiali di rametti, precedentemente predisposti per lo scopo, ove sollevarsi per dare princìpio allo spettacolo vero e proprio: con una postura curva, come il Fantasma dell’Opera, e pupille che si allargano e si stringono in maniera vagamente allarmante. L’ala sinistra che si agita, le piume rosse della gola che si gonfiano sempre di più, la coda usata come fosse l’approssimazione di un ventaglio. E il becco, spalancato. Per produrre un suono, oppure molti, scelti e riprodotti sulla base di quelli comunemente uditi in mezzo agli alberi della foresta della Papua: il grido delle scimmie? Un gorgoglìo di pappagalli? Il battito d’ali ritmico, in crescendo, di questi ultimi che lasciano il terreno verso mete inesplorate… Gutturale e melodioso, così lui continua, facendo su e giù, su e giù. Finché a un certo punto, rilevando che il suo pubblico è prossimo all’estasi, non solleva dal terreno un rotondissimo mirtillo. E quindi l’offre, o in altri termini lo mostra, a colei che attende concentrata l’attimo della perfetta ispirazione. A concedersi, o fuggire. Non è una scelta semplice, in determinati casi. Giacché la prassi evolutiva di questa famiglia dei ptilonorinchidi, altrimenti detti uccelli giardinieri, ha finito per attribuire soltanto alla femmina il dovere di scegliere un partner genitoriale degno di questo fondamentale nome. Il che diventerebbe all’apparenza tanto più irrilevante, quando si considera come nella maggior parte delle specie rilevanti il maschio non contribuisca in alcun modo a tirar su e nutrire i pulcini, preferendo continuare il suo tour artistico danzante per l’intera stagione primaverile ed estiva, tentando di guadagnarsi il maggior numero di conquiste amorose. Ma Cupido ed il suo arco, alla fin della fiera, hanno ben poco a che vedere coi successi conseguiti da una tale incostante meraviglia piumata. Tutto, nel suo destino, è piuttosto determinato dalla precisa scienza dei comportamenti e da una dote forse non immediatamente apparente in lui: una spiccata intelligenza. Che egli dovrà trasmettere per via genetica alla sua ridente prole.
Gli uccelli della pergola (letteralmente: Bowerbird) diffusi in tutta l’Oceania, incluse Australia, Indonesia e Papua Nuova Guinea, costituiscono in effetti alcuni degli esponenti più particolari e per certi versi avanzati dell’ordine dei Passeriformi, raggiungendo a tratti le complessità dello stile di vita dei corvi e degli uccelli della lira (Menura). Vivono inoltre molto a lungo, avendo raggiunto in almeno un caso documentato di un Ptilonorhynchus violaceus i venerandi 26 anni d’età. Il che gli consente di coltivare approfonditamente la loro incredibile arte della conquista passionale, fondata sulla più complessa combinazione di gesti, senso critico e persino architettura. La costruzione della struttura ad arco che da il nome al volatile, in effetti, non è il frutto di una capacità puramente istintuale, ma nasce piuttosto dalla pratica e dall’esperienza pregressa: nessun amatore, da princìpio, sa costruirla a regola d’arte, e originariamente deve accontentarsi di un accenno disordinato ed impreciso. Mentre le femmine, che tutto possono dirsi tranne che poco esigenti, scorgendo il risultato meno che perfetto scrollano l’ali e se ne vanno altrove. Così attraverso le cocenti delusioni, un anno dopo l’altro, gli sventurati artisti del rametto iniziano a capire cos’è che funziona, e cosa invece no. Giungendo, gradualmente, all’assoluta perfezione! Sarebbe in effetti un errore, ridurre il rituale di corteggiamento del “giardiniere” al mero intrattenimento danzante e canoro. Il suo stesso palcoscenico, tanto accuratamente messo assieme, è un concentrato di sapienza ed accorgimenti scenografici, arrivando ad essere abbellito, in determinate versioni, con pigmenti colorati che l’uccello ricava masticando delle bacche o foglie di vario tipo. Ed applicando quindi questo impasto risultante dall’incontro con la sua saliva, talvolta, mediante l’impiego di un vero e proprio pennello vegetale (generalmente un piccolo ramo) tenuto ben saldo nel suo becco. Gesto che costituisce, in effetti, uno dei pochi esempi dell’impiego di strumenti da parte di uccelli di qualsiasi tipo. Ma la bravura dell’aspirante Don Giovanni alato non finisce certamente qui…

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Il simbolo segreto che impedisce di fotocopiare le banconote

Eurion Constellation

Sotto il segno di una buona stella: così nasce un qualsivoglia tipo di valuta, nell’ottima speranza che lo Stato, e soprattutto il popolo che l’utilizza, possa renderla preziosa con la forza del buon lavoro, di un governo solido, la sua fiorente economia. Illuminata in primo luogo dalla forza di un simile splendore, se le cose vanno per il meglio, e invece in ogni caso da un’intera e differente serie di asterischi, piccoli ed opachi, ben nascosti nella filigrana. Si, consumatori: sto parlando di un disegno astrale, o in altri termini, la tipica costellazione. Cosiddetta nel presente caso, di EURione, per la somiglianza a quella del gigante cacciatore le cui scintillanti membra, nelle notti terse dalle nubi, fanno capolino per il tramite dell’atmosfera del pianeta. Ma la cui versione cartacea e monetaria restò estremamente poco nota al grande pubblico, almeno fino a quando lo scienziato informatico Markus Kuhn, alle soglie del 2002, si mise a fare esperimenti con la sua possente Xerox a colori. Scoprendo presto che qualsiasi tentativo di inserirvi delle banconote, per ottenerne una versione “fatta in casa” da impiegare a fini non del tutto chiari, portava soltanto alla fuoriuscita di un inutile foglio totalmente nero. Quando si dice, funzioni non documentate! Persiste ancora in determinati ambienti, in effetti, questa concezione del secolo scorso, per cui determinate funzioni di sicurezza incorporate nella vita di tutti i giorni dovrebbero essere ignote all’utente finale, che non deve sapere né preoccuparsi, ma soltanto trarne un beneficio sostanziale ed indiretto. Ma le banconote…Semplicemente non POSSONO essere così.
La stessa Banca Centrale Europea, negli ultimi anni, ha creato e gestisce un sito mirato a pubblicare una disanima dei suoi ultimi capolavori, tra cui l’avveniristico titolo di valuta dei 20 € della “Nuova Serie Europa” in circolo dal 2013, con stampa ad intaglio per creare effetti di rilievo, filo di sicurezza con incorporata denominazione, speciali inchiostri in grado di reagire all’infrarosso e una ricca quantità di filigrane. Mentre la stessa immagine di Europa la figura mitologica, madre del re Minosse di Creta, compare in trasparenza in una piccola finestra a lato della composizione, rigorosamente conforme allo stile Gotico del resto della scena (le nostre attuali banconote, se per caso non doveste averlo mai notato, sono ciascuna dedicata ad un specifica era dell’arte e dell’architettura). Eppure, nonostante tutto, nel portale citato non si accenna in alcun modo alla questione famosamente sollevata da Kuhn. Perché alcune macchine fotocopiatrici, per non parlare dei più famosi programmi di grafica, si rifiutano categoricamente di accettare l’immagine di tutte le principali banconote del mondo? O per meglio dire, come fanno a riconoscerle? La risposta è in un particolare pattern, che vi ricorre con costanza ineccepibile, per passare inosservato ai nostri occhi, e non invece a quello delle macchine, molto più attente. Nei nostri 20 € presi ad esempio, è una letterale serie di stelline, disseminate in corrispondenza della caratteristica curvatura sfumata che attraversa il numero più grande della banconota. Ma può presentarsi in molti altri modi: nei dollari è prefigurato negli zeri della denominazione ripetuta ad infinitum sul fondale, in prossimità del volto di questo o quel particolare padre fondatore della Nazione. Nei vecchi 10 € con la mappa, si trattava d’immaginarie e poco visibili isolette nascoste tra il Mediterraneo e il Mare del Nord. Nelle 5 sterline con la regina Elisabetta II da giovane, le stelle ricompaiono sospese come nel tuorlo di un uovo astratto a fianco del suo volto, oppure una giganteggiante impronta digitale.
Sono ovunque e noi non le notiamo, come del resto avviene con molte delle caratteristiche più avanzate della carta moneta, a meno che il nostro lavoro non ci porti a maneggiarla particolarmente spesso. Mentre di nascosto, i cinque tondini proteggono la sicurezza dei nostri SOLDI…

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Non fidatevi dei cervi che si inchinano tre volte a Nara

Cervi di Nara

Molti animali assumono significati differenti sulla base del luogo geografico in cui ci si trova e talvolta, non occorre neppure superare lo spazio di un intero continente, perché il concetto della sacralità finisca per imporsi su creature: il Cervus nippon o cervo maculato del Giappone, talvolta definito per antonomasia semplicemente sika (termine derivante da 鹿 – shika, la parola che vuole dire, per l’appunto, cervo) viene considerato in Hokkaido e nell’intero settentrione del suo paese d’appartenenza come una preda di caccia particolarmente pregiata e difficile da catturare, a causa della proverbiale “furbizia”, che lo porta a nascondersi invece di fuggire, evitando di lasciare tracce che possano tradire la sua presenza. Ma basta viaggiare per circa 1500 Km fino ai piedi del monte Wakakusa, ove la 43° regnante del Giappone, divina Imperatrice Genmei, fece fondare nel 710 d.C. la sua nuova capitale, per trovare un parco in cui questi artiodattili trascorrono giornate di serenità apparente, vagheggiando liberi tra la parte più storicamente rilevante dei celebrati e splendidi Sette Templi Buddhisti di Nanto, oltre ad un santuario shintoista che da sempre, in un certo senso, è come se fosse dedicato interamente a loro. Un luogo in cui naturalmente, come dettano le leggi del contemporaneo, i turisti si affollano in un fiume ininterrotto, che li porta inevitabilmente ad interagire con i cervi. Nell’unico modo che questi ultimi sono disposti a rispettare, ovvero offrendogli del cibo, o nello specifico alcuni particolari cracker di riso senbei, acquistabili a pacchi da 10 del costo unitario di 150 yen. Il che è gradevole per i quadrupedi, sicuramente, e divertente pure per gli umani, soprattutto in funzione dell’abitudine di questi animali ad inchinarsi ogniqualvolta una persona si avvicina con il pegno del suo affetto alimentare, esattamente come fanno in segno di rispetto i giapponesi, nelle circostanze sociali spesso (ma non sempre) corrispondenti al nostri stringerci la mano. Mentre la tradizione vuole, in questo caso, che i cervi in questione siano talmente “educati” da effettuare il gesto per ben tre volte prima di ricevere il boccone prelibato, principalmente in funzione della serie di mosse che il turista dovrebbe compiere prima di cedere al suo ospite cornuto: punto primo, mostrargli il cracker sopra la testa. Allora lui la punta verso il basso. Poi metterlo dietro la schiena, per ottenere il secondo convenevole richiesto dalla prassi. Quindi riportare lo snack nella posizione originaria perché lui/lei produca il terzo inchino, poco prima di ricevere la ricompensa meritata. Benché sia consigliabile, prima di procedere, dividere i senbei per lo meno a metà, onde massimizzare il numero d’inchini che si possono ottenere con una singola spesa dei fatidici 150 yen.
Fine della storia? Volendo. Ma se qualcuno avesse il desiderio di conoscere l’origine remota di una tale tradizione, e sopratutto il motivo segreto, nonché vagamente preoccupante, per cui i cervi sika effettuano l’inchino di fronte ai visitatori dei templi di Nara, credo di poter fornire alcuni dati a margine che troverete sorprendenti. Tutto ebbe inizio, secondo la leggenda, in un’epoca di molto anteriore a quella della fondazione di Nara (VIII secolo) quando le vicende mitologiche all’origine del Giappone stesso furono raccolte ed iscritte, su ordine della stessa Imperatrice, in un libro di cronache intitolato Kojiki, ovvero “Le cronache delle vicende antiche”. Ove si parlò della cosiddetta Nippogonia, ovvero la procedura magica attraverso la quale il padre degli Dei, Izanagi, assistito dalla sua consorte Izanami, infisse la lancia nell’Oceano sconfinato, dando l’origine alla terra del Sol Levante e dei samurai. Una storia certamente nota a qualunque nerd/otaku appassionato di manga che si rispetti. Mentre meno conosciuto è il fatto che un simile testo, in effetti, fosse stato scritto da Ō no Yasumaro, un burocrate dello stato appartenente, per l’appunto al clan con forti interessi mercantili degli Ō, famiglia da sempre devota ad una particolare divinità, ovvero il nume tutelare dei viaggi marittimi, associato per qualche ragione ai cervi: Takemikazuchi-no-mikoto, “colui che infonde il coraggio e la dannazione”. Ora come è noto, purtroppo la madre degli dei Izanami morì di parto, quando per un fato inevitabile si ritrovò a dover dare i natali, assieme a tutti gli altri esseri sovrannaturali di questo mondo, anche a Kagutsuchi il maledetto, nume incandescente del fuoco stesso. Venuto a sapere della terribile notizia, quindi, suo marito Izanagi fu pervaso da una furia incontenibile, ed impugnata la spada Ame-no-ohabari decapitò immediatamente il figlio indesiderato. Ma poiché la Terra non ha aveva ancora ricevuto tutti gli Dei di cui aveva bisogno, dal sangue del malcapitato, per un prodigio straordinario, nacquero  altri 16 kami (spiriti del mondo) tra cui, guarda caso, Takemikazuchi-no-mikoto. Un essere dal futuro fulgido, che avrebbe partecipato alla conquista delle Terre di Mezzo dal parte del clan regnante di Yamato, sconfiggendo la divinità locale Takeminakata in quello che sarebbe stato poi considerato il primo incontro di sumo della storia. E che avrebbe ricevuto un grande tempio a Kashima, nell’odierna prefettura di Ibaraki. Gli Dei tuttavia, come è loro prerogativa, sono grandi viaggiatori, e si dice che in un giorno imprecisato questo sovrano del cielo fosse salito in groppa al suo cervo bianco gigante, per recarsi presso la capitale meridionale di Nanto (l’odierna Nara) al fine di recare la buona notizia agli uomini rispettosi di quelle terre: proprio lì sarebbe sorto un altro santuario, il Kasuga-taisha, dedicato a lui ed a tutti i suoi divini fratelli. Quindi se ne andò, volando via. Mentre la sua mitica cavalcatura dalle corna ramificate, accoppiandosi coi cervi locali, diede l’origine ad un immortale progenie…

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Una visita virtuale al nuovo museo delle uova di Fabergé

Faberge Museum

A San Pietroburgo, dentro al palazzo del ‘700 di Naryshkin-Shuvalov, inizialmente progettato dall’architetto italiano Giacomo Guarenghi per quella che sarebbe diventata una delle amanti di Alessandro I di Russia (1777-1825) dal 2013 si trovano nove degli oggetti più incredibili nell’intera storia dell’umanità. Che non possono definirsi rari, semplicemente perché sono unici, per l’abilità, la scelta segreta dei metodi e lo specifico volere di colui che li creò, nonché in forza del contesto completamente irripetibile che poté permettere la loro straordinaria concezione. Sono davvero pochi, al giorno d’oggi, a non conoscere la storia quasi leggendaria delle uova di Fabergé, nate dall’incontro di un gusto estetico che sarebbe impossibile non definire, a pieno titolo, Barocco, con l’inesauribile pool di risorse, tecnologiche e procedurali, offerte dalle prime propaggini tentacolari della modernità. Quando il celebre gioielliere con madre danese e padre tedesco Peter Carl Fabergé realizzò per la prima volta, su richiesta del 1885 del penultimo zar di Russia Alessandro III, un ineccepibile regalo di Pasqua per la sua amata moglie Marija Fëdorovna, lo fece nelle sue vesti del più prestigioso fornitore ufficiale della casa reale. Una posizione che dava diritto a numerosi vantaggi economici e di status professionale, tali da garantire che ogni minimo dettaglio dell’oggetto fosse realizzato con un’attenzione ai particolari totalmente priva di precedenti. La costruzione di un singolo uovo della lunga serie che sarebbe iniziata così, secondo quanto ci è dato di sapere, poteva in effetti richiedere molte settimane o mesi, al punto che alcuni dei migliori richiesero, secondo fonti ufficiali, l’intero anno a seguire dal momento in cui fu consegnato l’uovo precedente. E sarebbe forse un’esagerazione giungere a definire, tali dimostrazioni di sfarzo ed opulenza, come un segno preliminare dell’incipiente globalizzazione. Ma è anche vero che per costruire i suoi pezzi più celebrati, Fabergé importò materiali da mezza Europa, rivolgendosi ad esempio in Svizzera per i meccanismi, e fino ai paesi scandinavi per trovare dei pittori degni di realizzare le miniature che talvolta venivano incluse nel pezzo. Sfruttando quel sistema d’internazionalizzazione dei commerci che era stato costruito e mantenuto efficiente, nei lunghi secoli precedenti, proprio da quella classe dirigente di cui facevano parte i Romanov, ormai percepita come totalmente slegata dal concetto del vivere comune. E naturalmente, questi oggetti ci affascinano e colpiscono la nostra fantasia! Dove mai, prima d’allora, sarebbe stato possibile trovare una concentrazione simile di spunti drammatici e persino risvolti fiabeschi, alimentati, piuttosto che annientati come sarebbe dovuto succedere nell’idea dei Bolscevichi, dalla tragica fine a cui andò incontro questa intera famiglia…
Così oggi, due secoli dopo, è possibile fare il proprio ingresso dal portone principale di questo edificio neoclassico, sito sul fiume Fontanka nel centro della seconda città di Russia ed ammirare fra gli altri un uovo. L’Uovo. Il primo di tutti, alto 64 mm ovvero poco più di quello di una gallina, che appare perfettamente bianco ma è in realtà d’oro smaltato. Il quale poteva essere aperto, per rivelare al suo interno una sfera rappresentante il tuorlo, gialla e splendente come si confà a quello stesso metallo in cui era stato realizzato. Ma le meraviglie di questa ragionevole approssimazione della realtà aviaria non finivano certamente qui: aprendo tale forma infatti, sotto gli occhi della zarina si sarebbe palesata una scatola a forma di gallina, con al suo interno un gioiello che oggi è andato perduto, probabilmente una spilla o degli orecchini. Perché fu sostanzialmente questa, l’unica regola imposta dallo zar al suo gioielliere: che le sue opere contenessero sempre, come si confà alla tradizione pasquale, un qualche elemento totalmente imprevisto e sorprendente. E l’idea ebbe un tale successo che da quel momento, i laboratori di Fabergé non smisero mai di produrre delle nuove versioni dell’idea, sia ad uso e consumo della nobiltà che, annualmente, su specifica richiesta del regnante zar. Una prassi mantenuta viva anche dal suo figlio primogenito Nicola II, che regnò a partire dal 1894, per la morte imprevista di Alessandro III sopraggiunta all’età di soli 49 anni. Con una significativa differenza: a partire da quel momento, le uova annuali furono due, una per la madre Marija e l’altra per sua moglie, Aleksandra Fëdorovna Romanova. Da lì, insomma, iniziò un crescendo…

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