“O diablo, te digo. Porque você não acredita em mim?” Il tono di voce dell’uomo era stridulo, il suo sguardo atterrito. Francisco aveva preso in esame l’interlocutore che si era precipitato all’interno del centro di protezione degli uccelli della città di San Isidro, a 23 chilometri da Buenos Aires, visibilmente ubriaco già verso la metà di un caloroso pomeriggio d’estate. “Non è che non ti credo. Vorrei capire perché sei venuto da me!” Aveva risposto, rivolgendosi al testimone della strana presenza fuori contesto, il quale immediatamente assunse un’espressione offesa ed indecifrabile. Quindi, spalancando gli occhi, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un qualcosa di piccolo, peloso ed a giudicare dal sangue, transitato recentemente a miglior vita. Francisco lo guardò bene: era un topo morto. Al topo morto mancava la testa.
Puntando la sua telecamera lontano dalla luce dei lampioni e verso la piccola isola di giungla completamente circondata dai palazzi della periferia urbana, l’uomo degli uccelli con specializzazione nei rapaci pensò nuovamente alla sua prima impressione: “Ho davanti a me un fole visionario, per di più inebriato” ma poi aveva iniziato ad interrogarsi in merito alle specifiche circostanze del caso. Creature cornute, demoni dell’inferno, misteriosi uccisori di tutto ciò che corre rumorosamente nel sottobosco: il folklore dei secoli ne aveva nominati molti. Ed ogni volta che si provava a scavare a fondo, la verità dei fatti finiva sempre per puntare nella stessa indiscutibile direzione. Quella dei gufi, allocchi e civette che si stagliano contro la luce della Luna notturna. Passarono altri 40 minuti di appostamento, mentre Francisco ripercorreva nella sua mente tutte le specie che avrebbero potuto palesarsi innanzi a lui da un momento all’altro. E fu allora che un suono sommesso, al culmine dell’attesa, attirò la sua attenzione verso il confine tra la zona illuminata e l’abisso inscrutabile degli alti arbusti. Puntò la torcia elettrica, e fu allora che le vide: due sfere rosse sospese nell’aere, come gli occhi dello stregatto di Alice, con sotto una serie di righe di color bianco e nero. Francisco trattenne un’esclamazione udibile di trionfo “Louvado seja, zebra” Gufo dei miei sogni proibiti. Agente alato di colui che può decidere, nel regno degli uomini che mai furono in grado di annichilirne l’esistenza.
Persecuzioni, superstizione, odio immotivato hanno per lungo tempo contribuito a ridurre la diffusione dei gufi nell’interno territorio sudamericano, qualificando l’uomo come principale nemico di questi esseri che avrebbero dovuto costituire, idealmente, dei superpredatori all’interno del proprio ambiente. Caratteristica tale da giustificare un’indole marcatamente solitaria, rendendo gli occasionali avvistamenti tanto più rari e con il proseguire dei secoli, significativi. Ragion per cui tutto quello che sappiamo su alcune particolari specie, caratterizzate da un areale vasto ma che tende a interrompersi ogni qualvolta ci si avvicina a territori più densamente abitati, deriva dagli occasionali avvistamenti ed alcune sporadiche osservazioni, d’esemplari finiti per lo più fuori dal proprio habitat naturale, per scontarsi ancora una volta con le credenze pregresse del malaugurio ed il sacro terrore folkloristico/religioso. Un’ideale condizione in cui possiamo facilmente collocare, nel nostro filo d’analisi, la vicenda in epoca moderna e contemporanea del magnifico uccello chiamato in territorio locale Coruja-preta (gufo nero) o più correttamente, gufo dalle strisce bianche e nere o ancora, allocco zebrato. E che in ambito scientifico, sembrerebbe conservare un certo livello d’incertezza in merito alla sua posizione nell’alto e complesso albero della vita…
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La vera storia delle pulci che si affollano sui cumuli di neve
Fresca, dolce, chiara ed attraente stracciatella. Chi non ama dare un morso a quel gelato? Chi non vuole assaporare il voluttuoso gusto dell’estate? Ma in inverno il ghiaccio è solamente quello: ciò che guardi ma non tocchi, mantenendo quel contegno gelido e distante. Acqua congelata, vade retro, piuttosto che subire lo scivolamento resto a casa! Io, l’umano… Ma se fossi nei tuoi panni chitinosi, in linea puramente ipotetica, piccolo collembolo del sottobosco offuscato dall’effetto della luce che riscalda, non esiterei ad emergere in siffatto modo. Strisciando, danzando, amando nel mio modo la stagione. Assieme a qualche migliaio, se non dieci volte tanto, dei miei simili dagli occhi spalancati, scagliosi e zampettanti come il mostriciattolo di un vecchio sparatutto della sala giochi.
Il bello di questi entognati esapodi facenti parte del gruppo dei Paraentoma, assieme ai Protura e Diplura, è che nonostante le apparenze non appartengono affatto alla grande classe degli artropodi che prende il nome d’insetti. Né a quella degli aracnidi, benché abbiano abitudini ragionevolmente comparabili a quella dei cari amici acari, inquilini inevitabili delle nostre case. Giungendo quindi ad occupare, piuttosto, un ramo meramente parallelo del grande albero della vita, che nonostante le apparenze vanta un periodo d’esistenza almeno abbastanza antico, se non addirittura antecedente al resto del consesso artropode macroscopico. Databile, in buona sostanza, fino al periodo Devoniano (416 – 359 milioni di anni fa) come ampiamente dimostrato grazie al ritrovamento di esemplari fossili all’interno dello strato geologico del Lagerstätte di Rhynie, in Scozia, perfettamente immortalati alle alte pressioni dei processi trasformativi del sottosuolo. Del tutto riconoscibili, coi loro tre segmenti toracici, sei addominali del il protorace sporgente, simile alla testa di un vertebrato quadrupede dei nostri giorni. Ponendo le basi per un valido termine di paragone occasionalmente ripetuto, che vedrebbe i detritivori springtail (nome comune anglofono significante “coda molleggiata”) associati ai conigli della tranquilla campagna inglese, tanto inoffensivi quanto prolifici, che senza nessun predatore a regolamentarne il numero popolerebbero semplicemente l’intero spazio disponibile, replicando ad infnitum la loro perfettisima identità evolutiva. Il che assume proporzioni nettamente più serie, quando si considera come questi esseri costituiscano in maniera collettiva una delle biomasse maggiormente significative dell’intero pianeta Terra, con una densità capace di aggirarsi occasionalmente attorno ai 100.000 esemplari per metro quadro. Riuscendo a sostituire l’immagine della stracciatella con la visione fantascientifica della temibile “poltiglia grigia”, l’ipotetico agglomerato di nanomacchine sfuggite al controllo, destinate ad invadere e divorare tutto quanto. Esagerato? Senz’altro. Ma non privo di una certa base nella percezione ecologica di questi animali, che dal nostro punto di vista ci sono sempre stati, e senz’ombra di dubbio riusciranno a sopravvivere alla nostra transitoria civiltà umana. I collemboli sono del resto, a diffusione cosmopolita, benché i loro ambienti preferiti debbano necessariamente sottintendere un certo grado di umidità, a causa del loro sistema respiratorio basato sulla traspirazione, particolarmente inefficiente durante i periodi successivi alle frequenti mute. Però posseggono almeno un utile strumento per resistere all’assalto dei predatori: l’arto mobile posizionato al centro del loro addome, simile a una coda ma girato in avanti, che prende il nome di forcula e si trova normalmente posizionato a ridosso del corpo. Finché la creatura non rileva un qualche tipo di pericolo e senza particolari esitazioni, lo fa scattare in modo estremamente rapido verso il basso, balzando in aria per un’altezza nell’ordine dei 10-20 centimetri, pari a svariate centinaia di volte la lunghezza del loro corpo. In altri termini, un’impresa paragonabile a quella di uno di noi che all’improvviso decidesse di scavalcare in un sol balzo la torre Eiffel. Per poi far ritorno, senza attarsi, nel suo esatto punto di partenza. Poiché primaria è per questi esseri, la distribuzione in determinati recessi dello spazio naturale…
La lunga ricerca del più grande nido mai costruito da un uccello terrestre
Vedere per credere, toccare con mano per sperimentare la sensazione. Sedersi dentro per trasformarsi nell’approssimazione antropomorfa di un gigantesco pulcino implume, fatta eccezione per il cappello da ranger e la giacca color verde militare. La vita del ranger è piena di sorprese ed una delle più piacevoli può essere collocata di questi tempi, grazie a una foto che sta ottenendo un significativo successo su Internet, presso lo Hueston Woods State Park di Preble County, Ohio. Dove qualcosa di sovradimensionato sembrerebbe essersi posata a terra, armata di becco, rametti ed il coraggio di usarli, mettendo assieme la più sfolgorante abitazione per volatili. Ben 2,5 metri di diametro per almeno uno e mezzo di profondità, tali da permettere a chiunque ne provi il desiderio di sedersi all’interno, per ponderare la propria condizione assieme al sogno di prendere il volo che un tempo fu, per Leonardo da Vinci, una ricerca programmatica dei propri codici più interessanti. Ciò detto, pubblicare l’immagine in questione sul sito del parco naturale sembrerebbe aver sollevato, a suo tempo nel 2017, non poche critiche accese da parte di chi non si prese la briga di leggere la didascalia; dopotutto, gli americani possono tollerare molte cose. Ma NON sottrarre per studio la nursery a un uccello simbolo della nazione, la Haliaeetus leucocephalus o splendida aquila di mare testabianca, costringendola presumibilmente in una sorta di semplice attrazione per turisti. Mentre un’analisi più approfondita, o la semplice voglia di usare la logica avrebbe aperto gli occhi dei detrattori verso alcune significative incongruenze. Prima tra tutte, la presenza di una rete metallica all’interno del nido, per poter tollerare meglio il peso e l’ingombro di una figura umana. Per non parlare dei giganteschi “rami” fin troppo perfetti, apparentemente usciti dal tipico diorama museale di un’epoca preistorica ormai perduta. Quello che urge sapere per giungere ad un’interpretazione realmente corretta della faccenda, tuttavia, è il modo in cui l’intera costruzione risulti essere assolutamente in scala reale, piuttosto che ampliata per valorizzare i più minimi dettagli. Volendo rappresentare nient’altro che un una dimensione possibilmente media, per l’essere che costituisce il costruttore di nidi arboricoli più alti nell’intero corso della storia evolutiva terrestre.
Non lo pterodattilo (che lasciava i suoi piccoli a schiudersi all’interno di una buca nel terreno) e probabilmente neppure le mega-colonie del passero tessitore, sebbene talvolta l’agglomerato dei loro nidi possa raggiungere le proporzioni accidentali di una vera e propria piccola città pigolante. Laddove parrebbe esserci qualcosa di estremamente speciale nel concetto stesso di un grande uccello il quale, mantenendosi monogamo per tutta la vita, fa ritorno per 20, 30 anni nello stesso luogo, ogni volta ampliando e restaurando il suo sopraelevato grattacielo. Vi sono, tuttavia, casi estremi in cui gli stessi eredi di una coppia hanno continuato ad utilizzare l’abitazione dei propri genitori, come nella celebre osservazione del nido fotografato per la prima volta nel 1805 presso un’isola del fiume Missouri, da J.C. Cowles. E che 55 anni dopo, il capitano ed esploratore William F. Raynolds ritrovò perfettamente invariato, nello stesso identico luogo. Struttura di cui non fu mai misurata l’ampiezza, benché possiamo presumere, nonostante tutto, che avesse mancato di raggiungere anche soltanto il record ufficiale registrato nel libro d’oro dei Guinness contemporanei, tale da far impallidire lo stesso costrutto artificiale dello Hueston Woods State Park.
L’impressionante cicogna preistorica che sorveglia le discariche indiane
Ogni persona con un ruolo definito, ogni essere instradato al suo destino deciso dal grande schema delle cose. La suddivisione in classi della società indiana, fin dall’epoca di Vasco de Gama all’inizio del XVI secolo, fu immediatamente chiara ed apprezzabile in quanto utile agli esploratori europei, giunti nel subcontinente indiano con l’intenzione di commerciare, colonizzare, conquistare nuovi territori. Kshatriya: i guerrieri; Brahmani: gli intellettuali; Vaishya: i mercanti; Shudra: i servitori. E naturalmente loro, i Dalit o intoccabili, persone condannate per nascita a svolgere i mestieri che il sistema culturale di questi popoli insiste tutt’oggi a ritenere impuri. Aiutati tradizionalmente, in tali mansioni, da almeno una distinta figura dal mantello di piume bianche e nere, capace di comparire per le strade di Calcutta ogni qualvolta un cadavere giaceva troppo a lungo abbandonato in un vicolo o in prossimità del sacro fiume: l’essere chiamato hargila ovvero in lingua bengalese “il mangiatore di ossa” per la sua capacità di trangugiare col lungo becco simile a una spada e digerire nel grosso stomaco fino all’ultimo residuo più o meno commestibile di un povero defunto. 136 cm in altezza di media e fino a 5 Kg di peso, per questo uccello al tempo stesso disprezzato per il suo contegno simile a quello di un avvoltoio e tenuto in alta considerazione dagli amministratori locali, visto il contributo dato all’eliminazione di pericolose fonti di malattie infettive. Caratterizzato dal nome latino Leptoptilos dubius e un aspetto coerentemente bizzarro inclusivo di vistosa sacca pendula al di sotto della gola, non collegata all’esofago ma con l’unico apparente scopo di gonfiarsi e colorarsi di rosso durante la stagione degli accoppiamenti, la testa completamente glabra e le lunghe zampe biancastre, perché coperte quotidianamente di guano per l’antica pratica aviaria dell’urohidrosi, finalizzata a dissipare una parte del forte calore tropicale.
Ma è soltanto spostandosi di circa 500 Km a nord-est, fino alla regione di Assam ed in modo particolare sulle rive del lago Deepor Beel, presso la città di 800.000 abitanti di Guwahati, che già allora era possibile osservare la più grande concentrazione globale di questi alati visitatori, esteriormente simili al marabù africano e soprannominati dagli anglofoni adjuntant stork (cicogna aiutante di campo) con riferimento al relativo funzionario militare, per loro camminata marziale dall’incedere perennemente battagliero. Complice la progressiva riduzione degli habitat, ulteriormente agevolata dalla cattiva reputazione accumulata negli anni da questi uccelli spesso problematici ed innegabilmente ingombranti, la stragrande maggioranza dell’attuale popolazione rimasta di appena 1200-1800 esemplari si sarebbe ritirata proprio in questi luoghi, in prossimità di quella che al novero attuale costituisce una delle singole discariche più vaste di tutta l’Asia meridionale. Letterali chilometri quadrati di rifiuti, provenienti dall’intero stato di Assam e ben oltre i suoi stessi confini, quotidianamente visitati da uomini, donne e bambini abituati a sopravvivere mediante il laborioso (e pericoloso) riciclo di tutto ciò che può ancora mantiene un potenziale valore pecuniario, per quanto insignificante. Avendo nel contempo imparato a dividere gli spazi e relativi luoghi d’interesse con tali notevoli eredi dei dinosauri di un tempo, tanto imponenti quanto relativamente mansueti, a patto di rispettare il concetto inter-specie di una ragionevole sfera d’influenza. Un qualcosa di tanto maggiormente difficile da applicare, sulla sfera maggiore di un’intera nazione…